di Michele Giorgio - il Manifesto
Sotto lo sguardo freddo
dell’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley e dei due inviati di Donald
Trump in Medio Oriente, Jason Greenblatt e Jason Kushner, mentre
l’ambasciatore israeliano Danny Danon si mostrava occupato a scrivere
note su foglietti di carta, il presidente palestinese Abu Mazen
ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha chiesto con forza la
creazione di un meccanismo multilaterale «per risolvere la questione
palestinese tramite una conferenza internazionale» da tenersi a metà del 2018.
Riconoscere lo Stato di Palestina subito, ha esortato rivolgendosi ai
15 Paesi membri del CdS, «non danneggerà alcun negoziato futuro». Sui
193 Paesi membri dell’Onu, 138 hanno riconosciuto lo Stato di Palestina,
ha sottolineato.
Abu Mazen non è un leader politico che riscalda il cuore di chi lo
ascolta, non è coinvolgente. Eppure ieri, pur con il suo abituale stile
asciutto, ha centrato punti fondamentali. Non ha mancato di
rilanciare le sue accuse alla Casa Bianca che lo scorso 6 dicembre ha
violato la legge internazionale e gli stessi Accordi di Oslo con il
riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele.
«Noi non abbiamo mai rifiutato di sederci al tavolo dei negoziati,
questa è l’unica via per raggiungere la pace», ha proclamato, precisando
subito dopo che i palestinesi «hanno il coraggio di dire sì e il
coraggio di dire no». Parole rivolte all’ambasciatrice Nikki
Haley, il braccio armato di Trump e di Israele alle Nazioni Unite, che
lo accusa di non essere un leader «coraggioso», capace di prendere
decisioni importanti. Quindi Abu Mazen ha attaccato Israele per
non aver rispettato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e per
agire come uno «Stato sopra la legge». L’occupazione israeliana dei
Territori palestinesi, ha sottolineato, è diventata una «colonizzazione
di insediamenti permanenti» e Israele «ha chiuso la porta alla soluzione
dei due Stati».
A un certo punto Abu Mazen ha ammesso che, nella situazione attuale,
senza un negoziato vero e prospettive concrete di creare uno Stato
palestinese a causa delle politiche del governo di Benyamin Netanyahu e
la linea pro-Israele degli Stati Uniti, l’Autorità nazionale
palestinese (Anp) da lui presieduta di fatto lavora per l’occupazione e
solleva Israele dalle sue responsabilità verso la popolazione civile
palestinese. Abu Mazen però non ha fatto riferimento alla
possibilità di dissolvere l’Anp o di cessare la cooperazione di
sicurezza con Israele, punto quest’ultimo sul quale insiste gran parte
della sua gente e lo stesso Consiglio centrale dell’Olp. Al termine del discorso, seguito da un lungo applauso, il
presidente palestinese ha lasciato l’aula senza ascoltare la replica di
Nikky Haley e dell’ambasciatore israeliano Danon che lo ha accusato di
«correre via dal dialogo», di aver rifiutato d'incontrare Netanyahu e
di essere «non la soluzione ma il problema». Una frase certo
non gettata lì per caso. Come avvenuto con Yasser Arafat, la strategia
del governo israeliano sembra essere quella di provare a delegittimare
Abu Mazen, come leader politico e come persona, forse con l’approvazione
dell’Amministrazione Trump.
Il Palazzo di Vetro comunque è molto lontano dalla Cisgiordania palestinese. Sul terreno l’occupazione non conosce soste. Il numero di coloni israeliani lo scorso anno è cresciuto di quasi il doppio rispetto alla popolazione complessiva di Israele. Dal 1 gennaio 2018 è di 435.159, in rialzo del 3,4% rispetto all’anno prima e del 21,4 % rispetto agli ultimi cinque anni. Lo
ha riferito lunedì con orgoglio un leader dei coloni Yaakov Katz, che
ha anche previsto che la crescita degli insediamenti aumenterà ancora di
più nei prossimi anni grazie anche alla presidenza Trump. Il presidente
americano, ha aggiunto Katz, ha creato una nuova atmosfera favorevole
alla crescita degli insediamenti dopo otto anni controversi con la Casa
Bianca di Barack Obama. «Questa è la prima volta – ha notato Katz – dopo
anni, che siamo circondati da persone che ci amano davvero e che non
cercano di essere neutrali. Dobbiamo ringraziare Dio che ha fatto
eleggere Donald Trump presidente degli Stati Uniti».
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