di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Afrin è tante narrazzioni,
che si traducono in méte: quella della Turchia che vuole fare del
cantone curdo un «magazzino» per rifugiati e miliziani; quella dei curdi
per cui è destinazione della resistenza.
Ieri Ankara ha dispiegato 280 poliziotti dei reparti speciali Poh,
volontari e squadre speciali della gendarmeria specializzate in
guerriglia urbana. In contemporanea funzionari turchi spiegavano l’altra faccia del piano di invasione del presidente Erdogan: trasferire ad Afrin decine di migliaia di rifugiati siriani (provenienti da altre zone del paese), oggi in territorio turco.
Con un duplice obiettivo: liberarsene e modificare la demografia di un
paese già devastato dalla diaspora forzata e l’occupazione di intere
fette di territorio da parte di milizie di stampo jihadista.
Nelle stesse ore da Raqqa e dai cantoni di Cizire e Kobane
partivano centinaia di combattenti volontari, decisi a raggiungere Afrin. Da Raqqa proseguiranno verso Manbij, dove prenderanno con sé altre decine di persone. Si uniscono alle nuove unità delle Forze popolari Ndf inviate da Damasco a protezione dei confini e arrivate mercoledì ad Afrin.
E se nel cantone i raid turchi proseguono senza che si registrino al
momento confronti diretti tra Ndf e miliziani al soldo di Ankara,
trecento chilometri più a sud la guerra è brutale: per il quinto
giorno consecutivo Ghouta est, sobborgo della capitale, è teatro del
rinnovato scontro tra qaedisti dell’ex al-Nusra e aviazione governativa.
I residenti, spiegava ieri al Consiglio di Sicurezza Panos Moumtzis, coordinatore umanitario Onu in Siria, non hanno più acqua né elettricità e l’80% degli abitanti della cittadina di Harasta vive nei sotterranei delle case per proteggersi da raid e missili.
Mentre i 400mila civili trascorrevano l’ennesimo giorno sotto assedio
interno ed esterno, oltreoceano il Consiglio di Sicurezza si è riunito
su richiesta della Russia e ha discusso la risoluzione promossa da
Svezia e Kuwait che chiedeva – accanto all’autorizzazione all’ingresso
nella Ghouta orientale di aiuti entro 48 ore – 30 giorni «di cessazione
delle ostilità in tutta la Siria per tutte le operazioni militari
eccetto quelle dirette contro Isis, al Qaeda e al-Nusra».
Il presidente siriano Assad e il ministro degli Esteri russo
Lavrov si sono detti disponibili a una tregua che non coinvolga gli
islamisti presenti a Ghouta est, che sono la quasi totalità
delle opposizioni. Per questo in serata Mosca ha bloccato la risoluzione
e proposto delle modifiche.
E il numero delle vittime sale: ieri altri 36 civili
hanno perso la vita. Secondo le opposizioni, sarebbero 400 da domenica i
morti nel sobborgo, altre decine gli uccisi a Damasco dai missili
jihadisti.
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