Quando si parla di messa a profitto dei diritti, si potrebbe correre il rischio di risultare un po’ vaghi, un po’ generici.
Che significa “mettere a valore” un diritto? Significa volere o dovere fare profitto dall’erogazione di un servizio essenziale.
Un ottimo esempio, utile a contestualizzare in modo chiaro la questione, è la sanità. In nostro soccorso arriva un interessante articolo pubblicato dal Sole 24 Ore sia nella sua edizione cartacea sia in quella online.
Questo è il link, e forse è interessante leggerlo, prima di andare avanti con un po’ di analisi.
L’autore, che è il Presidente di Confindustria Lombardia, analizza dal punto di vista della redditività il “settore industriale” della sanità Lombarda, che rappresenta l’11% del Pil “con una produzione di 55,8 miliardi di euro, oltre 20,7 miliardi di valore aggiunto prodotto, circa 339mila addetti e una densità scientifica ai livelli delle regioni benchmark”.
Dal punto di vista dell’autore dell’articolo l’analisi è perfetta: settore in crescita, da sostenere con opportuni investimenti.
C’è un problema, però, che a noi è balzato agli occhi immediatamente: stiamo parlando di salute. E allora? Nell’articolo si parla di “universalismo delle cure” e di “libertà di scelta del luogo di erogazione”, ma siamo certi che bastino queste due affermazioni per sistemare la questione di fondo del problema? E se garantire cure universali rappresenta, per qualsiasi motivo contingente, un investimento in perdita?
Ecco, sta tutta qui l’enorme contraddizione dell’approccio “capitalistico” al tema dell’erogazione dei servizi essenziali.
Guardare alla sanità come motore economico significa parlare di un mercato nel quale il paziente è un cliente e la prestazione sanitaria, e quindi la salute, sono la merce. Un mercato in cui c’è concorrenza: tra pubblico e privato, tra privato e privato. Solitamente, in mercati liberi, a vincere è una offerta di qualità che abbia un costo accessibile: più si richiede qualità, più si diventa clienti di nicchia, che spendono tanto ed ottengono tanto. Se non appartieni a questa categoria, ti accontenti di quello che puoi pagare. E se non hai quasi nulla? Quale mercato è disponibile per te?
Queste sono le considerazioni che vanno fatte, a nostro parere.
In un paese in cui l’età media cresce, la popolazione si invecchia, un uomo su due ed una donna su tre sono statisticamente a rischio di tumore, beh è ovvio che la sanità possa essere volano industriale e settore di investimento.
Ma in Italia si assiste anche ad un generale impoverimento della popolazione, il che porta ad una ulteriore domanda: a chi sarebbe riservato l’accesso ad un mercato in cui pubblico e privato sono in concorrenza, devono investire e devono poi rientrare degli investimenti?
E’ una questione di visione del mondo e di priorità: se al primo posto c’è la tutela della salute collettiva, allora il ragionamento non regge, e l’unica necessità vera è quella di sostenere la sanità pubblica, finanziandola e rendendola strumento di eguaglianza sociale – almeno nella malattia!
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