di Roberto Prinzi
“Un inferno sulla
terra”. Così ha descritto ieri la situazione nella Ghouta orientale
pesantemente colpita da giorni dal governo siriano il Segretario generale dell’Onu. In un suo discorso al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, Antonio Gueteress
ha ricordato a tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano “il loro
obbligo assoluto di proteggere la popolazione e le infrastrutture
civili” chiarendo che “gli sforzi per combattere il terrorismo non
possono sostituire tali impegni”.
Della necessità del cessate il fuoco ha parlato ieri anche la
rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, Federica
Mogherini, che ha chiesto a Russia, Turchia e Iran di
“lavorare per l’implementazione della risoluzione del Consiglio dell’Onu
e, in particolare, per la realizzazione delle de-escalation zone decise
ad Astana”.
Ma le parole della politica sono cadute nel vuoto ancora una volta, però, perché la tregua raggiunta sabato non è mai stata implementata:
dalla Ghouta (Damasco) alla curda Ifrin e al bubbone jihadista di Idlib
(a nord) fino ad est ad Deir Ezzor si continua a combattere e a morire.
E non servirà a niente la “pausa umanitaria” di cinque ore al
giorno in vigore a partire da oggi dalle 9 alle 14 annunciata dal
presidente russo Putin nella Ghouta, il sobborgo della capitale
siriana controllato dai qaedisti dell’ex Fronte an-Nusra. Uno stop alle
violenze (irrisorio) concepito, ha spiegato ieri il ministro della
difesa russo Shoigu, “per evitare vittime civili”.
Una tregua temporanea che sa di beffa delle oltre 400.000
persone che vivono da tempo sotto le bombe di al-Asad e i suoi alleati e
sono vittime di un doppio assedio, governativo e delle forze di
opposizione. Che la situazione sia disperata in quest’area intorno alla capitale lo sa bene anche Guterres che ieri, sempre da Ginevra, ha detto “che non bisogna più aspettare” perché “è ora di porre fine a questo inferno sulla terra”.
Il problema è come Guteress. Ma soprattutto: c’è davvero la volontà politica di farlo?
Mosca ieri ha affiancato alla sua “tregua”di cinque ore anche l’impegno
a far partire corridoi umanitari non spiegando però come verranno
consegnati gli aiuti ai civili della Ghouta senza ormai più cibo e acqua
da giorni. La Commissione internazionale della Croce Rossa
ha fatto sapere che vede con favore ogni misura che permette a “chi
vuole andarsene [da lì] la possibilità di farlo”. Tuttavia, ha ammonito la
portavoce Iolanda Jaquemet, bisogna fare molto di più: “Abbiamo
necessità di convogli umanitari per portare lì rifornimenti vitali:
medicine, cibo, materiale sanitario e quello per purificare l’acqua. I
bisogni umanitari per i 400.000 abitanti sono enormi”.
Come si potrà aiutare la popolazione civile al momento resta una grossa incognita. Quel che è certo che alle pie promesse della politiche si contrappone l’amara realtà quotidiana:
secondo fonti dell’opposizione – non verificabili indipendentemente –
ieri sono morte altre dieci persone a causa dei raid governativi (520 le
vittime dal 18 febbraio scorso, sostiene l’Osservatorio siriano, ong di
stanza a Londra e vicina alle forze anti-Asad).
Rispetto alle illusioni umanitarie del Cremlino, molto più
onesto è stato l’Iran che ha ripetuto ieri che l’offensiva sul sobborgo
damasceno continuerà perché è rivolta contro i qaedisti di an-Nusra (a cui fanno capo altre 4 formazioni islamiste Jaish al-Islam, Ahrar al-Sham, Fajr al-Ummah e Feilak ar-Rahman). In effetti, è
la stessa vaghezza della tregua di sabato a offrire scappatoie “legali”
a ciascun potenza, regionale o meno che sia, per continuare le sue
violenze per i propri tornaconti. Lo stop ai combattimenti,
infatti, esclude ufficialmente l’Isis e al-Qa’eda, ma ciascun gruppo ha
il suo proprio demone “terrorista” da eliminare. O almeno presunto tale.
Un clima ideale per la Turchia che ieri, con il premier turco
Bozdag, ha ribadito la sua volontà di chiudere la partita contro i
curdi di Afrin. Una battaglia legittima, ha chiarito, perché
“condotta contro i terroristi”. A prendere parte ai combattimenti, ha
poi annunciato Ankara, saranno anche i Falcons, un'unità formata da 600
combattenti curdi. Un particolare, quello dell’etnicità del
battaglione, che non è affatto irrilevante. Erdogan può infatti così
riconfermare la sua narrazione sull’operazione “Ramoscello d’Ulivo”: la
sua è una campagna “anti-terrorista”, non contro i curdi tout court. “I
terroristi ad Afrin e quelli venuti da fuori a sostenerli, a prescindere
dalle loro origini, saranno sconfitti” ha tuonato oggi il capo di Stato
maggiore turco, il Generale Hulusi Akar durante una visita alla
provincia di Hatay (sud Turchia). Insomma i curdi siriani delle unità
Ypg e Ypj vanno sconfitti quanto prima. Costi quel che costi. Fino alla
fine. Nonostante gli inviti, che restano però solo tali, delle Nazioni
Unite a porre fine ai combattimenti in Siria.
Ma alla fiera dell’orrore siriano non vuole mancare proprio nessuno, tutti marcano il cartellino con il sangue. A partire dagli Usa
che domenica hanno ucciso 25 civili ad Albu Kamal (confine con l’Iraq) e
ieri altre 29 persone a Deir Ezzor, dove è ancora presente quel che
poco che resta del “califfato islamico”. Washington bombarda ed è
responsabile da mesi di stragi terribili, ma le sue bombe mortifere non
hanno suscitato (e suscitano) la stessa indignazione presso i media
occidentali e le cancellerie occidentali come quelle che piovono sul
Ghouta. Eppure si chieda agli abitanti della Raqqa liberata dai
curdi del Rojava con il sostegno aereo a stelle e strisce quanti lutti
hanno dovuto piangere per mesi nell’indifferenza della cosiddetta
comunità internazionale. Sono i civili siriani (tutti) a starci
veramente a cuore o la loro strumentalizzazione per fini geopolitici?
E secondo il governo siriano mietono vittime anche la categoria del
tutto inventata dalle capitali occidentali dei “ribelli moderati”: nelle
ultime ore i loro attacchi hanno ucciso 4 civili a Tell Salhab (Hama) e
14 ad Idlib.
Altri morti, altri numeri senza nome che si vanno ad aggiungere alle
oltre 400.000 vittime di questo conflitto la cui fine appare ancora
troppo lontana.
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