Dal sito di Truthout una doppia intervista a Noam Chomsky e Ha-Joon Chang – noto in Italia per il saggio “Cattivi samaritani”, che smaschera l’effetto nefasto delle politiche neoliberiste imposte ai paesi poveri dai paesi ricchi e dalle istituzioni internazionali tra cui Fmi e Wto. Temi come la globalizzazione, i suoi legami con il capitalismo, i suoi vantaggi e svantaggi nonché la sua ineluttabilità e proposte come il reddito minimo universale sono spesso oggetto di propaganda, luoghi comuni se non addirittura affermazioni false, che – ripetute ovunque – finiscono per essere scambiate con la verità. In questo senso la riflessione documentata e approfondita di due studiosi fuori dal coro è l’unica efficace forma di debunking, capace di separare quello che è vero da quello che semplicemente conviene agli interessi dei più forti.
di C.J. Polychroniou, 22 giugno 2017
Dalla fine degli anni 70, l’economia mondiale e le nazioni dominanti hanno marciato al passo della globalizzazione (neoliberale), il cui impatto e i cui effetti – dispiegati ovunque – sui mezzi per vivere e sulle comunità del ceto medio stanno generando un grande malcontento popolare, accompagnato da un’ondata crescente di sentimenti nazionalisti e anti- elitari. Ma che cosa è, esattamente, che sta guidando la globalizzazione? E chi ne trae davvero vantaggio? La globalizzazione e il capitalismo sono intrecciati tra loro? Come affrontare i crescenti livelli di disuguaglianza e massiccia insicurezza economica? I progressisti e i radicali devono sostenere in massa la proposta di introdurre un reddito minimo universale? In questa intervista, unica ed esclusiva, due tra le più importanti menti del nostro tempo, il linguista e intellettuale Noam Chomsky e l’economista dell’Università di Cambridge Ha-Joon Chang condividono la loro visione su queste questioni cruciali.
CJ Polychroniou: La globalizzazione viene solitamente definita come un processo di interazione e integrazione tra le economie e le persone nel mondo attraverso il commercio internazionale e gli investimenti esteri, supportata dalla tecnologia dell’informazione. Ma quindi la globalizzazione è semplicemente un processo neutrale e inevitabile di interconnessioni economiche, sociali e tecnologiche, o è qualcosa di natura più politica, in cui l’azione dello Stato produce trasformazioni globali (una globalizzazione guidata dallo Stato)?
Ha-Joon Chang: Il più grande mito sulla globalizzazione è che si tratti di un processo guidato dal progresso tecnologico. Il che ha permesso ai difensori della globalizzazione di etichettare i critici come “moderni luddisti”, che stanno cercando di far tornare indietro il tempo contro l’ineluttabile progresso della scienza e della tecnologia.
Eppure, se la tecnologia è ciò che determina il grado di globalizzazione, come si può spiegare che il mondo fosse molto più globalizzato alla fine del diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo in confronto alla metà del ventesimo secolo? Durante la prima era liberale, all’incirca tra il 1870 e il 1914, c’erano le navi a vapore e il telegrafo via cavo, ma l’economia mondiale era praticamente da tutti i punti di vista più globalizzata che durante il successivo periodo, molto meno liberale, della metà del XX secolo (all’incirca tra il 1945 e il 1973), quando c’erano già tutte le tecnologie di trasporto e comunicazioni che abbiamo oggi, ad eccezione di Internet e dei telefoni cellulari, anche se in forme meno efficienti.
Il motivo per cui il mondo era molto meno globalizzato in quest’ultimo periodo è che durante questo periodo la maggior parte dei Paesi ha imposto restrizioni decisamente significative ai movimenti di beni, servizi, capitali e persone, liberalizzandoli solo gradualmente. E ciò che merita di essere sottolineato è che, nonostante il basso grado di globalizzazione... questo periodo è stato quello in cui il capitalismo ha funzionato meglio: la crescita più rapida, il più basso grado di disuguaglianza, il più alto grado di stabilità finanziaria e – nel caso delle economie capitalistiche avanzate – il più basso livello di disoccupazione nei 250 anni di storia del capitalismo. Questo è il motivo per cui il periodo è spesso chiamato “l’età d’oro del capitalismo”.
La tecnologia definisce solo il limite esterno della globalizzazione: era impossibile per il mondo raggiungere un alto grado di globalizzazione con le sole navi a vela. Ma è la politica economica (o la politica, potremmo dire) che determina esattamente quanta globalizzazione si raggiunge e in quali settori.
