Eravamo abituati alla predominanza assoluta dell’imperialismo statunitense, molto visibile sul piano militare ma assai più pervasivo su quello economico-finanziario. Oggi invece sono apparsi altri attori, sia a livello globale che regionale. E l’opzione militare diventa assai più rischiosa, specie quando l’asimmetria di potenza diventa meno sbilanciata di quanto poteva essere con la Jugoslavia, l’Iraq di Saddam o la Libia di Gheddafi.
L’analisi di Guido Salerno Aletta, che qui di seguito ripubblichiamo, evidenzia diversi elementi per nulla al centro del “dibattito pubblico”, anche se difficilmente può sfuggire la loro rilevanza geostrategica.
In particolare due:
a) le piattaforme per le transazioni finanziarie (di cui gli Usa hanno ancora il quasi-monopolio, tanto da costringere Russia e Cina a prepararne delle nuove);
b) il ruolo ancora centrale del dollaro, altrettanto “sfidato” (quantomeno dall’euro).
Si comprende dunque come le sanzioni all’Iran agiscano soprattutto su questo piano, bypassando anche la frenesia israeliana che spinge per un attacco militare, mettendo in difficoltà l’Unione Europea – che ancora riconosce l’accordo firmato da Obama, insieme a Mosca e Pechino – e divaricando quindi gli interessi economici tra le due sponde dell’Atlantico.
Benvenuti nel mondo multipolare, certamente più complesso di quello “unipolare e globalizzato” dentro cui era dominante il “pensiero unico”. Chi ancora ragiona dentro quegli schemini ideologici semplificati si smarrisce presto, così come accadde a quanti non seppero prendere le misure alla fine del “mondo diviso in due”, all’inizio degli anni ‘90...
Buona lettura.
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Iran: crisi regionale, scontro globale
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
Non sono le petroliere sequestrate, quella iraniana nello stretto di Gibilterra e per ritorsione quella britannica nello Stretto di Hormuz, a marcare una differenza sostanziale rispetto alle precedenti situazione di massima tensione nei rapporti con l’Iran. Ne abbiamo viste di tutti i colori, a partire dai 52 americani tenuti in ostaggio nella Ambasciata americana assediata a Teheran nel 1980 e poi trattenuti per 444 giorni.
Le vicende di questi ultimi mesi non riguardano tanto la nuova prova di forza degli Usa nei confronti di Teheran, con una escalation di sanzioni che ha pochi precedenti, quanto l’emersione di un conflitto globale in materia di piattaforme che consentono le transazioni finanziarie internazionali e di una distanza che sembra ormai quasi incolmabile, tra gli Usa da una parte e l’Europa dall’altra, sui seguiti da dare al Trattato JCPOA del 2015, e da cui il Presidente americano Trump ha deciso unilateralmente il recesso nel 2018.
Francia, Germania e Regno Unito marciano all’unisono: nella Persia sono di casa. La Storia ha superato definitivamente la temporanea cesura dei due blocchi antagonisti, che non è durata neppure per tutta la seconda metà del Novecento. L’Unione europea è un soggetto politico, in quanto sempre più sottende la convergenza di alcuni specifici interessi nazionali.
La prossima riunione della JCPOA Joint Commission, che si terrà a Vienna il prossimo 28 luglio, sarà presieduta da Federica Mogherini, nella sua qualità di Alto Rappresentante europeo per la politica estera. Si terrà secondo il formato E3+2, sigla che mette insieme da una parte i tre Paesi europei che ne fanno parte (Francia, Gran Bretagna e Germania) e dall’altra Cina e Russia.
Messa così, sarebbe l’America di Trump ad essere rimasta isolata dal resto del mondo sulla questione iraniana. In realtà, sta dimostrando ancora quasi intatta la capacità di dominare il mondo globalizzato attraverso il controllo delle transazioni finanziarie, che passano sul sistema SWIFT, ed attraverso la estensione automatica delle sanzioni ai Paesi terzi che non si adeguano alle sue decisioni, escludendoli a loro volta dalla possibilità di continuare ad avere relazioni commerciali e finanziarie con gli Usa. Nessuno si può permettere tanto.
