Si sa, Sanremo è Sanremo. E la ribalta dell’Ariston è lo specchio fedele dell’italianità più deteriore, del nostro recondito luogo comune. Dalle canzonette agli ospiti, dai conduttori alle presenze femminili biondo/brune – la donna, su quel palco, è ormai acclarato, esiste solo in quanto accessorio maschile, corredata di trucco, parrucco e abito – tutto riecheggia la cultura qualunquista, moralista o finto trasgressiva a seconda del periodo, familistica, consociativista, clientelare, nazional-popolare nell’accezione più volgare – dunque mai gramsciana – di questo fantasmagorico paese.
Una cultura piccolo-borghese, sostanzialmente televisiva – Pasolini ci aveva visto lungo – fatta di lustrini e paillettes; coltivata, sapientemente e con cura, da oltre sessant’anni (cioè, dai tempi della restaurazione postbellica dello stato liberale, con sigillo vaticano e fideiussione firmata dal Pci), dalle classi dirigenti e ammannita, ogni anno, a milioni di italiani; che se ne cibano, per tutta la durata della kermesse, come smarriti in un atto di auto fagocitante depensamento collettivo.
Un rituale ancestrale, officiato da Totem sacrificabili sull’altare del dio/merce, tra livori ingiustificabili e altrettanto ingiustificabili tripudi, ai quali le italiche e devote genti, accomunate in un gioioso interclassismo emozionale – come solo sugli spalti di uno stadio – si lasciano andare, scivolando nella malia oppioide di uno spettacolo stanco, costruito su cliché rassicuranti, ma capace, inspiegabilmente, ad ogni edizione sanremese, di suscitare una forma di tifoseria parossistica. Odi et amo tracimanti. Un’orgia dionisiaca di sensazioni viscerali e insondabili, vissuta tra sarcasmi, indulgenze, condanne inappellabili, compassionevoli perfidie – in particolar modo indirizzate alle donne – furori e fremiti, che non possono giustificarsi se non con l’infantilismo di un popolo condotto, come un fanciullo bisognoso di distrazione, a Disneyland, dal proprio padre-padrone. Una condizione che però, a parziale discolpa degli italiani stessi, sembra accomunare gran parte del cosiddetto occidente progredito.
Anche quest’anno, com’era facile prevedere, il rituale ha perciò prodotto i suoi osanna e i suoi anatemi, elevando stavolta sull’altare maggiore dell’edizione condotta da Claudio Baglioni – non mi spiegavo perché piacesse alle mie coetanee undicenni, e per questo, forse, ascoltavo i Pink Floyd e sono, in seguito, diventato comunista – l’attore Pierfranceso Favino. Interprete tra i migliori, senza dubbio, del nostro panorama cinematografico, Favino ha compiuto una scelta che, a prima vista, apparirebbe controcorrente: portare, su quel palco che aveva visto trionfare, in pieno berlusconismo, la farfalla di Belen, un monologo tratto dal testo “La notte poco prima delle foreste”, del drammaturgo francese Bernard Maria Koltes. Testo che Favino, oltretutto, sta portando con successo anche a teatro.
A questo punto, però, urge una precisazione. Non guardo Sanremo dagli anni ’80. Mi annoia per tutte le ragioni esposte prima e perché non amo quel genere di musica. Credo di essermi fermato a “Vita Spericolata” di Vasco Rossi, nel 1983. Ne avverto però chiaramente gli echi. Ne ho letto, nel tempo, di sfuggita, le cronache. Mentre oggi, con i social, m’imbatto, irrimediabilmente, nei post di chi, in preda ad un drammatico viaggio lisergico, commenta le cinque serate di Sanremo.
Non so chi abbia vinto il Festival, quest’anno, e non m’interessa. So, però, che Favino, col suo monologo da Koltes, si è conquistato la scena mediatica e social. Tuttavia, devo anche puntualizzare che, dopo la partita del Napoli, facendo zapping, ero giunto sul primo canale Rai, proprio mentre l’attore romano si cimentava nel suo monologo. Mi aveva sì colpito, sebbene non avessi ravvisato, in quell’interpretazione, nè le ragioni di un’immediata beatificazione – come sembrava dovesse accadere, scorrendo Facebook – né gli estremi per una riprovazione morale e ideologica, come quella espressa, su Twitter, da un uomo che da sempre mostra di non brillare per profondità di pensero: l’ex ministro, fascista e razzista, Maurizio Gasparri. Il quale, palesemente obnubilato dalla sua genetica tara, il fascismo appunto, e dalla sua atavica avversione alle razze inferiori – supponendo, non si sa come, di appartenere ad una razza superiore – ha apostrofato Favino come “penoso”, solo perché il pezzo teatrale da lui eseguito sarebbe risultato a favore dell’immigrazione.
