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19/02/2018

La presa in giro del “Reddito di inclusione”

Anche il Reddito di inclusione sociale contribuisce al crollo del PD, il quale subisce i contraccolpi delle aspettative di alcuni milioni di persone che da dicembre sperimentano le difficoltà di accesso ai sussidi e i ritardi nell’avvio dei pagamenti. Ma è soprattutto l’Alleanza contro la povertà – l’Armada messa in campo da 30 organizzazioni cattoliche del terzo settore con Cgil Cisl Uil – che è preoccupata, tanto da lanciare un appello alle forze politiche per assicurare un futuro alla riforma che ha sponsorizzato e gestito. Invita ad estendere la copertura dell’utenza e ad incrementare il contributo economico, beninteso “gradualmente, attraverso un percorso pluriennale compatibile con le esigenze del bilancio pubblico” (i poveri sono abituati ad aspettare, anche se – come attesta l’Istat – privi di beni e servizi essenziali). L’Alleanza si raccomanda soprattutto di “evitare la tentazione della ‘riforma della riforma’”. Chi può fomentare questa tentazione?

Ecco pronto il Rapporto sulla politica di bilancio 2018, appena pubblicato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, organismo costituito per legge nel 2014 in attuazione delle normative europee sulla nuova governance economica. Per missione l’Upb “contribuisce ad assicurare la trasparenza e l’affidabilità dei conti pubblici, al servizio del Parlamento e dei cittadini”.

Punti nodali del rapporto sono questi:

1. La povertà assoluta riguarda, secondo l’ISTAT, un milione 600 mila famiglie. Considerando le condizioni ristrette di ammissibilità fissate dal governo, al Rei avrà accesso solo il 43 per cento di esse. Un impatto, rileva l’Upb, “ancora insufficiente a superare il fenomeno”.

2. “La soglia di reddito cui si perviene grazie all’integrazione [da 187,5 euro per un componente a 534 per cinque e più] non sembra tale da consentire la fuoriuscita dalla condizione di povertà assoluta e quindi tale da ridurre il numero di nuclei poveri, mentre interviene ad alleviare il disagio”.

3. Il sostegno durerà al massimo 18 mesi e potrà essere eventualmente rinnovato per 12 mesi dopo 6 mesi di intervallo. L’Upb valuta negativamente “la durata limitata, anche in caso di permanenza dei requisiti e dei bisogni”.

4. Per il Rei il governo ha stanziato 2059 milioni per il 2018, 2545 per il 2019, 2745 per il 2020, e 2745 per il 2021. Se lo stanziamento viene assorbito dalla prima tornata di famiglie richiedenti (che riceveranno il sussidio per 18 mesi), non ci sarà quasi più disponibilità finanziaria fino al luglio 2019. Problemi analoghi si porranno successivamente. L’Upb evidenzia la gravità di una situazione di questo tipo, rilevando che in caso di esaurimento delle risorse, il governo ha previsto di rimodulare il beneficio, anche per coloro che già sono percettori, e, nell’attesa, di sospendere l’erogazione e l’accettazione di nuove domande. “Il ridimensionamento del beneficio economico determinerebbe un diverso trattamento di soggetti con uguali caratteristiche socioeconomiche che sono stati ammessi in momenti diversi”.

Esiste infine per l’Upb una contraddizione di fondo: “Se da lato il Rei andrà a costituire un livello essenziale delle prestazioni (LEP) ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, dall’altro si tratterà di un LEP vincolato alle risorse disponibili”.

Sono osservazioni che minano la riforma alle radici. Corrispondono puntualmente alle critiche che da tempo avevamo avanzato al Rei:

1. E’ stato adottato un approccio che, seguendo le indicazioni dell’Alleanza contro la povertà, stratifica la povertà secondo il principio ‘di dare prima a chi sta peggio’ o, come si legge nel suo progetto, “detto altrimenti si comincia da coloro i quali versano in condizioni economiche più critiche, e cioè i più poveri tra i poveri, e progressivamente si raggiunge anche chi sta ‘un po meno peggio’ sino a rivolgersi dal quarto anno a chiunque sperimenti la povertà assoluta”.

2. In relativa costanza degli stanziamenti di bilancio, la disponibilità di spesa per far fronte alle nuove domande sarà progressivamente ridotta. Tenendo conto che il sussidio viene erogato per 18 mesi, quasi metà dei 2,5 miliardi del 2019 saranno già stati impegnati per coprire le famiglie entrate nel Rei in questa tornata. E’ così di seguito per gli anni successivi.

3. L’erogazione del sussidio è condizionato alla sottomissione dell’intera famiglia beneficiaria sia al lavoro coatto (i maggiorenni abili al lavoro) sia all’assolvimento di obblighi decisi dai servizi sociali relativi ai comportamenti personali, familiari e sociali, prescrivendo che, se anche uno solo dei componenti non si attiva, all’intera famiglia viene ridotto e persino tolto il sussidio.

4. L’intervento non ha un impatto strutturale. Il sussidio viene erogato per 18 mesi, rinnovato – forse – per altri 12 ma con un intervallo di 6 mesi durante il quale le famiglie devono arrangiarsi.

5. Il sostegno economico è irrisorio e per metà vincolato alla carta di credito. Oggi la stessa Alleanza contro la povertà lo considera insufficiente per superare anche solo temporaneamente la soglia della povertà assoluta: circa 177 euro col Rei rispetto a 316 euro necessari per una persona, 244 contro 373 per due, 282 rispetto a 382 per tre, 327 contro 454 quattro, 330 invece di 710 per cinque e più.

Il Rei è espressione di un associazionismo cattolico con esperienze di assistenza caritatevole e di un sindacalismo collaborativo che porta all’interno delle istituzioni una logica di assistenza minimale, accomodante circa gli investimenti finanziari. “Non punta ad altro che a mitigare temporaneamente con i sussidi gli effetti della povertà estrema, disciplinando ogni famiglia ad esercitare la buona cittadinanza entro le condizioni date di emarginazione sociale. Lavora non contro la povertà ma nella povertà”1.

Sul piano dei principi, infine, il Rei va affondato. Il perché lo indica Elena Granaglia in un articolo, che Sbilanciamnoci.info subdolamente titola ‘Il Rei è un passo avanti ma molto resta da fare’(25 gennaio 2018): “Il reddito è de facto posto fuori dai diritti fondamentali. Diventa la contropartita di un comportamento, questione di do ut des. I diritti fondamentali, invece, rappresentano uno status di non contrattabilità, a prescindere dai comportamenti. L’obbligo riflette, altresì, una visione del povero come cittadino di seconda classe, che va obbligato a lavorare (a differenza di “noi”), nella sottovalutazione delle responsabilità sociali nella creazione della povertà, riguardino esse l’uguaglianza di opportunità intergenerazionale e/o la disponibilità di lavoro decente”.

1 Commisso G., Sivini G., Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto?, Trieste, Asterios, 2017.

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