In Francia, una recente riforma ha ridotto il numero delle regioni da 22 a 13. Le regioni troppo piccole o poco popolate avevano bisogno di raggiungere “una dimensione adeguata alle sfide economiche e di mobilità”, tale da consentire “di competere con le collettività simili in Europa”. Fra tali collettività regionali si citano la Catalogna, la Baviera e, guarda caso, la Lombardia. Al di là delle indubbie e anche notevoli differenze, riforma regionale francese ed autonomia differenziata compongono un quadro sostanzialmente unitario. Chi legga con attenzione le bozze di intesa dell’autonomia differenziata trova ben pochi riferimenti di tipo identitario e molta governance, efficienza amministrativa, crescita economica, sinergia con le imprese, promozione dell’innovazione. Il dibattito sull’impatto potenzialmente devastante di una regionalizzazione di sanità, scuola e ricerca ha posto in secondo piano questo punto, il quale ci offre, in realtà, la chiave di volta di tutto l’edificio.
A ben vedere, anche la gestione dell’istruzione e della ricerca risponde alla necessità di formare manodopera per le aziende del territorio. In questa corsa spietata, l’Italia è percepita dalle regioni ricche come un carrozzone troppo lento ed ammaccato, per riuscire a tenere il passo con i bolidi del Nord Europa, loro naturale punto di riferimento. Il resto è folklore, una caramella dal gusto vagamente dolciastro ad uso e consumo (anche elettorale) dei nostalgici dei dialetti e dei sapori perduti.
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Per comprendere in tutta la loro complessità – ragioni di fondo e razionalità generale che le ispira – le dinamiche sottese all’autonomia differenziata e gli effetti che potrebbero derivare da una sua realizzazione, è necessario allontanarsi dai confini nazionali ed aprirsi su uno scenario europeo.
Un contributo particolarmente significativo in tale direzione viene certamente dalla Francia, dove la riforma regionale promossa dalla legge 2015-29 del 16 gennaio 2015 (entrata ufficialmente in vigore il 1° gennaio dell’anno successivo) ha ridisegnato il territorio, riducendo il numero delle regioni da 22 a 13. La riduzione si è ottenuta attraverso la creazione di sette nuove regioni, nate dalla fusione di 16 vecchie regioni, alle quali si aggiungono le sei che hanno mantenuto inalterata la loro entità territoriale. La riforma, fortemente voluta dall’allora Presidente François Hollande ed approvata dal Parlamento, malgrado le perplessità di molti politici e i malumori e le proteste delle collettività coinvolte e che non sono state consultate, si poneva come obiettivo principale quello di dotare le regioni “di una massa critica” che permettesse loro “di esercitare le competenze strategiche loro attribuite e di realizzare una maggiore efficienza”. (https://journals.openedition.org/echogeo/14506?lang=en).
La diversità del quadro politico-istituzionale tra i due Paesi e della composizione socio-economica (per non parlare del retaggio storico) vieta qualsiasi facile parallelismo con il processo innescato in Italia dalla riforma del titolo V; basti qui accennare ad una differenza non di poco conto: la riforma delle regioni in Francia procede dallo stato centrale che stabilisce una diversa ripartizione territoriale ed un incremento uniforme delle competenze attribuite alle regioni (sostegno alle imprese, formazione, territorio, trasporti) al fine di potenziare efficienza e coesione dello stato stesso. Il quadro complessivo che ne risulta si colloca abbastanza lontano dal rischio di dissoluzione dell’unità nazionale insito nell’autonomia differenziata, la quale spingerà le diverse regioni del nostro Paese a correre ciascuna per conto proprio nella richiesta di ambiti di gestione diretta, nella speranza di conseguire benefici e/o arginare perdite.
Non solo: le regioni francesi oggetto di fusione risultavano, secondo l’opinione dei sostenitori della riforma, troppo piccole o poco popolate per potersi fare carico vantaggiosamente dello sviluppo economico del loro territorio e, quindi, in una posizione di debolezza rispetto alle regioni economicamente e demograficamente più forti. Qui, la spinta di fondo sembra invertita rispetto a quella “secessione dei ricchi” che presiede in Italia all’autonomia differenziata.