Orbene, si può comprendere, da quanto accennato, quali reazioni, eccessive e contrastanti, abbia suscitato l’evento. Reazioni, dal mio punto di vista, sinceramente incomprensibili. Personalmente, difatti, Favino mi era mediamente piaciuto ma non consideravo certo la sua scelta “eroica”, né valutavo la sua interpretazione “straordinaria”, come invece in tanti hanno immediatamente voluto affermare. Anzi, per deformazione professionale, per naturale inclinazione alla critica esasperata ed esasperante, per vocazione politica al minoritarismo e per un certo egotismo esistenziale a sentirmi e definirmi borderline – tutto ciò che fa di me, insomma, un emerito rompiballe – ho colto, sin da subito, incongruenze, atmosfere dallo sfavillante color di retorica, un certo autocompiacimento nell’enfasi recitativa, e un chiaro indirizzo politico. Naturalmente concordato con i vertici dell’azienda, sostanzialmente in linea con il nuovo corso intrapreso dal Vaticano sotto la guida di Papa Francesco, di cui Rai 1, come da tradizione, è il megafono mediatico.
Insomma, a ben vedere, una scelta attentamente studiata, intelligente senza dubbio – considerando anche il periodo pre elettorale e quanto sta accadendo, nel paese, in termini di conflitto sociale a sfondo razziale – in discontinuità, forse, con l’irritante frivolezza sanremese, ma di sicuro non eccessivamente coraggiosa o addirittura eroica. Un pezzo teatrale da gettare così, senza alcuna premessa e senza alcun commento a posteriori – e, probabilmente, visto il clima, qualcosa si sarebbe potuto dire – nel frullatore dello show business, ad orologeria, e da servire sulla bella tavola imbandita di Sanremo per un pubblico che ne avrebbe dovuto godere, innanzitutto, per la suggestione interpretativa di Favino, per poi lasciarne svanire l’effetto come un profumo dall’aroma impalpabile.
Un complesso di fattori, che poco si accordano con Koltes, la sua drammaturgia, la sua vita. La mia critica a Favino, quindi, parte da qua. Ed è una critica che non fa sconti, a maggior ragione in considerazione del fatto che l’interprete del Libanese in Romanzo Criminale non solo è bravo, ma si è sempre dichiarato – come molti artisti ed intellettuali del resto – vicino a quella “sinistra” che sembra essere divenuta, oramai da anni, una categoria astratta, priva di quei contenuti sociali, politici, economici, etici e rivoluzionari che dovrebbero connotarne il senso. Una sinistra rosa pallido, insomma, più liberista degli stessi liberali. Più borghese degli stessi proprietari dei mezzi di produzione. Più genuflessa alle logiche padronali e statali degli stessi emissari dei padroni.
Inconciliabile, dunque, con Koltes. Il quale – mi piace pensarlo nel mio assurdo, lo ammetto, moto di stizza – si sarà incazzato non poco, bestemmiando, com’era probabilmente solito fare in vita, dal regno dei giusti.
Perché Bernard Maria Koltes era un rinnegato, un emarginato, un violento, un tossico, un reietto, un “frocio”. Un cattivo soggetto, morto prima dei 40 anni a causa dell’Aids. I suoi testi parlavano di dolore, di lacerazioni insanabili, di soggetti allo sbando nelle metropoli contemporanee, dove la solitudine degli sconfitti mangia il cervello ed il cuore, nelle notti illuminate dalle luci giallognole e cirrotiche delle strade secondarie. Parlavano di emarginazione sociale, di omosessualità, di razzismo, di violenza, di immigrazione. Parlavano di Lotta di Classe vissuta e patita sulla propria pelle. La pelle nera delle banlieue. La pelle stracciata dai buchi di eroina. La pelle decomposta dalle piaghe dell’Hiv. La pelle martoriata degli operai sfruttati. La pelle livida di calci delle donne picchiate, massacrate dai maschi. La pelle masticata delle puttane sputate agli angoli dei marciapiedi.
Dedicò persino un testo – il primo che vidi a teatro – a quel Roberto Succo, pluriomicida e assassino dei genitori, detto Il Cherubino Nero. Un moderno antieroe degli anni ’80, devastato da una follia onirica e vittima di una società essa stessa schizofrenica ed incapace, già allora, di proporre sogni che non fossero il nulla dell’apparenza, del denaro e della fama. Anche a costo di uccidere e di uccidersi.
