Le posizioni sull’immigrazione delle principali forze politiche italiane sono note e ormai abbastanza solidificate: la chiusura totale di Salvini, la retorica legalitaria e cerchiobottista del PD e la visione tendenzialmente favorevole all’immigrazione, ma eccessivamente semplicistica, tipicamente attribuita a Laura Boldrini. Negli ultimi tempi è però emersa con sempre maggior forza la posizione di chi è a favore di una parziale o totale chiusura delle frontiere con motivazioni che si potrebbero definire “di sinistra”. Tra i contributi più recenti da parte di economisti, possiamo citare un articolo di Robert Skidelsky, un’intervista ad Aldo Barba e Massimo Pivetti, interventi di Fabio Petri e Sergio Cesaratto e uno dei tanti pronunciamenti sulla questione di Alberto Bagnai.
Tali contributi sostengono l’idea che l’afflusso di immigrati comporti una necessaria pressione al ribasso dei salari reali, che danneggerebbe i lavoratori locali e amplierebbe i margini di profitto per le imprese. Inoltre, l’immigrazione finirebbe per peggiorare ulteriormente le condizioni di fornitura dei servizi pubblici di base, come scuola e sanità, già messi a dura prova dai tagli imposti dai vincoli europei. Partendo, come scrivono, ad esempio, Barba e Pivetti, dal «riconoscimento dell’ostilità nei confronti del fenomeno da parte dei ceti popolari di tutta Europa», una sinistra che si rispetti dovrebbe giungere alla conclusione che l’unica politica possibile nei confronti del fenomeno migratorio è quella della chiusura.
Vi sono senz’altro molti elementi di verità in quanto affermato da questi autori. È senz’altro vero che l’afflusso di manodopera da altri Paesi può, in determinate condizioni, contribuire alla riduzione della forza contrattuale dei lavoratori e, dunque, a una pressione al ribasso sui salari reali. Ed è altrettanto vero che vi è una crescente insofferenza delle classi popolari nei confronti del fenomeno migratorio e che il fenomeno stesso rischia di aggravare la pressione sui servizi sociali. Le premesse del discorso, se si vuol essere realisti, sono fondate. Quel che non ci convince è la conclusione o, se si vuole, il “consiglio di policy” che viene suggerito, implicitamente o esplicitamente, da molti degli autori citati: la chiusura. Pensiamo, infatti, che tale conclusione sia influenzata dal fatto che alcuni elementi dell’analisi sono assunti in maniera ingiustificata come dati immodificabili, quando, in realtà, essi stessi derivano da determinate scelte politiche, figlie della stessa impostazione ideologica e istituzionale – il neoliberismo e i trattati europei – che gli autori giustamente contestano.
Vi sono due elementi che vanno sottolineati riguardo alla pressione al ribasso sui salari reali esercitata dagli afflussi di migranti: a) essa può essere esercitata soltanto in determinate circostanze, che non vanno assunte come dati di fatto indipendenti dalle decisioni delle autorità economiche; b) il fenomeno migratorio non è l’unico elemento che negli ultimi anni ha contribuito a tale pressione.
Riguardo al primo punto, vi sono diversi elementi che possono contribuire a far sì che l’arrivo di forza lavoro dall’esterno di un Paese contribuisca a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori. In primo luogo, è necessario che i lavoratori stranieri si accontentino di un salario minore di quello pagato ai lavoratori interni. Che ciò avvenga è molto probabile, giacché molti degli immigrati giungono da Paesi in cui il tenore di vita è sensibilmente più basso rispetto a quello dei Paesi economicamente più avanzati. È, però, altrettanto vero che affinché la pressione al ribasso possa esercitarsi concretamente, devono verificarsi anche altre condizioni. Ad esempio, devono mancare tutele volte a garantire, in ciascun settore, un salario minimo. Oppure tali tutele, laddove presenti, devono essere aggirate tramite il ricorso a rapporti di lavoro informali, il lavoro nero. Insomma è l’afflusso di schiavi, e non semplicemente di lavoratori immigrati, ad indebolire il potere contrattuale dei lavoratori italiani: gli immigrati spingono al ribasso il salario del paese che li accoglie solo perché spogliati dei più elementari diritti.
Un altro elemento utile alla “causa” del capitale nel mettere i lavoratori gli uni contro gli altri consiste nella percezione, da parte dei lavoratori nazionali, degli immigrati come nemici giunti in Italia per “rubargli” i posti di lavoro grazie all’accettazione di un salario più basso. Tale percezione rende difficile la formazione di un fronte comune tra lavoratori italiani e stranieri ed è senz’altro ben accetta dagli imprenditori. Non è un caso che i principali quotidiani della borghesia mostrino un’apparente schizofrenia: da un lato l’esaltazione del multiculturalismo e di un mondo senza frontiere, dall’altro l’attenzione quasi morbosa ai dettagli più cruenti di reati e delitti commessi da cittadini stranieri (più spesso si assiste a una “divisione del lavoro”, probabilmente non organizzata, ma di certo funzionale, tra organi di informazione cosmopoliti-ma-legalitari e quotidiani apertamente razzisti).