Il primo nodo riguarda la realizzazione di piattaforme alternative per le transazioni commerciali internazionali: mentre l’Ue sta cercando di allentarlo, parzialmente e limitatamente alla questione iraniana, Cina e Russia hanno deciso di reciderlo nettamente, già da tempo, non solo nell’ambito dei rapporti bilaterali ma in prospettiva anche nell’ambito del Gruppo BRICS.
Il secondo nodo riguarda l’uso nelle transazioni di una moneta alternativa al dollaro. Anche l’uso della valuta americana può arrivare ad essere inibito: chi detiene dollari ne ha il possesso e la disponibilità, ma essi rimangono sempre di proprietà del governo americano. L’Europa ha a disposizione l’euro, una alternativa valida e credibile al dollaro. Per lo yuan, invece, il cammino per farne una moneta di riferimento per le transazioni internazionali sarà ancora lungo.
Le sanzioni comminate dagli Usa nei confronti dell’Iran sono dunque molto più aspre che in passato, in quanto non riguardano più solo l’embargo petrolifero, ma il divieto di ogni transazione finanziaria internazionale, che si estende anche ai Paesi terzi che intrattengono rapporti con Teheran.
Le reazioni ci sono state, ma non sono all’altezza della sfida americana: dal 29 giugno, per cercare di aggirare questa sanzione che impedirebbe anche ai Paesi aderenti alla UE di continuare a commerciare con Teheran, la componente europea del Gruppo E3+2 ha annunciato la adozione di una apposita piattaforma, INSTEX, che consente gli scambi con l’Iran utilizzando come moneta di rifermento l’euro.
Per non incappare nella estensione delle sanzioni americane in materia di transazioni finanziarie, si è deciso però di farne una piattaforma che consente solo lo scambio di merci contro merci. Poiché se ne esclude il petrolio, per via dell’accettazione da parte europea di questo embargo americano, l’Iran ha ben poco da offrire come export. Ed, infatti, Teheran ritiene questo strumento assolutamente insufficiente perché non comprende il petrolio, anzi lo esclude.
Secondo l’Ambasciatore italiano in Iran, Giuseppe Perrone, INSTEX “da solo non è assolutamente in grado di rappresentare quel salto di qualità o di rispondere alle esigenze iraniane, che Teheran pone per poter normalizzare la situazione”. In ogni caso, rappresenta “uno strumento che ha delle potenzialità ma che non è risolutivo”.
Il sostanziale silenzio americano sul piano militare, nonostante le provocazioni in atto, dimostra la impraticabilità di un intervento armato. Meglio strangolare economicamente il regime di Teheran, per farlo scendere a patti sulla questione dell’arricchimento dell’uranio, che potrebbe servire alla realizzazione di armi atomiche, piuttosto che ripetere le esperienze dell’invasione dell’Iraq. Anche allora, Saddam Hussein era stato accusato dagli Usa di detenere “armi di distruzione di massa”: si tratta, ancora una volta, della sicurezza di Israele.
Al riguardo, il Premier Benjamin Netanyahu, è stato durissimo, commentando la decisione assunta a Bruxelles dai Ministri degli esteri dell’Unione il 15 luglio scorso, secondo cui il recente annuncio iraniano di una ripresa dell’arricchimento dell’uranio al di là della soglia massima prevista dal Trattato non è poi di entità così grave da giustificare un recesso dei tre Paesi (Francia, Germania e Regno Unito) dal Trattato medesimo.
Paragonando la pavidità europea attuale verso il riarmo iraniano a quella che caratterizzò la Conferenza di Monaco nel ’38 che spianò la strada al Nazismo, ha affermato che l’Unione europea potrebbe non accorgersi della minaccia dell’Iran “fino a quando i missili nucleari iraniani non cadranno sul suolo”.