L’attuale forma di globalizzazione orientata al mercato e guidata dalle aziende non è l’unica – per non dire che non è neanche la migliore – possibile forma di globalizzazione. È possibile una forma di globalizzazione più equa, più dinamica e più sostenibile.
Sappiamo che la globalizzazione è propriamente iniziata nel quindicesimo secolo e che ci sono stati diversi stadi della globalizzazione, ognuno dei quali rifletteva l’impatto sottostante del potere dello Stato imperiale e delle trasformazioni che stavano manifestandosi nelle forme istituzionali, così come le imprese e l’emergere di nuove tecnologie e comunicazioni. Cosa distingue lo stadio attuale della globalizzazione (dal 1973 al presente) da quelli precedenti?
Chang: Lo stadio attuale della globalizzazione è diverso da quelli precedenti in due aspetti importanti.
La prima differenza è che c’è un imperialismo meno esplicito.
Prima del 1945, i paesi capitalisti avanzati praticavano [apertamente] l’imperialismo. Colonizzarono i paesi più deboli o imposero loro “trattati asimmetrici”, cosa che li rese colonie virtuali – per esempio occupando parti del loro territorio attraverso forme di “leasing”, privandoli del diritto di stabilire tariffe, ecc.
Dal 1945, abbiamo visto l’emergere di un sistema globale che rifiuta un imperialismo così scoperto. C’è stato un processo continuo di decolonializzazione e, una volta ottenuta la sovranità, gli Stati diventano membri delle Nazioni Unite, dove ci si basa sul principio di un voto per ciascun Paese.
Certo, la pratica è poi stata diversa – i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno il diritto di veto e molte organizzazioni economiche internazionali (il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale) sono gestite secondo il principio di “un dollaro-un voto” (cioè i diritti di voto sono legati al capitale versato). Tuttavia, anche così, l’ordine mondiale post-1945 fu incommensurabilmente migliore di quello che c’era stato prima.
Sfortunatamente, a partire dagli anni ’80, ma con un’accelerazione dalla metà degli anni ’90, c’è stato un riarretramento della sovranità di cui i paesi post-coloniali avevano goduto. La nascita del WTO (Organizzazione mondiale del commercio) nel 1995 ha ridotto lo “spazio politico” per i paesi in via di sviluppo. Questa contrazione è stata poi intensificata dalle serie di successivi accordi commerciali e di investimento, bilaterali e regionali, stretti tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo, come gli accordi di libero scambio con gli Stati Uniti e gli accordi di partenariato economico con l’Unione europea.
La seconda cosa che distingue la globalizzazione post-1973 è che è stata guidata dalle multinazionali in misura molto maggiore di prima. Le multinazionali esistevano già dalla fine del XIX secolo, ma dagli anni ’80 la loro importanza economica è notevolmente aumentata.
Hanno anche influenzato la formazione delle regole globali, improntandole in modo da aumentare il loro potere. Soprattutto, hanno inserito in molti accordi internazionali il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS). Attraverso questo meccanismo, le multinazionali possono portare i Governi in un tribunale composto da tre giudici, scelti da un pool di avvocati commerciali internazionali in gran parte allineati con le aziende, con l’accusa di avere ridotto i loro profitti attraverso una legge o un regolamento. Questa è un’estensione del potere delle aziende che non ha precedenti.
Noam, la globalizzazione e il capitalismo sono due cose diverse?
Noam Chomsky: Se per “globalizzazione” intendiamo l’integrazione internazionale, allora questa è di gran lunga precedente al capitalismo. Le “vie della seta”, risalenti all’era pre-cristiana, erano già una forma estesa di globalizzazione. L’ascesa del capitalismo di stato industriale ha cambiato le dimensioni e il carattere della globalizzazione, e ci sono stati ulteriori cambiamenti lungo la strada, mentre l’economia globale veniva rimodellata da coloro che Adam Smith definiva “i padroni dell’umanità”, che perseguivano la loro “spregevole massima”: “Tutto per noi e niente per gli altri”.
Ci sono stati cambiamenti sostanziali durante il recente periodo della globalizzazione neoliberale, dalla fine degli anni ’70, con Reagan e Thatcher come figure emblematiche, anche se in realtà le politiche cambiano molto poco al cambiare delle amministrazioni. Le multinazionali sono la forza trainante, e il loro potere politico in gran parte conduce la politica degli Stati a tutelare i loro interessi.
