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19/02/2018

Visioni Militant(i): Fabrizio De André – Principe libero, di Luca Facchini

Una fiction Rai nientemeno che su Fabrizio De André non poteva non generare reazioni manichee, e così puntualmente è stato. Chi l’ha trovata orribile, noiosa, falsa; a chi invece è piaciuta, estasiato dall’interpretazione di Marinelli o dal realismo tabagista. Inevitabilmente affrontare di petto la vita e l’opera di De André, negli anni divenuto icona della cultura italiana del secondo Novecento, porta a giudizi trancianti e passionali. Cercheremo di mettere da parte l’immediato giudizio di valore, per quanto condividiamo l’opinione nazionalpopolare su De André: nonostante sia stato volgarmente monumentalizzato, rimane un gigante della cultura italiana, pur nelle sue straordinarie contraddizioni e nel suo moralismo al tempo geniale e fastidioso.

Fabrizio De André è stato un uomo talmente complesso e dilaniato da contraddizioni che hanno partorito un’opera altrettanto multiforme e contrastante, che restituirla in un prodotto cinematografico – e peggio ancora in una fiction – è impossibile. Bisogna operare dei tagli, ridurre la portata del suo percorso a delle linee guida, estrapolare dal suo prodotto un significato che attraversa l’opera nel suo insieme. Così non è stato fatto. Canzoni, progetti e album rimangono (molto) sullo sfondo. Se qualcuno fosse interessato a capire quali ragionamenti avessero sorretto la scrittura della Buona novella nel 1970, o di Rimini del 1978, non ne troverà traccia. Dove sta la contraddizione in De André? Quale il suo rapporto tra impegno politico, idea del mondo, condizione sociale, cristianesimo, uomo? Niente. L’unica contraddizione su cui si insiste è quella, insopportabile, dell’artista maudit che, nonostante ciò, riesce a inanellare capolavori insuperabili come La guerra di Piero o Via del Campo. 

Il problema principale della fiction è allora quella di raccontare (bene, male, non è questo il problema) un uomo pacificato. Viene espunto qualsiasi riferimento al conflitto, tanto interiore – fortissimo – quanto col mondo esterno. Non parliamo del contesto. La mobilitazione politica e sociale di quegli anni viene, semplicemente, annullata. Eppure questa sarà al centro del De André degli anni Settanta, lo dilanierà addirittura, tormentato dal rapporto tra etica e politica, in lui risolto in un moralismo ambivalente che lo porterà subito a condannare il suo album forse più bello e imperfetto: Storia di un impiegato (bello e imperfetto proprio perché oggi è d’uso criticarne la facile morale, ma dietro la dicotomia stereotipata c’era una tormenta esistenziale vera, non una posa post-moderna). Non si capisce nulla di questo De André, via di mezzo tra Paolo Villaggio e Luigi Tenco. Se si vuole ridurre la portata di un artista a due o tre ore di fiction, bisogna metterne in risalto la sua essenza. Ed è questa ad esserne uscita snaturata. De André è uomo del conflitto tra morale borghese e natura umana spogliata della condanna del peccato. Inutile rintracciare un percorso artistico in questa lotta, la fiction decide di aggirare il problema.

Per il resto, se ci accontentiamo di galleggiare in superficie, possiamo parlare di prodotto ben confezionato, recitato bene o dalla sceneggiatura scorrevole. E’ vero, può essere vero. Ma cosa ce ne facciamo, soprattutto oggi, di un De André simile? Di un De André à la Rino Gaetano (senza nulla togliere a Rino Gaetano, ma l’alcool non può annegare le differenze culturali che informano l’Italia di De André da quella di Gaetano)? E infatti le due fiction biografiche si assomigliano molto. Ad essere confermata è la natura ormai santificata del poeta genovese. Ma questa è, appunto, una conferma, la ripetizione pacificante del già detto e del già consentito. Una conferma che disattiva la carica, ancora notevole, della poetica di De André. Ma siamo su Rai Uno. E allora godiamoci Marinelli.

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