La strategia americana sembra funzionare: il presidente iraniano Hassan Rohani, parlando in una riunione del suo gabinetto, appena martedì scorso ha affermato che “ci sono Paesi che stanno mediando tra l’Iran e le altre parti, scambi di contatti e di lettere, così che tutti sappiano che l’Iran non perderà l’opportunità di colloqui giusti e legali per risolvere i problemi. Ma non ci siederemo al tavolo della capitolazione in nome dei negoziati”. Se ci sarà una tregua nella “guerra economica” all’Iran costituita dalle sanzioni Usa, “si potrà preparare il terreno per negoziati che raggiungano una conclusione”. D’altra parte, secondo Rohani, non c’è solo Israele a tirare le fila della strategia americana, ma anche gli avversari regionali della Repubblica islamica, tra cui l’Arabia Saudita.
E l’Italia, che fa? Gioca di sponda e guarda alla Libia. Nonostante le ruvidità delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, compromesse dopo l’assassinio del giovane Regeni di cui ancora non si conosce la vera matrice, mantiene buone relazioni sul piano economico e soprattutto nel settore petrolifero: si insinua tra i sostenitori del generale Khalifa Haftar, la cui marcia verso Tripoli, annunciata con grande clamore, si è dimostrata un fiasco.
Approfitta poi dell’indebolimento oggettivo della Turchia, sia sul piano economico che delle relazioni con Washington, pesantemente compromesse dalla decisione di Ankara di acquistare il sistema contraereo S400 dalla Russia, che le è già valsa l'esclusione dal programma di approvvigionamento dei caccia F35. La strategia neo-ottomana di Recep Tayyip Erdogan, che puntava ad una presenza anche in Libia, oltre che ad una spartizione della Siria, ha subito un duplice colpo di arresto. Il Presidente della Turchia, che aveva lasciato anzitempo la Conferenza di Palermo, piccato per essere stato escluso dal tavolo ristretto delle trattative sul futuro della Libia, è in forte difficoltà.
Anche l’Arabia Saudita non è nelle migliori condizioni, non solo per via delle disavventure in cui è incorso il principe Mohammad bin Salman, quanto per la endemica riduzione delle entrate petrolifere del Regno che non gli consente di finanziare gli interventi all’estero con l'ampiezza del passato.
L’Italia, preferendo consolidare le relazioni politiche e petrolifere con il Qatar, rispetto a quelle con gli Emirati Arabi Uniti che in Libia sostengono finanziariamente il generale Khalifa Haftar, ha fatto una scelta di campo che va a sostenere indirettamente il Premier libico al-Sarraj: costui conta infatti sull’aiuto delle milizie di Misurata, che a loro volta beneficiano del supporto qatarino.
Al generale Haftar è rimasto solo il sostegno francese, ma anche questo è stato compromesso, almeno sul piano mediatico, dal rinvenimento in una base del generale, nella città di Gharian, di quattro missili anticarro “Javelin” di costruzione americana, che erano stati venduti alla Francia con il divieto di ulteriore cessione. La Difesa francese ha precisato che i missili erano stata forniti in dotazione per autodifesa alle forze francesi in Libia “schierate a scopi di intelligence antiterrorismo”. Quelli rinvenuti, poi, erano “danneggiati e fuori uso”, temporaneamente immagazzinati per la distruzione, e comunque “non sono stati trasferiti alle forze locali”, intendendo i ribelli filo-Haftar.
È una zeppa, di cui ha dato notizia il New York Times sulla base di informazioni fornite dal Dipartimento della Difesa statunitense, che la dice lunga sulla distanza tra i due Presidenti, Donald Trump ed Emmanuel Macron.
La partita a scacchi continua, e non riguarda solo l’Iran.
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