Durante questi anni, sostenuti dalle politiche degli Stati, che dominano largamente, le multinazionali hanno sempre più costruito catene di valore globali (global value chains, GVC) in cui l'”azienda guida” esternalizza la produzione attraverso intricate reti globali che stabilisce e controlla. Ne è un esempio standard la Apple, la più grande azienda al mondo. Il suo iPhone è stato progettato negli Stati Uniti. I componenti prodotti da molti fornitori negli Stati Uniti e in Asia orientale sono assemblati per lo più in Cina, in stabilimenti di proprietà della grande impresa taiwanese Foxconn. Si stima che i profitti di Apple siano di circa dieci volte superiori a quelli di Foxconn, mentre il valore aggiunto e il profitto in Cina, dove i lavoratori lavorano in condizioni miserabili, è minimo. Apple stabilisce quindi un ufficio in Irlanda, in modo da eludere le tasse degli Stati Uniti – e recentemente è stata multata per 14 miliardi di dollari dall’UE a causa di tasse non pagate.
Esaminando il “mondo GVC” nella rivista britannica International Affairs, Nicola Phillips scrive che la produzione per Apple coinvolge migliaia di aziende e imprese che non hanno alcun rapporto formale con Apple, e ai livelli inferiori potrebbe essere del tutto inconsapevole della destinazione di ciò che produce. E questa è una situazione generalizzata.
L’immensa scala di questo nuovo sistema globalizzato è stata rivelata nel Rapporto sugli investimenti del 2013 della Commissione delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo. Secondo le stime, circa l’80% del commercio globale è interno alle catene del valore globale stabilite e gestite da multinazionali, che rappresentano forse il 20% dei posti di lavoro in tutto il mondo.
La proprietà di questa economia globalizzata è stata studiata dall’economista politico Sean Starrs. Starrs sottolinea che le stime convenzionali della ricchezza nazionale in termini di PIL nell’era della globalizzazione neoliberale sono ingannevoli. Con catene di approvvigionamento integrate complesse, subappalti e altri dispositivi simili, la proprietà aziendale della ricchezza mondiale sta diventando una misura più realistica del potere globale rispetto alla ricchezza nazionale, poiché il mondo si allontana più di prima dal modello di economie politiche nazionali separate. Investigando la proprietà aziendale, Starrs trova che praticamente in ogni settore economico – manifatturiero, finanziario, servizi, vendita al dettaglio e altri – le società statunitensi sono assolutamente in testa nella proprietà dell’economia globale. Nel complesso, la loro proprietà è vicina al 50% del totale. Questa è approssimativamente la stima massima della ricchezza nazionale degli Stati Uniti nel 1945, al picco storico della potenza USA. La ricchezza nazionale misurata secondo i criteri convenzionali è diminuita dal 1945 ad oggi, intorno al 20 per cento. Ma la proprietà aziendale statunitense dell’economia globalizzata è esplosa.
La linea standard dei politici tradizionali è che la globalizzazione avvantaggia tutti. Eppure, la globalizzazione produce vincitori e vinti, come ha dimostrato il libro Global Inequality di Branko Milanovic. Quindi la domanda è questa: il successo nella globalizzazione è una questione di abilità?
Chang: L’ipotesi che la globalizzazione avvantaggi tutti è basata su teorie economiche tradizionali che presuppongono che i lavoratori possano essere spostati verso altre attività senza costi, se il commercio internazionale o gli investimenti transfrontalieri rendono alcuni settori non redditizi.
In questa prospettiva, se gli Stati Uniti firmano il NAFTA con il Messico, alcuni lavoratori automobilistici negli Stati Uniti potrebbero perdere il lavoro, ma non ci rimetteranno, in quanto potranno riqualificarsi e ottenere posti di lavoro in settori in espansione, grazie al NAFTA, come il software o il settore degli investimenti finanziari.
L’assurdità dell’argomento balza all’occhio immediatamente: quanti lavoratori del settore automobilistico americano conosciamo che si siano riqualificati come ingegneri informatici o banchieri d’investimento negli ultimi due decenni? In genere, gli ex-lavoratori licenziati hanno finito per lavorare come guardiani notturni in un magazzino o ad accatastare scaffali nei supermercati, ricevendo salari molto più bassi rispetto a prima.
