di Armando Lancellotti
David Bidussa, a cura di, Benito Mussolini – Me ne frego, Chiarelettere, Milano, 2019, pp.144, € 12.00
L’ultimo lavoro dello storico David Bidussa, recentemente pubblicato
da Chiarelettere, consiste in una breve antologia di parole
mussoliniane, selezionate all’interno della vastissima diponibilità di
interventi, articoli, discorsi parlamentari, comizi di piazza o altro
che progressivamente saturarono, occupandoli monoliticamente, lo spazio
politico e l’opinione pubblica del nostro paese in un arco di tempo di
poco più breve della prima metà del secolo scorso. Bidussa sceglie solo
undici esempi di retorica mussoliniana, che vanno dal 1904, quando colui
che sarebbe diventato il duce del fascismo era ancora un giovane
socialista romagnolo su posizioni rivoluzionarie, al 1927, momento in
cui il regime si era già ampiamente consolidato e strutturato dopo la
svolta totalitaria del 3 gennaio 1925.
Come risulta subito evidente, la scelta dello studioso non è quella
di coprire l’intero arco dell’esperienza politica di Benito Mussolini e
neppure solo quella del ventennio fascista. A questo si aggiunga poi che
la selezione dei discorsi antologizzati ricade spesso su esempi molto
noti – come il discorso “del bivacco”, o quello del 3 gennaio ’25, o
quello di “Quota 90” – perché l’intento che sottende il lavoro di
Bidussa non è di proporre all’attenzione degli specialisti, spulciando
tra i fiumi di parole pronunciate dal dittatore, nuove prospettive di
lettura di qualche aspetto del fascismo meno approfondito di altri,
bensì quello di mostrare, attraverso un libro agile e di semplice
lettura, quanto la “parola” – declamata, urlata, in un qualsiasi modo
comunicata al popolo dal leader carismatico – sia stata fondamentale per
la costruzione del regime e come molte di queste “parole” ancora oggi
siano in circolo – o abbiano ripreso a circolare – nel corpo fragile e
frastornato del nostro paese.
Come ricorda Bidussa nella Prefazione (Vocabolario italiano)
che introduce questa curatela, Claudio Pavone ha dedicato buona parte
dei suoi sforzi di ricercatore e storico all’argomentazione della tesi
secondo la quale al momento del cruciale passaggio del 1945 sia stata la
“continuità” dello Stato – ovvero la conservazione di apparati, organi e
strutture dell’Italia fascista – a prevalere nettamente sulla
“discontinuità”, sulla rottura innovatrice auspicata e prospettata dalla
Resistenza, soprattutto dalla sua componente più rivoluzionaria e,
osserva Bidussa, «Uno dei campi dove misurare questa lunga continuità è
il linguaggio, e anche alcune idee strutturali del modo di pensare il
rapporto tra “Io individuale” e “Noi collettivo”» (p. XI). Molte delle
parole d’ordine, degli slogan e delle espressioni che il fascismo coniò
ex novo, o che a sua volta riprese dal linguaggio e dall’immaginario
della trincea, del futurismo e del dannunzianesimo, divennero parte
integrante del vocabolario italiano e ancora oggi lo sono, spesso in
maniera implicita, inconsapevole o latente e gli sviluppi della profonda
crisi politica in cui ormai da decenni è precipitato il paese
predispongono le condizioni migliori per il loro ritorno in auge.
Ma le parole si riferiscono a concetti, evocano immagini, esprimono
idee, risvegliano i ragionamenti e i nessi logici che le hanno prodotte e
pertanto – spiega Bidussa – «se pure il problema non è che il fascismo
stia tornando, quelle parole, con il loro carico di immaginario, sono
tornate a circolare nella nostra mente e spesso nel nostro linguaggio
parlato. Cioè sono tornate a essere “parole gridate” e non più solo
“parole sussurrate”. E la forza del grido, se senza contrasto, le rende
“parole ammesse”. Ovvero “legittime”» (p. VIII). La parola fascista
prevale sul pensiero, in un certo senso lo fonda, allo stesso modo in
cui per Mussolini sempre l’atto si impone sulla riflessione: in politica
quel che conta è l’iniziativa, l’agire ben più dell’elaborazione
teorica. Certamente questa convinzione trova nell’esperienza della
trincea e nell’interventismo, propedeutici al fascismo, un humus fertile
di cui nutrirsi, ma in realtà essa è componente fondamentale del modo
di intendere la politica anche del giovane Mussolini socialista. Il
gesto, il proclama, la manifestazione di volontà, la parola amplificata
ed estesa dalle potenzialità tecniche degli strumenti comunicativi: sono
tutte componenti della fascista estetizzazione della politica definita
da Benjamin.
