Lo spostamento da Roma verso Milano della sede di importanti aziende e la chiusura di altre, con conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro, costituiscono un dato allarmante attorno al quale sono già stati promossi due distinti momenti istituzionali. Il primo, convocato dalla sindaca Raggi la scorsa estate con i sindacati confederali ed intitolato Fabbrica Roma, che ha avuto una vita breve e nessun esito concreto. Il secondo, proposto dal Ministro per lo sviluppo economico Calenda ed al quale sono stati invitati i diversi attori economici, sociali ed istituzionali che agiscono nella Capitale, che ha avuto una vita appena un poco più lunga e che è stato caratterizzato dalla polemica politica tra governo e giunta comunale, con il chiaro intento di attribuirsi vicendevolmente le responsabilità della crisi.
In realtà, i documenti di entrambi i tavoli segnalano una completa sudditanza dei ragionamenti sulla città alle direttive ed all’impianto ideologico di matrice UE. Il perno attorno al quale ruota l’utilizzo di quasi 2miliardi di euro che Calenda si dice disposto ad utilizzare per fermare la crisi di Roma sono gli investimenti per il rinnovamento tecnologico, sulla falsariga del Piano Industria 4.0. L’idea di fondo è che grazie al sostegno alle imprese, meglio se grandi, sia possibile far riacquistare competitività all’intero sistema economico della Capitale. Una visione non diversa da quella utilizzata in questi anni nella gestione delle risorse su scala regionale e che ha provocato il balzo del Lazio al secondo posto tra le regioni italiane per le disuguaglianze economiche e sociali.
Va detto che il processo di ridislocazione di importanti attività economiche e produttive verso l’area metropolitana di Milano è il frutto di un riassetto continentale del sistema economico. Si sta realizzando una divisione funzionale delle diverse metropoli europee, una distinzione gerarchica delle stesse, in un quadro in cui si concentrano attorno alle aree metropolitane gli interessi dei grandi gruppi economici e finanziari. Del resto è stato calcolato che il Pil di una grande area metropolitana è paragonabile a quella di uno stato. Dopo le due grandi città globali europee Parigi e Londra, fuori misura rispetto al resto del continente, seguono le città di Madrid e Milano con un Pil compreso tra i 170 e i 180 miliardi di euro. Subito dopo vengono Roma, Barcellona e Berlino con un Pil compreso tra i 130 e i 140 miliardi di euro annui, paragonabile a quello dell’Ungheria.
Le aree metropolitane sono da anni al centro di una riflessione attenta da parte della Commissione europea, che ha individuato in esse non solo il cuore nevralgico dell’iniziativa economica ma anche il luogo della possibile esplosione delle contraddizioni sociali. Attraverso il concetto di “rigenerazione urbana” si è definita la strategia per gestire il controllo dei conflitti ma anche il terreno per investire quote importanti di capitali al fine di favorire il processo di valorizzazione capitalistica.
Il geografo marxista David Harvey ci ha descritto efficacemente come la riorganizzazione della vita urbana abbia rappresentato in altre epoche storiche un’occasione per il capitalismo di valorizzazione economica ma anche di disciplinamento sociale. Gli esempi che propone ne “Le città ribelli” (pubblicato in Italia nel 2013 da Il Saggiatore Milano) della riconfigurazione urbanistica di Parigi, affidata nel 1852 da Napoleone III ad Haussmann, e quello della suburbanizzazione del secondo dopoguerra negli Stati Uniti sono altrettante occasioni nelle quali il sistema produsse sia enormi investimenti economici ed un forte riassorbimento di manodopera, altrimenti eccedente, che la realizzazione di nuovi stili di vita.
La strategia della rigenerazione urbana di oggi sembra di fatto ispirarsi ad analoghi obiettivi. Essa viene ripresa nel dettaglio dai lavori della “Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie” che ha concluso i suoi lavori nel gennaio del 2018, con lo scioglimento delle Camere. Questa Commissione era stata istituita a fine 2016 sia in seguito agli attentati terroristici, che in diversi paesi europei facevano risalire l’identità e l’origine degli attentatori proprio nelle periferie metropolitane, sia dalla constatazione che i maggiori fenomeni di conflittualità sociale ed anche di separazione dal sistema istituzionale si registrano nelle zone periferiche delle grandi città. Le conclusioni cui è giunta la Commissione sono quelle di una strategia integrata di interventi basata sul maggior controllo (presidio del territorio da parte delle forze di polizia, sistemi di sorveglianza, monitoraggio costante delle situazioni a rischio), contrasto alle forme di illegalità diffuse in queste zone, ed interventi di rigenerazione urbana in campo edilizio e sociale.