Il punto è che, se anche il paese nel complesso traesse vantaggio dalla globalizzazione, ci saranno sempre dei perdenti, specialmente (anche se non esclusivamente) tra i lavoratori che hanno competenze che non sono più apprezzate. E, a meno che questi perdenti non vengano risarciti, non si può dire che il cambiamento sia una buona cosa per “tutti”...
Naturalmente, la maggior parte dei paesi ricchi ha meccanismi attraverso i quali i vincitori del processo di globalizzazione (o di qualsiasi cambiamento economico, in realtà) compensano i perdenti. Il meccanismo di base rivolto a questo scopo è lo stato sociale, ma ci sono anche meccanismi di riqualificazione e ricerca di posti di lavoro finanziati pubblicamente – nei Paesi scandinavi questo si fa particolarmente bene – così come schemi settoriali specifici per compensare i “perdenti” (ad esempio, protezione temporanea per le imprese allo scopo di promuoverne la ristrutturazione, fondi per le indennità di licenziamento dei lavoratori). Questi meccanismi sono migliori in alcuni Paesi rispetto ad altri, ma da nessuna parte sono perfetti e, sfortunatamente, alcuni paesi li hanno abbandonati (la recente contrazione dello stato sociale nel Regno Unito ne è un buon esempio).
Secondo lei, Ha-Joon Chang, la convergenza della globalizzazione e della tecnologia potrebbe produrre più o meno disuguaglianza?
Chang: Come ho sostenuto sopra, la tecnologia e la globalizzazione non sono dovute al destino.
Il fatto che le disuguaglianze di reddito siano effettivamente diminuite in Svizzera tra il 1990 e il 2000 e il fatto che le disuguaglianze di reddito siano recentemente aumentate in Canada e nei Paesi Bassi durante il periodo neoliberista dimostrano che i Paesi possono scegliere quale disparità di reddito avere, anche se tutti devono affrontare le stesse tecnologie e le stesse tendenze nell’economia globale.
In realtà i Paesi possono fare molto per influenzare la disuguaglianza di reddito. Molti paesi europei, tra cui Germania, Francia, Svezia e Belgio sono tanto diseguali quanto (o, a volte, anche di più) gli Stati Uniti, prima di ridistribuire il reddito attraverso la tassazione progressiva e lo stato sociale. Poiché essi ridistribuiscono così tanto, le disuguaglianze che ne derivano in quei paesi sono molto più basse.
Noam, in che modo la globalizzazione accresce le tendenze intrinseche del capitalismo verso la dipendenza economica, l’ineguaglianza e lo sfruttamento?
Chomsky: La globalizzazione durante l’era del capitalismo industriale ha sempre aumentato la dipendenza, l’ineguaglianza e lo sfruttamento, spesso portandoli a estremi orribili. Per fare un esempio classico, la prima rivoluzione industriale si basava fondamentalmente sul cotone, prodotto principalmente nel Sud americano nel sistema di schiavitù più terribile della storia umana – che ha assunto nuove forme dopo la guerra civile, con la criminalizzazione della vita nera e la mezzadria. La versione odierna della globalizzazione include non solo l’ipersfruttamento ai livelli più bassi del sistema globale delle catene del valore, ma anche il genocidio virtuale, in particolare nel Congo orientale, dove milioni di persone sono state massacrate negli ultimi anni, mentre i minerali cruciali trovano la loro strada verso i dispositivi high-tech prodotti nelle catene del valore globali.
Ma anche a prescindere da questi aspetti orrendi della globalizzazione ... la ricerca dello “spregevole massimo” porta naturalmente a simili conseguenze. Lo studio di Phillips che ho citato è un raro esempio di inchiesta su “come le disuguaglianze sono prodotte e riprodotte in un mondo [attraverso catene del valore], [mediante] asimmetrie del potere di mercato, asimmetrie del potere sociale e asimmetrie del potere politico”. Come mostra Phillips “Il consolidamento e la mobilitazione di queste asimmetrie di mercato poggia sull’assicurare una struttura di produzione in cui un piccolo numero di aziende molto grandi ai vertici, in molti casi quelle che vendono prodotti di marca, occupano posizioni oligopolistiche – cioè posizioni di dominio del mercato, e in cui i livelli inferiori della produzione sono caratterizzati da mercati densamente popolati e intensamente competitivi... La conseguenza di ciò in tutto il mondo è stata la crescita esplosiva del lavoro precario, insicuro e sfruttato nella produzione globale, realizzato da una forza lavoro significativamente composta da personale precario, migranti, lavoratori a contratto e donne, e si estende all’estremità dello spettro fino al ricorso consapevole al lavoro forzato “.