Riguardo al secondo punto, vi sono diversi elementi – indipendenti dal fenomeno migratorio – che hanno contribuito, negli anni più recenti, a un notevole abbassamento della forza contrattuale dei lavoratori: la riduzione delle tutele per il mantenimento del posto di lavoro, il sempre più facile ricorso a contratti a tempo determinato, la pressoché totale libertà di movimento di merci e capitali, la riduzione della spesa pubblica e dell’offerta dei servizi essenziali da parte dello Stato, la lucida rinuncia da parte dei governi al mantenimento di un adeguato livello della domanda aggregata e al perseguimento della piena occupazione. La stessa disoccupazione è forse il più potente strumento di disciplina nei confronti dei lavoratori e il più efficace disincentivo a richiedere aumenti salariali.
Vi sono, quindi, a nostro avviso, tre distinti ma collegati elementi critici nella visione di quella che potremmo definire “sinistra cattivista” in contrapposizione al buonismo incarnato dal punto di vista della Boldrini. In primo luogo, se la preoccupazione è per la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, vi sono diversi fenomeni che potrebbero essere considerati come determinanti e che dovrebbero costituire l’oggetto delle critiche di chi ritiene di dover combattere la riduzione dei salari reali. L’immigrazione è soltanto uno di questi elementi. La decisione di assumere come prioritaria la battaglia a uno di questi fenomeni è una scelta politica. A nostro avviso, le lotte contro il precariato, contro i vincoli imposti dai trattati e contro la libertà dei movimenti di merci e capitali dovrebbero essere prioritarie per un’area politica interessata al miglioramento delle condizioni dei lavoratori. Eventuali considerazioni sulla problematica dell’immigrazione dovrebbero sempre tener conto del fatto che essa è un problema perché l’assetto istituzionale è stato congegnato in maniera tale da ridurre al minimo il potere contrattuale dei lavoratori.
In secondo luogo, e qui troviamo la motivazione della nostra ultima affermazione, sorprende che nel momento in cui si parla di immigrazione, l’attuale cornice istituzionale sia assunta come un dato di fatto e che i consigli di policy non escano dal recinto nel quale tale assetto ha confinato il dibattito di politica economica degli ultimi anni. Sostenere che gli afflussi migratori non sono utili in quanto vi sono milioni di disoccupati sembra sacrosanto. Diventa meno ovvio quando si prende in considerazione il fatto che un così ampio numero di disoccupati non è una disgrazia che colpisce casualmente l’economia italiana, ma la conseguenza di scelte politiche ispirate all’ideologia neoliberista e sostanziatasi in quei trattati al quale i paesi dell’Unione Europea e, in particolare, dell’euro si sono legati.
Infine, riconoscere e inseguire l’insofferenza dei ceti popolari nei confronti dell’immigrazione significa assumere come dato di fatto uno degli strumenti attraverso i quali l’afflusso di immigrati crea pressione al ribasso sui salari reali: l’artificioso antagonismo tra lavoratori nazionali e lavoratori immigrati. Tale antagonismo, sommato alla diffusione del lavoro nero, contribuisce a rendere più pervasiva la competizione al ribasso sui salari reali. Laddove invece i lavoratori immigrati sono stati coinvolti nella lotta sindacale, come è avvenuto nel settore della logistica, assieme ai compagni di lavoro italiani, si è assistito a un insperato risveglio della lotta di classe di cui Abd Elsalam, immigrato morto difendendo il salario italiano, rappresenta il simbolo più nitido.
Una proposta politica che abbia come obiettivo l’aumento del potere contrattuale dei lavoratori non può che essere organica, nel senso che essa deve prendere in considerazione tutti gli elementi che esercitano effetti avversi su tale potere contrattuale. Essa deve quindi mirare contemporaneamente a invertire la rotta di politica economica imposta da decenni di egemonia culturale neoliberista, combattere il lavoro nero e il lavoro precario, costruire la solidarietà tra lavoratori nazionali e immigrati e superare la gestione emergenziale dell’immigrazione, ristabilire il ruolo dello Stato nel perseguimento della piena occupazione attraverso la ri-pubblicizzazione delle imprese privatizzate e il sostegno alla domanda aggregata tramite la spesa pubblica e la redistribuzione del reddito. Ad oggi, ci sembra che l’unico programma che tenga conto di tutte queste istanze sia quello proposto da Potere al Popolo.
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