Eppure, al di là delle indubbie e anche notevoli differenze, nonostante le diverse modalità di autorappresentazione, nonché di realizzazione istituzionale, riforma regionale francese ed autonomia differenziata finiscono per incontrarsi su un terreno comune, e si chiariscono a vicenda, fino a comporre un quadro sostanzialmente unitario. La massa critica così ottenuta dalle nuove regioni d’Oltralpe si configura come “una dimensione adeguata alle sfide economiche e di mobilità”, tale da consentire non solo un rilancio delle competenze strategiche, ma anche “di competere con le collettività simili in Europa”. (http://prefectures-regions.gouv.fr/corse/layout/set/print/Outils/FAQ) Fra tali collettività regionali si citano la Catalogna, la Baviera, la Lombardia. (https://www.jstor.org/stable/40782088?seq=1#page_scan_tab_contents).
Dall’altro lato del confine, tra le materie per le quali molte regioni chiedono l’attribuzione di ulteriore autonomia figura l’internazionalizzazione delle imprese e del commercio con l’estero. L’impatto sociale e culturale potenzialmente devastante di una regionalizzazione di sanità, scuola e ricerca ha posto in secondo piano questo punto, il quale, dietro il suo carattere apparentemente anodino, quasi rituale in un universo dominato dalle istanze economiche, ci offre, in realtà, la chiave di volta di tutto l’edificio.
Chi legga con attenzione le bozze elaborate dalle diverse regioni italiane per negoziare con lo Stato “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione” trova ben pochi riferimenti di tipo identitario, tarati sulla valorizzazione della cultura locale, di usi e costumi comunitari e molta governance, efficienza amministrativa, crescita economica, sinergia con le imprese, promozione dell’innovazione. Anche la gestione dell’istruzione e della ricerca risponde alla necessità di formare manodopera a diversi livelli – dall’esecutivo al direttivo – per le aziende del territorio. L’impressione che se ne ricava è che il percorso intrapreso con l’autonomia differenziata sia parte organica di un più generale processo di “agganciamento e costruzione reale di un nucleo duro della U.E. in una Europa (e in un’Italia) a due velocità” (http://contropiano.org/news/politica-news/2019/02/21/discutendo-di-unita-della-sinistra-nella-metropoli-milanese-0112628
Ovvero: le regioni italiane con il Pil più elevato vogliono competere alla pari con le regioni più ricche e produttive d’Europa, in un quadro di semplificazione burocratica e senza quei lacci e lacciuoli (sempre più allentati, a dire il vero) che un ordinamento unitario potrebbe far valere con maggior forza (contratti collettivi di lavoro, tutela paesaggistica, valore legale del titolo di studio, per citarne alcuni), disponendo, inoltre, di risorse più elevate, grazie al trattenimento in loco di una parte consistente del gettito fiscale.
Insomma, quella che tende a presentarsi come un’operazione di ancoraggio e prossimità alle realtà locali è, in realtà, una spericolata incursione nella competizione globale, per la quale lo Stato italiano (malgrado tutte le riforme all’insegna del neoliberismo degli ultimi trent’anni) non sembra ancora offrire garanzie adeguate. Il resto è folklore, una caramella dal gusto vagamente dolciastro ad uso e consumo (anche elettorale) dei nostalgici dei dialetti e dei sapori perduti. D’altronde, l’inserimento nei programmi scolastici di ore di lingua e cultura locale sembra, ad oggi, avere attecchito con un certo successo solo in Veneto. Senza trascurare i rischi inerenti a tale proposta (e la cui disamina esula dai limiti del presente lavoro), non è casuale che nelle varie bozze d’intesa, ciò che interessa in materia d’istruzione sia, piuttosto, il reclutamento degli insegnanti, l’alternanza scuola-lavoro, i rapporti con le imprese, l’orientamento universitario, la gestione delle scuole private. La proiezione delle regioni oltre i confini nazionali e la loro ambizione di proporsi come attori politici di primo piano si appoggia sui trattati europei, in particolare quello di Maastricht, cui si deve la creazione del Comitato europeo delle Regioni (C.d.R.) che permette ai poteri locali (regioni, province, comuni, città) di intervenire direttamente in seno all’Unione Europea, laddove siano in gioco proposte di legge le quali coinvolgano i territori che ricadono sotto la loro amministrazione.
Inoltre, il trattato di Lisbona riconosce al C.d.R. il diritto di interpellare la Corte di giustizia europea in caso di violazione dei suoi diritti e qualora ritenga che un testo di legge dell’U.E. non rispetti il principio di sussidiarietà o le competenze locali. Come è noto, le regioni hanno stabilito loro rappresentanze a Bruxelles, il cui obiettivo è quello di promuovere le regioni stesse, attraverso lobbying, ricerca di fondi, supporto a imprese, università e diversi enti territoriali. Tali rappresentanze sono note ai cittadini italiani, più che per queste attività, per i costi esorbitanti (affitto od acquisto delle sedi, emolumenti dei funzionari e degli immancabili consulenti...) rivelati, qualche anno fa, da alcune inchieste giornalistiche (https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-08-07/regioni-bruxelles-costose-sedi-135707.shtml?uuid=Abn9SvKG).