Queste conseguenze sono aumentate deliberatamente attraverso politiche commerciali e fiscali, una questione studiata in particolare da Dean Baker. Come sottolinea, negli Stati Uniti “da dicembre 1970 a dicembre 2000 l’occupazione manifatturiera è rimasta praticamente invariata, a parte aumenti e flessioni ciclici. Nei sette anni successivi, da dicembre 2000 a dicembre 2007, l’occupazione manifatturiera è diminuita di oltre 3,4 milioni, un calo di quasi il 20 per cento. Questo crollo dell’occupazione è dovuto all’esplosione del deficit commerciale in questo periodo, non all’automazione: c’era molta automazione (ovvero crescita della produttività) nei tre decenni dal 1970 al 2000, ma una maggiore produttività è stata compensata da un aumento della domanda, lasciando l’occupazione totale poco mutata. Questo non era più vero quando il deficit commerciale è esploso a quasi il 6 per cento del PIL nel 2005 e nel 2006 (oltre 1,1 trilioni di dollari nell’economia di oggi). ”
Queste sostanzialmente sono state conseguenze della politica del dollaro alto e degli accordi sui diritti degli investitori mascherati da “libero commercio” – scelte politiche che andavano nell’interesse dei padroni, non risultato delle leggi economiche.
Ha-Joon Chang, i progressisti mirano a sviluppare strategie per contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, ma c’è poco accordo sul modo più efficace e realistico di farlo. In questo contesto, le risposte variano da forme alternative di globalizzazione alla localizzazione. Qual è la sua opinione su questo argomento?
Chang: In breve, la mia opzione preferita sarebbe una forma più controllata di globalizzazione, caratterizzata da molte più restrizioni sui flussi globali di capitale e da maggiori restrizioni sui flussi di beni e servizi. Inoltre, anche con queste restrizioni, ci saranno inevitabilmente vincitori e vinti, e c’è bisogno di uno stato sociale più forte (e non più debole) oltre ad altri meccanismi attraverso i quali i perdenti del processo vengano compensati. Politicamente, questa combinazione politica richiederà voci più forti per i lavoratori e per i cittadini.
Non penso che la localizzazione sia una soluzione, anche se la fattibilità della localizzazione dipende da qual è la località e da qual è il problema di cui stiamo parlando. Se la località in questione è un villaggio o un quartiere in un’area urbana, capiamo immediatamente che ci sono pochissime cose che possono essere “localizzate”. Se parli di una regione tedesca (Stato) o di uno Stato americano, vediamo che può provare a coltivare maggiormente il proprio cibo o produrre da sé alcuni prodotti fabbricati che oggi sono importati. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, avere la maggior parte delle cose prodotte localmente semplicemente non è fattibile. Non sarebbe saggio avere in ogni Paese, per non parlare di ogni stato americano, la produzione dei propri aeroplani, telefoni cellulari né persino di tutto il suo cibo.
Detto questo, non sono contrario a tutte le forme di localizzazione. Ci sono certamente cose che possono essere fornite in misura maggiore a livello locale, come alcuni prodotti alimentari o l’assistenza sanitaria.
Un’ultima domanda: l’idea di un reddito di base universale sta lentamente ma gradualmente prendendo piede come strumento politico per affrontare il problema della povertà e delle preoccupazioni sull’automazione. Aziende come Google e Facebook sono forti sostenitori di un reddito di base universale, anche se saranno le società a sostenere il costo di questa politica, mentre la maggior parte delle imprese multinazionali si sposteranno sempre più verso l’uso di robot e altre tecniche computerizzate per eseguire compiti tradizionalmente svolti da lavoratori. I progressisti e gli oppositori della globalizzazione capitalista in generale dovrebbero sostenere l’idea di un reddito di base universale?
Chang: Di reddito minimo universale si parla in molte versioni differenti, ma è un’idea libertaria, nel senso che pone l’accento sulla massimizzazione della libertà individuale piuttosto che sull’identità collettiva e sulla solidarietà.