Sul piano del controllo e del rafforzamento degli strumenti in mano agli organi di polizia si è già provveduto con l’approvazione del decreto Minniti sul decoro e la sicurezza urbani con il quale sono stati estesi i dispositivi repressivi. In particolare, anche nei lavori della Commissione, si registra un’autentica ossessione verso tutte le forme di occupazione di stabili in disuso, che viene considerata una forma di illecito verso la quale adottare il massimo della fermezza. Ma accanto all’intervento coercitivo rivolto contro i settori sociali più poveri, c’è l’intervento di natura economica e sociale, affidato all’azione congiunta delle amministrazioni locali e degli investitori privati. Piuttosto che continuare a consumare suolo in un paese ormai saturo si propone l’abbattimento e la ricostruzione di aree e immobili fatiscenti, naturalmente non per opere di natura sociale (scuole, ospedali, ecc.) ma finalizzate alla rimessa in moto del tessuto economico. Quindi un’operazione a tutto ed esclusivo vantaggio delle imprese e dei loro appetiti. Questo processo è ampiamente visibile in diverse aree centrali delle città: conosciuto come processo di gentrificazione sta mettendo nelle mani delle banche e delle grandi catene commerciali tutti i centri storici di maggior pregio delle nostre città, favorendo l’espulsione degli abitanti verso le zone periferiche. Si tratta di un processo che si sta imponendo su scala continentale e che risponde ad un disegno di riorganizzazione delle aree urbane: i centri storici rimangono aree esclusive per una classe agiata cosmopolita, mentre le aree periferiche sono sempre più da considerare come discariche sociali.
La stessa Commissione ha proposto una classificazione delle aree metropolitane in 4 grandi aggregati: centro storico, aree centrali, periferie urbane intermedie e più esterne, e nuove periferie fuori dai confini amministrativi della città. In media in Europa il peso di queste zone esterne è intorno al 35 % dei residenti, ma a Milano siamo al 76,2% tra le più alte in Europa, a Napoli al 68,1%. Roma è ferma al 38,9% ma va considerato che Roma è il Comune più esteso d’Europa.
Ed è proprio in queste aree esterne, che da alcuni anni rientrano nella giurisdizione delle Aree metropolitane, che si concentrano gran parte degli insediamenti produttivi e di lavoro, dai grandi complessi per uffici ai centri logistici e industriali, alle aree di ricerca e innovazione, ai poli commerciali. Le periferie pertanto non vengono viste solo come zone da controllare ma anche come i poli strategici dell’intervento economico, ed è lì, oltre che nei centri storici, che si soffermerà anche nei prossimi anni la strategia della rigenerazione urbana.
Il taglio dei servizi, l’aumento della disoccupazione ed il riprodursi della questione degli alloggi sono le tre facce attraverso le quali si presenta la questione sociale nelle aree periferiche. Se consideriamo che dei 9 milioni di abitanti nei 14 capoluoghi metropolitani ben 7 milioni vengono classificati nelle periferie e che a questi vanno aggiunti sia gli abitanti degli hinterland che quelli classificabili come periferia sociale più che geografica, sono ben 15 i milioni di abitanti del nostro paese che la stessa Commissione considera appartenente al mondo della periferia. Su questa parte enorme della popolazione l’azione non può essere solo repressiva ma si stanno immaginando nuove forme di intervento del privato sociale e del cosiddetto terzo settore che hanno il duplice obiettivo di promuovere un intervento disciplinare sui settori popolari e di permettere forme di valorizzazione anche nella gestione dei servizi sociali. Nel mirino delle imprese non c’è solo il sistema dei servizi di rete, dai trasporti ai rifiuti fino all’energia e all’acqua, ma anche quello dei servizi di cura e della gestione del disagio. L’ingresso delle fondazioni bancarie in questo settore e l’assoggettamento degli operatori sociali ad un nuovo regime di sorveglianza dell’utenza sono le due caratteristiche di questo salto di qualità nel modo di concepire i servizi sociali, con lo sdoganamento definitivo del profit e la riduzione degli enti no profit ad esperienza residuale.
Anche l’industria culturale svolge una funzione importante nei processi di rigenerazione urbana, non solo per la realizzazione di grandi impianti come auditorium, stadi, centri congresso, ecc. ma anche per la cattura di interi quartieri, eletti a luoghi privilegiati del divertimento, prevalentemente giovanile. E sono forse proprio questi luoghi dove più frequentemente risaltano contraddizioni e conflitti tra stili di vita e di consumo spontanei e necessità di regolamentazione del sistema per garantire una gestione regolare degli affari.
Nell’analizzare lo spostamento di interesse di diverse aziende da Roma verso Milano, nonché l’apparire di una serie di interventi che sottolineano la centralità crescente del capoluogo lombardo fino ad avanzare l’ipotesi del trasferimento al Nord della capitale, occorre quindi tenere presente il piano complessivo di riorganizzazione del sistema capitalistico nella gestione delle aree urbane. Un piano che tende a rafforzare una regia unica, sia sotto il profilo dell’azione repressiva che da quello dell’intervento “rigenerativo”, assegnando ad ogni polo metropolitano un ruolo specifico in base agli interessi e alle scelte del mercato.
In questo contesto ciò che scompare definitivamente è il diritto alla città, quel tipo assai particolare di diritto collettivo di cui parlava Henri Lefebvre, che è molto più che un diritto di accesso alle risorse urbane ma è il diritto di cambiare e reiventare la città in base alle nostre esigenze e che dipende dall’esercizio di un potere comune sui processi di urbanizzazione. La rigenerazione urbana è una strategia che mira all’esproprio definitivo di ogni controllo dal basso sui cambiamenti urbani, il cedimento completo alla logica delle imprese nell’organizzazione della vita metropolitana. L’azione pubblica resta indifferente (dal punto di vista delle ricadute sociali) allo spostamento di attenzione verso il Nord delle grandi imprese, anzi se ne rende complice: le città sono ormai terreno di conquista e di rapina per il grande capitale. Allo Stato sembrano ormai rimasti i soli ruoli della narrazione ipocrita e falsificante (la politica) e della repressione del conflitto (la polizia).
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