Le truppe turche e i miliziani dell’Esercito Libero siriano al soldo
di Ankara sono alle porte di Afrin. Due chilometri dalla principale
città del cantone curdo nel nord della Siria. La paura è enorme, la
paura di un massacro.
Nel silenzio internazionale per un’offensiva fuori dalla legalità, l’amministrazione
autonoma di Afrin ha fatto appello al Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite perché intervenga a fermare Ankara: “Negli ultimi
giorni lo Stato fascista turco sta cercando di portare avanti attacchi
contro la popolazione civile ad Afrin – si legge nel comunicato, letto
ieri da Sex Isa, co-presidente del Consiglio esecutivo – Centinaia di
civili, compresi donne e bambini, sono stati massacrati a seguito di
questi attacchi. Oltre agli attacchi armati, l’esercito turco
invasore sta cercando di prendere di mira gli approvvigionamenti di
acqua potabile, scuole e abitazioni”.
Si mobilita anche la popolazione: i civili si stanno
organizzando per fare da scudi umani intorno alla città per impedire
l’invasione dei carri armati turchi. Ieri altri villaggi della periferia
nord e sud di Afrin sono stati occupati dalle truppe turche e
dall’Esercito Libero. Le ultime ore sono state pesantissime: i
raid aerei si sono intensificati, internet è stato sospeso e l’acqua
corrente interrotta. Dietro, la minaccia del presidente Erdogan che
sabato dava Afrin per caduta in pochi giorni e l’intenzione di procedere
oltre, verso est, verso Kobane e Manbij. Parla di “liberazione”,
Erdogan, e del piano di spostare ad Afrin centinaia di migliaia di
rifugiati siriani che oggi si trovano in territorio turco. E accusa
anche la Nato di non appoggiare direttamente “Ramo d’Ulivo”.
Eppure un sostegno c’è, quello del silenzio più totale: gli
Stati Uniti, alleati dei curdi nel nord, non parlano né intervengono, la
Russia – dopo l’iniziale via libera al governo di Damasco ad inviare
combattenti al confine – tace e lo stesso governo siriano non sta
utilizzando gli uomini filo-Assad mandati nelle scorse settimane ad
Afrin a difesa delle frontiere. Un’omertà che permette ad
Ankara di allargare ulteriormente le operazioni: ieri sono ripresi i
bombardamenti aerei contro il nord dell’Iraq e almeno 18 postazioni del
Pkk, nelle montagne di Qandil dove i combattenti curdi si ritirarono
durante il processo di pace voluto da Ocalan. All’iniziale
protesta irachena, Ankara ha risposto con una serie di accordi
bilaterali siglati a gennaio con cui zittire il governo di Baghdad.
La situazione nel cantone è terribile: al mezzo milione di sfollati
che vivono ad Afrin, accolti in questi anni dai 500mila abitanti
originari, se ne aggiungono altri. Fonti interne raccontano di famiglie
che aprono le porte a chi ha perso la casa, ma ora la crisi si allarga a
causa della mancanza di acqua e la scarsità di cibo e medicinali.
Da Afrin dove si trova per raccontare l’operazione turca “Ramo
d’Ulivo”, lanciata dalla Turchia il 20 gennaio, Jacopo Bindi ieri
scriveva: “Nelle ultime ore la situazione ad Afrin si è fatta più
critica: l’esercito turco invasore e le bande jihadiste sue alleate si
sono avvicinate alla città da diversi lati, in particolare dalla
direzione di Shera. Sono a 2,5 km di distanza e minacciano direttamente
la città. La situazione dentro Afrin è quella che c’era già in questi
giorni, quindi alta densità di popolazione, tanti rifugiati dai
villaggi che qui hanno trovato rifugio dalla guerra e dai bombardamenti,
mancanza di acqua perché quando i jihadisti e l’esercito turco hanno
preso la diga di Meidanki hanno tagliato la fornitura e bombardato le
stazioni di pompaggio in altri villaggi”.
“Mancano anche alcuni generi di prima necessità. Adesso il rischio
concreto è che nelle prossime ore ci sia una situazione sempre più
critica e che attacchino la città; già in questo momento ci sono
bombardamenti di artiglieria e di aerei nelle zone periferiche della
città. Il Tev Dem ha chiamato a una mobilitazione generale, a una
sollevazione in tutti i posti e le piazze del mondo per difendere
Afrin”.
E sta succedendo. Tra sabato, ieri e oggi si stanno tenendo manifestazioni e presidi in tutta Europa:
in Germania a Berlino, Amburgo, Dusseldorf, Brema, Stuttgart, Hannover,
Colonia; in Olanda ad Amsterdam; in Francia a Parigi, Lione, Marsiglia e
Tolosa; in Danimarca a Copenaghen; in Svezia a Stoccolma e Goteborg; in
Norvegia a Oslo; in Russia a Mosca; nel Regno Unito a Nottingham,
Manchester, Liverpool e Cambridge; in Svizzera a Zurigo; in Belgio a
Bruxelles.
C’è anche l’Italia: sabato è stata a volta di Torino, oggi nel pomeriggio toccherà a Roma, Padova e Bologna.
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