Recentemente il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si è fatto promotore di un percorso che dovrebbe portare a una lista per le elezioni europee. Questo percorso sembra aver raccolto l’interesse anche di alcuni partiti, tra cui il Partito della Rifondazione comunista e Sinistra italiana.
Si tratta di una proposta all’altezza delle difficoltà di questa fase storica? La risposta va definita sulla base dell’esperienza degli ultimi dieci anni. In questo periodo sono stati messi in campo molti progetti politici con esiti fallimentari. Non solo perché non hanno portato a eleggere, con l’eccezione dell’Altra Europa (tre deputati eletti al Parlamento europeo) ma soprattutto perché queste coalizioni hanno mostrato la corda o sono state superate all’indomani delle elezioni. L’Arcobaleno, la Federazione della sinistra, Rivoluzione civile, l’Altra Europa, Potere al Popolo sono solo alcune delle sigle succedutesi l’una all’altra. In mancanza di continuità non si sono accumulate forze, anzi quelle raccolte sono state disperse, riducendo progressivamente i consensi e il radicamento sociale.
Certamente il difficile contesto economico e politico ha giocato un ruolo importante nell’indebolimento progressivo. In primo luogo il quadro generale della crisi capitalistica ha determinato nuove condizioni oggettive sul piano dell’articolazione di potere delle classi dominanti, nonché sul terreno della composizione di classe dei settori sociali subalterni. Tuttavia, come sempre, i risultati dipendono anche da come reagiamo soggettivamente alle condizioni oggettive.
Inoltre, lamentarsi della coazione a ripetere non è sufficiente, bisogna capirne le ragioni. Queste stanno nel fatto che si trattava di coalizioni puramente elettorali senza un progetto condiviso e di lunga durata. Erano coalizioni che riducevano la tattica al tatticismo elettorale, senza rapporto alcuno con una strategia politica e di radicamento sociale. A prevalere era la necessità di mettere insieme la massa critica sufficiente ad eleggere, garantendo la sopravvivenza delle formazioni che ne facevano parte. Formazioni spesso con posizioni diverse sia sul piano delle alleanze (e del rapporto con il Pd) sia sul piano delle tematiche dirimenti.
Ritornando a De Magistris, la sua è una proposta in discontinuità con il passato? Così sembrerebbe in apparenza, a giudicare dall’enfasi sul richiamo alle realtà della società civile e all’invito alle forze politiche – cioè ai partiti – a mettersi in secondo piano. Un atteggiamento che, a ben guardare, è un vecchio leitmotiv, praticato ad esempio da Rivoluzione civile, con i risultati che sappiamo e che sarebbe ingiusto attribuire unicamente alla personalità di Ingroia.
Curioso è che sia oggi sia nel 2013 il deus ex machina sia un ex magistrato, che ci si illude possa ricompattare la sinistra e farle spiccare il volo in termini di consensi, in virtù della sua esposizione mediatica. Si tratta di una valutazione ingenua.
Da una parte, testimonia la crisi di legittimità e di vitalità dei partiti. Dall’altra parte, l’affidarsi a un personaggio carismatico (che lo sia effettivamente o no nulla cambia) non può compensare la mancanza di un posizionamento politico adeguato. Ciò risulta particolarmente evidente con De Magistris, in particolare da quanto appare da una intervista rilasciata ad Argiris Panagopoulos.
Qui la coalizione in progetto viene definita come parte di “un fronte popolare paneuropeo contro la destra”. Infatti, oggi la contraddizione principale, per De Magistris, sarebbe quella tra il nazionalismo e il sovranismo, da una parte, e l’Europa, dall’altra. La sua collocazione è, senza dubbi di sorta, nel campo europeo: “Oggi la nostra patria è l’Europa, il mondo intero”.
Si tratta di un approccio vecchio, come dimostrato dalla storia recente. Dopo dieci anni di crisi, sedici di euro e oltre venti di convergenza sui vincoli europei dovrebbero essere ormai chiari due fatti. Il primo è che l’Europa di oggi non è la patria di nessuno ma uno strumento di ribaltamento dei rapporti di forza a favore delle élite, o, per un usare un termine più preciso, del grande capitale e con il procedere della crisi economica mondiale ha accentuato questi aspetti.
Non esiste alcuna Europa, esistono la Commissione europea, la Bce e l’euro. Sul piano economico l’euro è lo strumento della deflazione salariale, impedisce la realizzazione di politiche economiche e industriali, e forza alla disciplina di bilancio e alla distruzione del welfare state. Sul piano politico l’euro rappresenta una regressione di portata storica, perché comporta l’eliminazione della sovranità democratica, mediante la neutralizzazione delle istituzioni della democrazia rappresentativa, a partire dai parlamenti.