Questo era Koltes. Nulla a che vedere con Sanremo ed il suo caleidoscopico sfavillio surreale, tramato di grottesco come un ballo di debuttanti smaliziate. Lì, in quel contenitore di pappe precotte e indigeribili, il suo teatro si normalizza. Diventa rumore di fondo tra altri fastidiosi rumori di fondo. Un susseguirsi di parole decontestualizzate, il cui unico scopo è strappare l’applauso melenso, gratificando l’ego attoriale di Favino.
Con il sovrapprezzo del danno: l’accusa di buonismo. Laddove invece la drammaturgia di Koltes è disperante, il suo teatro, crudele. Non si è reso – pur tralasciando un “fine pensatore” come Gasparri – un servigio all’autore francese, gettandolo in pasto all’indistinguibile massa narcotizzata dalla Tv e alla bella borghesia riunita all’Ariston.
Sarò estremista, veteromarxista, fuori dal mondo e dal coro, ma non riesco più a digerire certi decostruttivismi poststrutturalisti e postmodernisti, oramai divenuti verità ontologiche essi stessi, al servizio del relativismo neoliberista e dello strapotere del mercato. Si abbia il coraggio di andare a recitare Koltes nelle fabbriche, tra gli invisibili, tra i diseredati, dove quelle parole sono vissute con lacerazione, dove quei pensieri scuotono i nervi e gelano quotidianamente il sangue. Troppo facile farlo prendendo compensi da capogiro e nell’ebbrezza appagante del proprio narcisismo.
E allora, se Gasparri si commenta da solo, come qualunque fasciorazzista, corre l’obbligo, come comunisti – anche attirandoci gli strali di coloro che ci accuseranno certamente di perversione ideologica – di chiarire che il pur bravo Favino contribuisce, con il suo demagogico recitare (mi si passi l’espressione) alla fine di quel concetto di “sinistra” che traeva la propria forza, la propria ragion d’essere, prima di tutto dalla sua differente matrice culturale.
Perciò – lo dico a titolo personale e assumendomi tutte le mie responsabilità – mi sono un po’ rotto le scatole di artisti ed intellettuali che fanno dell’incoerenza il loro modello esistenziale, nel nome dell’italianissimo “tengo famiglia” o della globalizzata sovraesposizione mediatica, con straripamento annesso dell’Ego e del portafoglio. Intendiamoci, non ne faccio qui una mera questione di compenso, che pure, di fronte a tanta e diffusa povertà, donne e uomini, artisti ed intellettuali di sinistra, dovrebbero porsi come problema. Ne faccio, in questo luogo, proprio una questione politica.
Non è che puoi recitare Koltes – con quello che la drammaturgia di Koltes significa, in quanto a tematiche e stile – strizzando l’occhio furbescamente ai “contenuti” della sinistra, e poi dichiararti vicino al Pd per convenienza e, caso mai, per affacciarti sulla ribalta infiorata di Sanremo. Quel Pd che è sinonimo di Minniti. Il ministro dell’ordine e del manganello. Che vieta le manifestazioni antifasciste, dopo i casi di Macerata e Bologna, e che farebbe probabilmente arrestare ben volentieri uno come Koltes, appioppandogli Daspo e ostracismo culturale.
Credo sia giunto il momento di dire basta a tali ipocrisie. E i primi dovrebbero essere proprio gli intellettuali e i creativi. Vado oltre: segnatamente, dovrebbero farlo le donne e gli uomini di teatro. Di quel teatro, cioè, che sta attraversando un momento drammatico della propria esistenza, piegato com’è, oramai, alle più bieche logiche del profitto.
Il rischio, sempre più imminente, è, infatti, il caos, l’entropia globalizzata, il cui sbocco, purtroppo, non scorgo a sinistra. L’entropia è divenuta, in questo primo scorcio di XXI secolo, l’episteme della nostra epoca. Come pure la spettacolarizzazione di ogni aspetto delle nostre vite. Fluttuiamo, ormai, nell’oceano dell’indistinto. Il Postmoderno, come ho già detto altrove, è stato elevato a ideologia politica. La realtà come opzione variabile all’infinito. Per restare nei confini del Belpaese: i Cinque Stelle, Fusaro, e il terzoposizionismo rossobruno – fattori dell’ermeneutica politico-esistenziale, oramai à la page – ne rappresentano la semplificazione più eclatante. Tutto vale uno e Uno vale tutto. Ossia nulla vale qualcosa.
