Jalal Al-e Ahmad (1923-1969) è largamente percepito, in particolar modo in Iran, come uno degli intellettuali più prolifici dell’epoca post-Mossadeq e pre-Khomeini e uno tra i principali ideologi della rivoluzione islamica del 1979.
L’apprezzamento nutrito nei suoi confronti da parte del regime degli Ayatollah è bastato per alimentare, nel corso degli anni, una fitta nube di pregiudizio attorno alla sua figura. Eppure l’intera opera di Al-e Ahmad, oltre a mettere in luce la personalità di un intellettuale originale ed indipendente, offre utili coordinate per comprendere alcuni aspetti della società iraniana contemporanea.
Fuori dall’Iran Al-e Ahmad non ha ricevuto la stessa attenzione che è stata dedicata ad altri autori a lui contemporanei (Ali Shariati, Ebrahim Golestan, Forough Farrokhzad, Reza Baraheni). La scarsità di traduzioni non rende giustizia ad un autore che, oggi più che mai, merita di essere riscoperto e compreso a pieno.
Nel 1969, anno della sua morte, Jalal Al-e Ahmad aveva già pubblicato più di trenta lavori tra romanzi, racconti, saggi di critica sociale, cronache di viaggio, studi etnografici, traduzioni dal francese di opere di Sartre, Camus, Gide, Dostoevskij e Ionesco.
Jalal oddin Sadat-e Al-e Ahmad nasce nel dicembre del 1923 in una famiglia benestante ed estremamente religiosa. Suo nonno, suo padre e suo fratello maggiore erano membri del clero sciita e suo cugino, Mahmoud Taleghani, diventerà il primo Emam Jomeh (mollah scelto dal leader supremo per officiare durante la preghiera del Venerdì) di Tehran dopo la rivoluzione islamica.
Senza dubbio la formazione di Al-e Ahmad è stata influenzata fortemente dall’osservanza delle tradizioni islamiche, presente nella sua famiglia da tre generazioni. Nel 1932, per via di un decreto regio che privava i mollah dell’autorità giuridica e notarile, la famiglia Al-e Ahmad perde gran parte dei suoi privilegi e Jalal è costretto a lavorare come riparatore di orologi al bazaar. Interpreterà questa decisione come un tentativo da parte del padre di condizionare la sua formazione. Per questo motivo, di nascosto, inizia a frequentare le classi serali ed ottiene il diploma nel 1943.
Nello stesso anno, sempre per ordine del padre, si reca prima a Najaf e poi a Kerbala, entrambi luoghi sacri agli sciiti, con l’intenzione di proseguire gli studi teologici a Beirut e diventare mollah come suo fratello maggiore. Dopo solo tre mesi abbandona gli studi e rientra in Iran, definendo la sua esperienza nei luoghi santi come una “trappola premeditata” dal padre e dal fratello maggiore. L’impatto negativo di questa esperienza lo porta ad una rottura con la famiglia e con i valori religiosi: in segno di protesta inizia a pregare “alla maniera sunnita”, si rifiuta di recitare il Corano e frequentare la moschea.
Nel 1944 si iscrive al Tude (Partito Comunista Iraniano) di cui abbraccia con entusiasmo l’ideologia leninista e il messianismo rivoluzionario. In soli quattro anni Jalal Al-e Ahmad diventa membro del comitato centrale, delegato al congresso nazionale e direttore della casa editrice del partito. Proprio grazie ai mezzi forniti dal partito pubblica le sue prime raccolte di racconti: “Did va bazdid” (Scambio di visite, 1945), “Setar” (Il setar, 1946), “Az ranji ke mibarim” (Le nostre sofferenze, 1947), questi ultimi definiti da Al-e Ahmad come “storie di sconfitte politiche [del partito comunista, ndr], narrate in uno stile real-socialista”. Nel 1947 ottiene l’abilitazione all’insegnamento e nell’anno scolastico 1955-1956 accetterà un posto da direttore in una scuola elementare nel nord dell’Iran.
