di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Le notizie che
arrivavano ieri da Ghouta est, filtrate dalle rispettive propagande, restituivano un quadro torbido: nelle cinque ore giornaliere di pausa
umanitaria – indetta dal presidente russo Putin ed entrata in vigore
ieri – gli scontri non sono cessati. Seppur sporadiche, esplosioni sono
risuonate nel sobborgo di Damasco, casa-prigione per 400mila persone.
E i corridoi umanitari individuati dalla Russia, la cui
localizzazione è stata comunicata ai civili con volantini e sms, sono
rimasti vuoti: delle centinaia di persone intrappolate dal 2013 nessuna
ha tentato la fuga. E le agenzie umanitarie non sono riuscite a far passare gli aiuti per il fuoco dei missili: non si esce e non si entra.
Civili ostaggi delle opposizioni islamiste presenti nella
Ghouta orientale, dice Damasco, che riporta di colpi di mortaio caduti
non solo sulle zone residenziali della capitale, come avviene da anni,
ma anche sul campo di al-Rafidain e sulle vie di fuga, il checkpoint di
al-Wafideen, dove autobus governativi attendevano eventuali sfollati.
I civili sono usati come scudi umani, denuncia Damasco, dall’ex
al-Nusra e i suoi affiliati, assedianti interni del sobborgo. Che
rispondono: la gente non scappa perché teme una trappola governativa. Secondo
i miliziani, ieri l’aviazione siriana ha compiuto una decina di raid
durante la finestra di tregua, tra le 9 e le 14. Due i morti e 16 i
feriti per missili, di diversa attribuzione a seconda della fonte.
Una situazione identica all’inferno vissuto da Aleppo nell’inverno
2016: a fronteggiarsi forze e narrative diverse. Osservatori esterni si
chiedono perché Assad dovrebbe proseguire nel bombardamento
indiscriminato di Ghouta, sapendo di attirarsi lo sdegno internazionale,
soprattutto dopo l’annuncio in pompa magna di Putin. C’è chi risponde
che l’obiettivo è annientare le opposizioni islamiste il prima
possibile, chi mette in dubbio la potenza di fuoco vomitata sul
sobborgo.
Reagisce anche la Russia che accusa le opposizioni di bugie e abusi contro i civili, di fatto prigionieri: a
mezzogiorno di ieri, dice il centro di comando russo in Siria, i
miliziani hanno lanciato una nuova controffensiva, «azioni accompagnate
da intenso fuoco di artiglieria». Il ministro degli Esteri Lavrov ha comunque annunciato il mantenimento dei corridoi umanitari.
Ma a farsi avanti sono le stesse opposizioni: in una lettera
all’Onu tre dei cinque gruppi presenti nella comunità – Jaysh al-Islam,
Ahrar al-Sham e Faylaq al-Rahman – hanno manifestato l’intenzione di
«deportate del tutto» i miliziani dell’ex al-Nusra e le loro famiglie
entro 15 giorni dall’entrata in vigore della tregua prevista dalla
risoluzione Onu di sabato. Così verrebbe meno la contraddizione
contenuta in quella risoluzione, che esclude dal cessate il fuoco
qaedisti (ex al-Nusra, dunque) e Isis.
Restano a monte sia Jaysh al-Islam che Ahrar al-Sham, salafiti ma
considerate opposizioni legittime tanto da guidare la delegazione
anti-Assad a Ginevra, hanno apertamente collaborato con al-Nusra e
condiviso la sua visione, finendo per diventarne una stampella. Ora si
impegnano a espellere i qaedisti e a facilitare la consegna degli aiuti,
passo necessario alla sopravvivenza politica.
Il fuoco non cessa nemmeno a nord, dove la Turchia –
rassicurata da due anni e mezzo di impunità, da quando entrò
illegalmente con i carri armati in Siria – continua a bombardare Afrin. L’agenzia di Stato Sana denuncia
due morti ieri e cinque lunedì e il Consiglio per la salute del cantone
curdo dà un bilancio di 192 uccisi dal 20 gennaio, inizio di «Ramo
d’Ulivo», di cui 28 bambini.
Numeri a cui si aggiungono quelli di Airwars, organizzazione che da anni monitora l’operazione militare Usa tra Siria e Iraq: tra agosto 2014 e metà febbraio 2018, i 29.095 raid statunitensi hanno ucciso tra le 6.317 e le 9.444 persone,
almeno sette volte tanto il bilancio del Comando Usa, che parla di 841
vittime civili «non intenzionali». Morti senza responsabili su cui l’Onu
per ora non ha emesso risoluzioni.
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