Nei miei ultimi libri ho analizzato la mutazione genetica che ha
fatto sì che le sinistre (tanto le socialdemocratiche che le radicali)
siano trasmigrate nel campo liberale (sia pure con diverse sfumature),
abbandonando la rappresentanza delle classi subalterne per rivolgere la
propria attenzione ai ceti medi riflessivi. Ho
anche tentato di indicare tanto le cause “esterne” (le trasformazioni
del sistema capitalistico e il loro impatto sulla stratificazione di
classe), quanto quelle “interne” (il mancato svecchiamento dell’apparato
ideologico ereditato dal passato) del fenomeno. Si tratta di temi
troppo impegnativi da affrontare nello spazio di un post, per cui mi
limito qui a evidenziare quello che è forse il sintomo più clamoroso
della mutazione, vale a dire l’impulso suicida che accomuna tutte le
forze politiche che tuttora si definiscono di sinistra. In particolare,
vorrei sottolineare che, a essere afflitti dal sintomo in questione,
sono anche quei populismi “di sinistra” che pure sembravano avviati ad
occupare il vuoto politico lasciato dalle “vecchie” sinistre, tanto da
alimentare il sospetto che basti collocarsi in quell’area per
condannarsi all’autodistruzione.
I casi di Podemos e dell’M5S sono particolarmente significativi. Si
tratta di due forze che presentano differenze tutt’altro che marginali:
l’M5S ha sempre affermato di non essere di destra né di sinistra, mentre
Podemos, dopo esitazioni iniziali, ha rivendicato l’appartenenza al
campo delle sinistre radicali; i programmi politici del primo appaiono
studiati per rivolgersi a una base sociale trasversale, mentre quelli
del secondo sono più orientati verso gli interessi degli strati sociali
inferiori. Ma le affinità sono più significative: entrambi sono partiti
di opinione, senza forti radici nella società e nel territorio, con una
struttura verticale che vede un leader carismatico, con il suo cerchio
magico, che intrattiene una relazione diretta con la base; entrambi
privilegiano i media – vecchi e nuovi – rispetto alle vecchie strutture
partitiche come canali di mobilitazione e organizzazione; i loro
successi elettorali si fondano soprattutto sulla denuncia morale (con
particolare attenzione al fenomeno della corruzione) dei vizi della
“casta”, cioè delle tradizionali élite economiche, partitiche e
mediatiche (anche se Podemos conserva una qualche velleità antisistema
che l’M5S ha viceversa completamente accantonato); entrambi sono
partiti con parole d’ordine anti euro per adagiarsi ben presto su
posizioni europeiste “critiche”; infine entrambi condividono con le
sinistre tradizionali la cultura del politicamente corretto (Unidos
Podemos si è addirittura ribattezzato Unidas Podemos, in ossequio alla
retorica femminista).
In ragione di tali affinità, entrambe queste forze erano fin
dall’inizio esposte, a mano a mano che venivano occupando quote
significative del tradizionale spazio elettorale di sinistra, a una
sorta di “effetto Zelig” (per citare il film di Woody Allen), al
rischio, cioè, di sviluppare una sorta di assimilazione mimetica nei
confronti dei titolari dello spazio in questione. E infatti così è
avvenuto. Oggi Podemos, dopo avere regalato al rivitalizzato Psoe di
Sanchez il ruolo di garante della democrazia di fronte alla minaccia
(volutamente enfatizzata) del populismo di destra, ha visto dimezzare il
proprio elettorato e si scopre indotto ad appoggiare un governo
socialista (guidato cioè dal partito che per anni aveva accusato di
essere corrotto e di condurre politiche antipopolari!) nel quale
occuperà una posizione marginale e subordinata (per una impietosa
analisi del disastro della sinistra radicale spagnola, invito chi
conosce lo spagnolo ad ascoltare una lunga intervista dell’ex segretario di Izquierda Unida, Julio Anguita).
Peggio, se possibile, ha fatto l’M5S. Incapace di fronteggiare
l’iniziativa politica della Lega, sempre più abile nell’incarnare un
ampio blocco sociale che aggrega settori del capitale italiano più
esposti ai danni collaterali del processo di globalizzazione e strati
proletari preoccupati dalla concorrenza della forza lavoro straniera, ed
esposti al degrado dei quartieri periferici. Incapace, soprattutto, di
incalzare l’invadente partner di governo sul terreno delle
disuguaglianze, dell’occupazione, della difesa degli interessi
dell’intera comunità nazionale (e non solo di una parte di essa) di
fronte ai diktat dell’Europa a trazione franco-tedesca. Così l’M5S anche
se non si è (ancora) alleato con il PD, si è trasformato di fatto in una
sorta di “copia” dei democratici: cala le brache su NoTav e austerità
dettata dalla Ue; depone ogni velleità di nazionalizzazione (vedi i casi
Autostrade e Ilva); oppone deboli resistenze al “separatismo dei
ricchi” incarnato dalle richieste autonomiste delle regioni del Nord; fa
poco o nulla per tutelare gli interessi del Meridione, cui pure deve i
propri successi elettorali. Risultato: se si votasse oggi Salvini
prenderebbe il doppio dei voti dei grillini, mentre l’M5S appare sempre
più orientato a cercare sponda nel PD.
Non a caso, sul Corriere della Sera del 22 luglio troviamo un fondo
di Paolo Mieli che gongola perché la Lega, pur avendo vinto le Europee,
appare sempre più isolata, e un M5S in stato confusionale appare sempre
più tentato di guardare “a sinistra”. Troviamo anche una lunga
intervista di Dario Franceschini che rimprovera al PD di Renzi di avere
regalato l’M5S all’abbraccio della Lega, senza capire le differenze fra
le due attuali forze di governo (e invita implicitamente il PD di
Zingaretti a porre rimedio a quell’errore). Insomma: le élite
neoliberali sognano di ritornare al bipolarismo fra una destra e una
sinistra (sia pure rivestite da abiti nuovi di zecca) che si alternino
pacificamente nel ruolo di gestori degli affari delle classi dominanti.
In conclusione: qualsiasi forza politica che voglia realmente costruire
un’alternativa di sistema, è caldamente invitata a evitare velleità di
“rifondazione” della sinistra, perché quello spazio politico – insieme
alla parola che lo connota – è ormai irreversibilmente associato alla
conservazione dell’esistente. C’è ancora una destra, non c’è più una
sinistra, quindi, per svolgere il ruolo che quest’ultima ha avuto nel
Novecento, occorre inventare qualcos’altro.
Carlo Formenti
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