Questa esperienza sarà alla base del celebre romanzo “Modire madrese” (Direttore di scuola), annoverato tra le più importanti opere della letteratura iraniana contemporanea. Il romanzo, mescolando finzione e autobiografia, è in realtà una critica feroce al sistema educativo iraniano. Il 1947 segna anche la rottura di Al-a Ahmad con il partito comunista e il suo “dogmatismo stalinista”. Insieme ai dissidenti formerà l’Hezb-e Zahmatkeshan-e Mellat-e Iran (Partito Iraniano dei Lavoratori) e in seguito Niruy-e Sevvom (Terza Forza). Abbandonerà definitivamente la militanza nel 1953, poco prima del golpe che riporterà sul trono Mohammad Reza Pahlavi.
Nei cinque anni di pausa dalla scena politica (1947/1951), Jalal Al-e Ahmad si dedica alla traduzione dal francese di opere di Camus (Lo straniero), Sartre (Le mani sporche), Gide (Ritorno dall’URSS), Ionesco (Il rinoceronte), Dostoevskij (Il giocatore). Supporta animosamente Nima Yooshij, massimo esponente della poesia iraniana contemporanea e le sue sperimentazioni stilistiche. Nel 1951 pubblica la raccolta “Zan-e Ziyadi” (La donna di troppo), serie di racconti brevi, un riflesso di Jalal sulla condizione delle donne nella sua famiglia e in generale nella società iraniana. In questi anni sposa la scrittrice Simin Daneshvar, il cui romanzo Savushun è anche il primo ad essere stato pubblicato da una donna in Iran.
L’impossibilità da parte di Jalal e Simin di avere figli segna profondamente la coppia e nel romanzo “Sangi Bar Guri” (Una pietra sulla tomba), pubblicato postumo, Al-e Ahmad affronta il tema della paternità: da una parte il rapporto travagliato con suo padre, con il quale non riuscirà mai a riconciliarsi, dall’altra la sua impossibilità di diventare padre.
Il decennio 1953/1963 è il più prolifico della carriera di Al-e Ahmad che conduce infatti tre indagini etnografiche nei villaggi di Takistan e Aurazan (paese di origine di suo nonno) nel nord dell’Iran e nell’isola di Kharg nel Golfo Persico. In questi luoghi entra in contatto con il mondo del sottoproletariato contadino, un mondo “perduto e allo stesso tempo ancora superiore”. Queste esperienze sono di grande importanza per comprendere il conseguente “ritorno all’Islam” di Jalal.
Nel 1961 pubblica il romanzo “Nun va ‘l qalam” (La “N“ e la penna), un’allegoria del fallimento della sinistra nella politica iraniana. Contemporaneamente Al-e Ahmad fa circolare clandestinamente la prima edizione di “Gharbzadegi” (Occidentosi), una violenta invettiva contro la debolezza e la passività degli iraniani nei confronti della cultura occidentale. Il libro, uscito nel 1962, viene immediatamente ritirato dalla censura.
Una seconda edizione verrà pubblicata nel 1968 e riscuoterà finalmente un enorme successo, tanto da diventare il manifesto dell’anti imperialismo iraniano. Secondo Al-e Ahmad lo sfruttamento delle risorse da parte di inglesi e americani, è la conseguenza di un imperialismo culturale ancora più pericoloso, sviluppatosi nel corso della storia all’interno della società iraniana.