Il secondo dato di fatto è che l’integrazione europea aumenta le divergenze e i divari tra Paesi e, all’interno di essi, la polarizzazione sociale e la povertà. Abbiamo chiaro che non tutto dipende dall’Europa, nel senso che il tema è il modo di produzione capitalistico ed il suo superamento, ma la domanda è se rimuovendo gli ostacoli che impone l’Europa ci siano condizioni più favorevoli per una battaglia di cambiamento. Su questo crediamo che la risposta sia affermativa.
Se assistiamo ad una recrudescenza del nazionalismo e delle rivalità tra stati-nazione e ad uno sviluppo, senza precedenti nel secondo dopoguerra, della xenofobia e del razzismo, lo dobbiamo in gran parte proprio all’Europa. Del resto sappiamo bene che la fortuna politica di Salvini è un effetto diretto dell’integrazione economica e valutaria europea.
Pensare di articolare una strategia contro la destra di Salvini, di Orban, e di Le Pen senza avere chiaro questo contesto, vuol dire continuare a permettere a questi soggetti di accumulare consensi, proprio perché strategicamente ci si subordina al Pd e soprattutto ci si mette alla coda del grande capitale multinazionale europeo che ha ideato e strutturato questa Europa.
Il fallimento del Pd e del centro-sinistra europeo è legato proprio alla loro adesione ai vincoli europei e all’integrazione europea, anzi all’esserne stati agenti promotori come e forse più del centro-destra, utilizzando la copertura dell’ideologia europeista. La mancanza di chiarezza su questo aspetto lascia molti spazi a convergenze politiche che nel passato si sono rivelate devastanti per la sinistra e per i lavoratori. Insomma, ci sono tutte le condizioni per l’ennesima coalizione a perdere, difficilmente in grado di eleggere e comunque non in grado di andare oltre l’effimero appuntamento elettorale.
Tutto ciò ci lascia ancora più perplessi se consideriamo le vicende degli ultimi mesi di Potere al Popolo. Si poteva lavorare per far crescere quella esperienza e, se lo si riteneva, per superarne i limiti. Invece PaP è stata indebolita da serie di diatribe di carattere organizzativistico formale (in particolare sullo statuto), che hanno portato alla scissione del Prc e che di recente sembrerebbe si stiano addirittura trasferendo sul terreno legale dell’uso del nome e del simbolo.
Se, invece, la discussione si fosse incentrata sui contenuti e sulla prospettiva strategica forse non si sarebbe arrivati alla scissione. E, anche se ci si fosse arrivati, il dibattito sarebbe stato più utile e ci avrebbe fatto crescere tutti di più, definendo meglio le rispettive posizioni anziché demoralizzare molte persone.
Ad ogni modo, la liquidazione da parte del Prc dell’esperienza di PaP è stata un errore, visibile anche per il fatto che i compagni rimasti in PaP, proprio sulla base del lavoro pregresso, sono riusciti a progredire sul piano programmatico proprio in vista delle elezioni europee. È, infatti, sull’Europa, che la posizione di PaP risulta, a nostro avviso, più avanzata e molto più adeguata alla fase storica di quella che emerge dalla visione di De Magistris.
Il programma delle europee di PaP – i cinque punti – prevede un “piano B”, cioè la possibilità di una alternativa politica allo stare in una Europa irriformabile. Si tratta di una posizione che si aggancia ai livello più avanzato del dibattito politico europeo, rappresentato dai partiti del Patto di Lisbona, e che costituisce una base molto più realistica su cui costruire un movimento antagonista al capitale su base continentale. In definitiva, è un orientamento internazionalista invece che di mera riproposizione di un approccio astratto e cosmopolita da “patria europea”.
Inoltre, PaP si sforza di inquadrare la questione europea in un percorso, per quanto abbozzato, di trasformazione sociale complessiva, che implica una chiara rottura con le tradizionali e compromesse forze della pseudo sinistra. A questo scopo PaP pone l’obiettivo di misurarsi sulla lunga durata e sull’accumulo delle forze, una discontinuità positiva per una coalizione nata in occasione di una competizione elettorale.
Sarebbe stato saggio, una volta tanto, darsi la possibilità di mettere alla prova e confrontarsi su una prospettiva strategica e contenuti più definiti, piuttosto che liquidare definitivamente una esperienza, gettando a mare il lavoro già fatto. Sarebbe opportuno, riaprire un confronto di merito prima di tutto tra PaP e Prc al fine di costruire anche sul piano elettorale un’opzione coerente ad un progetto di lungo periodo. In special modo, se l’alternativa è un percorso le cui basi e le cui prospettive appaiono particolarmente deboli e contrassegnate dagli stessi errori del passato.
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