Una fiction Rai nientemeno che su Fabrizio De André non poteva non
generare reazioni manichee, e così puntualmente è stato. Chi l’ha
trovata orribile, noiosa, falsa; a chi invece è piaciuta, estasiato
dall’interpretazione di Marinelli o dal realismo tabagista.
Inevitabilmente affrontare di petto la vita e l’opera di De André, negli
anni divenuto icona della cultura italiana del secondo Novecento, porta
a giudizi trancianti e passionali. Cercheremo di mettere da parte
l’immediato giudizio di valore, per quanto condividiamo l’opinione
nazionalpopolare su De André: nonostante sia stato volgarmente
monumentalizzato, rimane un gigante della cultura italiana, pur nelle
sue straordinarie contraddizioni e nel suo moralismo al tempo geniale e
fastidioso.
Fabrizio De André è stato un uomo talmente complesso e dilaniato da
contraddizioni che hanno partorito un’opera altrettanto multiforme e
contrastante, che restituirla in un prodotto cinematografico – e peggio
ancora in una fiction – è impossibile. Bisogna operare dei tagli,
ridurre la portata del suo percorso a delle linee guida, estrapolare dal
suo prodotto un significato che attraversa l’opera nel suo insieme.
Così non è stato fatto. Canzoni, progetti e album rimangono (molto)
sullo sfondo. Se qualcuno fosse interessato a capire quali ragionamenti
avessero sorretto la scrittura della Buona novella nel 1970, o di Rimini del
1978, non ne troverà traccia. Dove sta la contraddizione in De André?
Quale il suo rapporto tra impegno politico, idea del mondo, condizione
sociale, cristianesimo, uomo? Niente. L’unica contraddizione su cui si
insiste è quella, insopportabile, dell’artista maudit che, nonostante ciò, riesce a inanellare capolavori insuperabili come La guerra di Piero o Via del Campo.
Il problema principale della fiction è allora quella di raccontare
(bene, male, non è questo il problema) un uomo pacificato. Viene espunto
qualsiasi riferimento al conflitto, tanto interiore – fortissimo –
quanto col mondo esterno. Non parliamo del contesto. La mobilitazione
politica e sociale di quegli anni viene, semplicemente, annullata.
Eppure questa sarà al centro del De André degli anni Settanta, lo
dilanierà addirittura, tormentato dal rapporto tra etica e politica, in
lui risolto in un moralismo ambivalente che lo porterà subito a
condannare il suo album forse più bello e imperfetto: Storia di un impiegato (bello
e imperfetto proprio perché oggi è d’uso criticarne la facile morale,
ma dietro la dicotomia stereotipata c’era una tormenta esistenziale
vera, non una posa post-moderna). Non si capisce nulla di
questo De André, via di mezzo tra Paolo Villaggio e Luigi Tenco. Se si
vuole ridurre la portata di un artista a due o tre ore di fiction,
bisogna metterne in risalto la sua essenza. Ed è questa ad esserne
uscita snaturata. De André è uomo del conflitto tra morale borghese e
natura umana spogliata della condanna del peccato. Inutile rintracciare
un percorso artistico in questa lotta, la fiction decide di aggirare il
problema.
Per il resto, se ci accontentiamo di galleggiare in superficie,
possiamo parlare di prodotto ben confezionato, recitato bene o dalla
sceneggiatura scorrevole. E’ vero, può essere vero. Ma cosa ce ne
facciamo, soprattutto oggi, di un De André simile? Di un De André à la Rino
Gaetano (senza nulla togliere a Rino Gaetano, ma l’alcool non può
annegare le differenze culturali che informano l’Italia di De André da
quella di Gaetano)? E infatti le due fiction biografiche si assomigliano
molto. Ad essere confermata è la natura ormai santificata del poeta
genovese. Ma questa è, appunto, una conferma, la ripetizione pacificante
del già detto e del già consentito. Una conferma che disattiva la
carica, ancora notevole, della poetica di De André. Ma siamo su Rai Uno.
E allora godiamoci Marinelli.
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