Più interessante, “Gharbzadegi” mette in risalto le contraddizioni generate dall’ingresso della modernità e del consumismo in una società ancora profondamente tradizionale come quella iraniana. Comprimendo circa tre millenni di storia dell’Iran in poco più di cento pagine, Jalal Al-e Ahmad sviluppa così la sua “teoria della dipendenza”, anche se in maniera meno sistematica rispetto ad altri autori terzomondisti. L’espressione “gharbzadegi” è diventata di uso comune in Iran per indicare quei soggetti il cui pregiudizio è dettato da un complesso di inferiorità nei confronti dell’Occidente.L’Occidentosi è un male a due teste: una è l’Occidente e l’altra siamo noi, gli occidentotici, un angolo dell’Oriente. Con “Occidente” io intendo l’Europa, l’Unione Sovietica e il Nord America, le nazioni sviluppate e industrializzate capaci di usare la tecnologia per trasformare materie grezze in forme più complesse, tali da poter essere vendute come merci. Queste materie prime non sono soltanto ferro, minerali e petrolio, o budella, cotone e gomma adragante; sono anche miti, dogmi, musica e mondi superiori. L’altro polo è costituito dall’Africa e dall’Asia, le nazioni arretrate, non industrializzate o in via di sviluppo che sono state trasformate in nazioni consumatrici delle merci occidentali. In ogni caso, le materie prime di questi prodotti provengono da paesi in via di sviluppo: il petrolio dalle coste del Golfo, la canapa e le spezie dall’India, il jazz dall’Africa, la seta e l’oppio dalla Cina, l’antropologia dall’Oceania e la sociologia dall’Africa.
Tra il 1962 e il 1968 viaggia in America, Unione Sovietica, Israele, Arabia Saudita e pubblica i suoi resoconti in una forma che mescola cronaca e critica. In “Safar dar velayat-e Asrail” (Viaggio nella repubblica di Israele), recentemente tradotto in inglese, Al-e Ahmad racconta la sua esperienza nel kibbutz Ayelet Ha’Shahar, nel nord di Israele, negli anni immediatamente precedenti la guerra del 1967. “Khasi dar mighat” (Una foglia al Mighat), del 1966, racconta il viaggio alla Mecca, un ritorno esistenziale ed ideologico all’origine, profondamente significativo per lo sviluppo intellettuale di Al-e Ahmad.
Se in “Gharbzadegi”, infatti, rigetta l’atteggiamento del clero sciita, colpevole di “essersi ritratti nel loro guscio, persi nell’abisso della tradizione”, in seguito raggiungerà la convinzione che solo lo sciismo, ideologia autenticamente radicata nella tradizione iraniana, può costituire l’antidoto al “virus” dell’Occidentosi. Questo messianismo sciita, intriso di marxismo, è secondo Jalal l’unica ideologia autenticamente rivoluzionaria, la sola capace di mobilitare le masse verso la rivoluzione e il riscatto sociale. Dove il comunismo aveva fallito, l’unità sciita (vahdat-e shie) avrebbe potuto trionfare. Questo “ritorno all’Islam” di Al-e Ahmad, più che una rivelazione mistica, sembra essere l’esito della sua analisi materialista della storia, frutto della sua formazione marxista.
In “Dar khedmat va khianat roshanfekran” (Sul servizio e il tradimento degli intellettuali), un’aspra critica al disimpegno politico degli intellettuali iraniani, pubblicato postumo nel 1978, Jalal definirà il dialogo tra Rohanyat (il clero) e Roshanfekran (gli intellettuali) come l’unica via percorribile verso l’indipendenza e il progresso della sua terra.
Nel suo ultimo romanzo “Nefrin-e Zamin” (La maledizione della terra), pubblicato nel 1968, torna a trattare problematiche sociali in senso più ampio, dalla riforma agraria alla meccanizzazione, dalla leva obbligatoria all’istruzione.
Jalal Al-e Ahmad muore per un arresto cardiaco il 9 settembre del 1969, nella sua casa di Asalem, un villaggio nel Nord dell’Iran. In molti hanno anche avanzato l’ipotesi, senza fornire prove, che sia stato assassinato dal Savak, la polizia segreta del regime Pahlavi.
Pur avendo abbandonato la militanza politica sedici anni prima, Jalal Al-e Ahmad non ha mai abbandonato il suo impegno politico, credendo fermamente che arte e militanza siano reciprocamente imprescindibili. Dai sui lavori emerge una personalità riflessiva e allo stesso tempo in costante fermento; un’interessante produzione letteraria la cui forza e agitazione visionaria hanno segnato la letteratura iraniana contemporanea.
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