Si sta facendo, in poche parole, il gioco delle élite. Con tutti i pericoli che questo comporta. E allora, per tornare a Favino e al suo monologo, credo che si debba trovare il coraggio di dire che, considerando il contesto dell‘Ariston, più che un’operazione nazional-popolare – ah, povero Gramsci! – l’attore romano ha fatto un’operazione elitaria. Altro non è la cultura ridotta a puro spettacolo, apparecchiato da quelle stesse elite per la massa.
Dobbiamo riaffermare, ancora una volta, a costo di sembrar pedanti, che i contesti, e nello specifico i contesti linguistici, sono importanti. Sono importanti i passaggi storici. E non certo secondari sono anche i convincimenti di chi le parole recita, con la sua arte attoriale. Volonté docet!
È ciò che marca la differenza tra quello che Brecht definiva teatro gastronomico e autenticità, bisogno espressivo. Leo de Berardinis, alludendo a Dario Fo – dunque, non esattamente un reazionario – ebbe a dire: «Se vai in una fabbrica a dire ribellatevi, non vuol dire un cazzo. Se vai in fabbrica e reciti Rimbaud, compi un atto politico rivoluzionario». Certo, altre epoche e altre donne e uomini di teatro...
Franca Rame, ad esempio, subì uno stupro per la rappresentazione di Morte accidentale di un anarchico, dedicato a Pino Pinelli. Stupro ordinato dai vertici della Benemerita e compiuto dai fasci di San Babila. Oggi, in teatro, invece, si “riproduce tecnicamente” – la locuzione rimanda volutamente a Benjamin – la televisione: lo scambio, dunque, è reciproco.
E allora, anche se siamo disposti ad ammettere, seppur con una certa riluttanza, “ben venga che Koltes possa essere conosciuto al di là degli addetti ai lavori” – come si sta ripetendo da più parti – non possiamo e non vogliamo esimerci dal rimarcare il rischio che – con queste modalità, al di fuori del contesto culturale che gli apparterrebbe (popolare, rivoluzionario, di “classe”) – lo si trasformi in un banale post su Facebook, alla mercé del radical-chic massificato e omologante a sinistra.
Cosa che, d’altra parte, sta già avvenendo. Come il Che delle magliette, trasformato in icona di quel pacifismo borghese che a lui ripugnava. C’è da dire, inoltre – a riprova che il timore da me espresso non è proprio peregrino o frutto di paranoia idelogica – che proprio Favino, in un’intervista rilasciata a Teatro e Critica, a proposito dello spettacolo “La notte poco prima delle foreste”, sottolinea che la diversità, l’alterità di cui si parla non si connota immediatamente in senso politico e, pertanto, non è espressamente e immediatamente riferibile ad una condizione di “clandestinità” migratoria, ma assume un senso più ampio e, allo stesso tempo, più intimo, quindi esistenziale. Lecito, certo. Ma si comprenderà che così è Favino stesso a disinnescare l’esplosivo impatto sociale di quel testo.
Una nota, infine, va all’intepretazione stessa messa in gioco dal “Libanese”. Una prova attoriale innegabilmente forte, però costruita, tutta in virata sul pathos, sulla suggestione emotiva, di primo impatto, in linea, appunto, con quella che possiamo definire la cifra stilistica di Rai Uno.
Verrebbe da dire, con McLuhan, che, mai come in questo caso, il medium è il messaggio. Un testo come quello di Koltes, invece, avrebbe richiesto, a mio opinabilissimo parere, una recitazione più raffreddata, in sottrazione, capace di mirare all’intelligenza più che allo stomaco. Nel primo caso, infatti, s’illanguidisce lo spettatore, abbandonandolo alla compassione suscitata dalla bravura mimetica dell’attore. Nella seconda ipotesi, lo si colpisce al volto e lo si costringe a pensare dolorosamente, ponendolo di fronte ad un attore capace di farsi interprete critico.
In definitiva, quanto qui si vuol ribadire è che il Teatro non può perdere la sua valenza politica in nome della produttività dell’industria dello Spettacolo. Di questi tempi, poi, meno che mai. Perciò, oggi ancor più di ieri, mi sento di dire, parafrasando Antonio Neiwiller: il Teatro o è Clandestino o non è. All’Ariston lasciamo Sanremo, i fiori e le canzonette. Finché durano!
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