Tutti i cittadini dei paesi che superano il livello di reddito medio hanno diritto a una certa quantità di risorse di base (nei paesi più poveri, praticamente a nessuna). Hanno accesso a una certa quantità di cure mediche, istruzione, pensioni, acqua e altri elementi “di base” della vita. L’idea su cui si fonda il reddito minimo universale è che i diritti alle risorse dovrebbero essere forniti agli individui il più possibile in contanti (piuttosto che in natura), in modo che i cittadini possano esercitare la massima scelta.
La versione di destra del reddito minimo, sostenuta da Friedrich von Hayek e Milton Friedman, i guru del neoliberismo, è che il governo dovrebbe fornire ai suoi cittadini un reddito di base a livello di sussistenza, fornendo al contempo (o poco) ulteriori beni e servizi. Per quanto posso vedere, questa è la versione del reddito minimo supportata dalle aziende della Silicon Valley. Sono totalmente contrario.
Ci sono poi libertari di sinistra che sostengono il reddito minimo universale, stabilito a un livello piuttosto elevato, il che richiederebbe una redistribuzione del reddito piuttosto alta. Ma anche loro credono che la fornitura collettiva di beni e servizi “di base” attraverso lo stato sociale debba essere minimizzata (sebbene il loro “minimo” sia considerevolmente maggiore di quello neo-liberista). Questa versione è più accettabile per me, ma non ne sono convinto.
Primo, se i membri di una società stanno provvedendo collettivamente ad alcuni beni e servizi, hanno il diritto collettivo di influenzare il modo in cui le persone usano i loro diritti di base.
Secondo, l’erogazione attraverso lo stato sociale di servizi universali basati sulla cittadinanza rende i servizi sociali – come la salute, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia, l’assicurazione contro la disoccupazione e le pensioni – molto più economici, grazie agli acquisti di massa e alla condivisione dei rischi. Il fatto che gli Stati Uniti spendano almeno il 50% in più per l’assistenza sanitaria rispetto agli altri paesi ricchi (il 17% del PIL negli Stati Uniti rispetto all’11,5% del PIL in Svizzera), ma abbiano peggiori indicatori di salute è molto indicativo dei potenziali problemi che potremmo avere in un sistema di reddito minimo universale combinato con la fornitura privata di servizi sociali di base, anche se il livello di reddito minimo fosse elevato.
Chomsky: La risposta, direi, è: “tutto dipende” – vale a dire, dipende dal contesto socioeconomico e politico in cui l’idea è proposta. La società a cui dovremmo aspirare, penso, dovrebbe rispettare il concetto “jedem nach seinen Bedürfnissen”: a ciascuno secondo i suoi bisogni. Tra i bisogni primari, per la maggior parte delle persone, c’è una vita di dignità e autorealizzazione. Ciò si traduce in particolare in un lavoro svolto sotto il proprio controllo, tipicamente in solidarietà e interagendo con gli altri, creativo e di valore per la società in generale. Questo lavoro può assumere molte forme: costruire un ponte bello e necessario, il mestiere stimolante di insegnare e imparare con i bambini piccoli, risolvere un problema eccezionale nella teoria dei numeri e una miriade di altre opzioni. Provvedere a tali bisogni è sicuramente entro il regno delle possibilità.
Nel mondo attuale, le aziende si rivolgono sempre più all’automazione, come hanno fatto praticamente da sempre: pensiamo alla macchina sgranatrice di cotone, per esempio. Attualmente, ci sono poche prove che gli effetti siano oltre quelli normali. Il principale impatto si manifesterebbe in termini di produttività, ma questa è in realtà bassa rispetto agli standard dei primi anni del dopoguerra. Intanto, c’è ancora molto lavoro da fare: dalla ricostruzione delle infrastrutture collassanti, alla creazione di scuole decenti, al miglioramento della conoscenza e della comprensione, e molto altro ancora. Ci sono molte mani disponibili. Ci sono ampie risorse. Ma il sistema socioeconomico è talmente disfunzionale che non è in grado di riunire questi fattori in modo soddisfacente e, sotto l’attuale campagna Trump-Repubblicana per creare una minuscola America che tremerà all’interno di muri, la situazione non potrà che peggiorare. Nella misura in cui i robot e altre forme di automazione possono liberare le persone dal lavoro di routine e pericoloso e dare loro la possibilità di dedicarsi a impegni più creativi (e, in particolare negli Stati Uniti così scarsi di tempo libero, di avere più tempo per se stessi), tutto va per il meglio. In questo senso il reddito minimo universale potrebbe avere un posto, anche se è uno strumento troppo rozzo per ottenere la versione marxista preferibile.
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