Le tre regioni capofila nell’avviare il percorso dell’autonomia differenziata sono, naturalmente, fra le più attive a Bruxelles e conoscere il loro spettro di azione nella capitale belga può fornire qualche utile spunto per comprendere meglio il nuovo ruolo delle regioni nell’ambito dell’U.E. “Casa Lombardia” ospita diverse associazioni, fra cui Assolombarda, la Conferenza dei rettori delle università della regione, il Consiglio regionale Lombardo, la Federlegno, il Politecnico, l’Unioncamere Lombardia, la Cattolica, il parco Tecnologico padano, le Ferrovie Nord, la Conftrasporti. Ha attivato una rete di 5000 contatti con organismi comunitari ed analoghe rappresentanze di regioni e stati europei. È proprio grazie a questa corposa rete di relazioni che la regione Lombardia ha potuto vincere un bando da 17 milioni di euro per un progetto volto a migliorare l’habitat delle aree naturali regionali inserite nella rete Natura 2000. Quanto all’Emilia- Romagna, essa è particolarmente attenta a stabilire collegamenti fra università ed aziende nell’ottica di promuovere l’innovazione tecnologica in ambiti molto diversi che spaziano dall’agricoltura alla meccatronica, passando per l’edilizia, la meccanica, la salute e l’industria culturale. Il Veneto, infine, ha realizzato un servizio di Europrogettazione che assiste il territorio nei progetti europei e nella ricerca di partner, ciò che gli ha consentito di portare nella regione ben 85 ricerche partner e di esportarne 32 in altre regioni europee. (Tutti questi dati sono stati presi da https://www.glistatigenerali.com/istituzioni-ue/eccellenze-silenzi-cosa-fanno-le-regioni-italiane-a-bruxelles/)
Sono, naturalmente, dati incompleti, ma sufficienti per suggerire un’idea del nuovo ruolo assunto dalle regioni in ambito europeo e della vera posta in gioco messa sul piatto dell’autonomia differenziata. Un ulteriore tassello è rappresentato dalla quantità e dall’estensione delle reti formate dalle diverse regioni europee, a partire da interessi comuni che si dispiegano soprattutto nei settori della formazione, del mercato del lavoro, della ricerca, dell’innovazione, del turismo sostenibile e dei trasporti. Il protagonismo politico, le convenienze e le opportunità economiche, l’efficacia, l’efficienza e la competitività garantite dalle reti costituiscono le coordinate di una nuova relazione fra regioni, stati nazionali ed Unione Europea che sembra orientarsi verso un potenziamento delle competenze delle prime a discapito di quelle sino ad oggi prerogativa dei secondi.
Lo scenario non è leggibile solo in chiave quantitativa: il dato saliente è rappresentato, infatti, dal rapporto diretto fra regioni ed U.E. e fra le diverse regioni tra di loro. L’Europa delle regioni o delle macro-regioni, pur nel mantenimento di queste all’interno di un quadro nazionale di appartenenza sempre più esangue e formale, potrebbe essere uno degli esiti di questo processo, la modalità più adeguata per la creazione di una comunità sovranazionale leggera ed agile, fondata su progetti e disponibile al libero gioco del mercato, senza quelle fastidiose remore ereditate dal passato che ancora pretendono di intralciarne l’affermazione in ogni ambito vitale.
Le regioni-pilota dell’autonomia differenziata (di cui si potrebbe anche ipotizzare la riconfigurazione come macro-regione del Nord), in virtù del loro grande dinamismo economico, ambiscono ad inserirsi in questo processo da protagoniste, nell’ottica di un’Italia e di un’Europa a più velocità, secondo il metro dell’efficienza e della competitività. In questo quadro, il localismo, ben lontano dall’essere istanza di autodeterminazione di una comunità desiderosa di darsi ordinamenti e forme di vita radicati nella propria storia e cultura, è spregiudicato trampolino di lancio verso una dimensione internazionale all’insegna della competizione globale. In questa corsa spietata, l’Italia è percepita da tali regioni come un carrozzone troppo lento ed ammaccato, per riuscire a tenere il passo con i bolidi del Nord Europa , loro naturale punto di riferimento. Con buona pace del campanile di San Marco, della bela madunina e del solidarismo cooperativo.
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