Gli undici testi proposti sono ordinati cronologicamente, a parte
l’ultimo, posto come Appendice; i primi quattro appartengono al periodo
prefascista di Mussolini, i rimanenti vanno dalla fondazione dei Fasci
italiani di combattimento, nel 1919, al discorso dell’Ascensione, del
1927, in cui vengono poste le basi della politica demografica, che poi
evolverà nella politica razziale. Si tratta di discorsi e scritti che
potrebbero essere osservati da molteplici punti di vista ed analizzati
su diversi piani e che Bidussa presenta, corredandoli con un breve
commento introduttivo, per individuare e mettere a fuoco alcune
categorie o concetti (im)politici che oggi, nuovamente, in un momento in
cui i sistemi liberal-democratici e rappresentativi annaspano sotto il
peso delle loro contraddizioni e dei loro limiti, hanno riacquistato
legittimità politica, dando voce alla crescente fascinazione per
scorciatoie politiche di tipo populistico ed autoritario.
Nell’articolo (La teppa) del 1904, pubblicato su Avanguardia socialista,
l’allora ventunenne Mussolini esprime già quella indifferenza per le
teorie politiche, per il rigore teorico, che accentuerà negli anni e
decenni successivi. Ciò che conta è agire, prendere l’iniziativa e a
questo può servire la teppa che dà il titolo al pezzo, che – giova
ricordarlo – è datato 10 dicembre, vale a dire un mese dopo le elezioni
politiche del 1904, quelle successive al primo sciopero generale della
storia d’Italia. Ma Mussolini distingue poi tra la «teppa autentica che
vegeta nei bassifondi della grandi città» (p. 4) e per la quale
manifesta un malcelato disprezzo – poiché politicamente inconsapevole e
buona pertanto solo per dare il via allo scontro rivoluzionario – e
quello che definisce come «agitato oceano proletario», rispetto al quale
la teppa è come la schiuma delle onde, che presto si disperde. Comincia
a prendere forma una visione elitaria dell’azione politica, che si
accentuerà esponenzialmente con il passaggio dal socialismo al fascismo e
per la quale le masse sono un mezzo e non un fine. I termini che
ricorrono più frequentemente in questo breve articolo sono «forza» e
«violenza», che Mussolini contrappone alla «prosa sonora (sonora perché
vuota)» (p. 4) degli ideologi e degli idealisti, tra i quali rientrano
anche i socialisti riformisti.
Dieci anni dopo, nell’articolo uscito sull’Avanti! il 15 febbraio 1914 e che riassume la conferenza, dal titolo Il valore storico del socialismo,
tenuta una settimana prima a Firenze, Mussolini prima espone, con
modalità così didascaliche da risultare banali, i presupposti teorici
del socialismo e poi passa all’individuazione dei fini e dei mezzi del
socialismo rivoluzionario. Dopo aver denunciato l’inefficacia del
principio riformista della conquista per via elettorale della
maggioranza parlamentare – «C’è chi vuole aspettare per fare la
rivoluzione la maggioranza assoluta» (p. 23) – esprime in modo
inequivocabile posizioni di avanguardismo ed elitismo politici,
affermando che «la massa è quantità, è inerzia. La massa è statica; le
minoranze sono dinamiche» (p. 23). Nel rapporto tra masse e partito (in
seguito sarà il rapporto tra popolo e leader carismatico), tra
maggioranza e minoranze, alle seconde spetta un compito quasi
demiurgico, alla prima solo quello di fornire consenso.
Queste idee subiscono un’ulteriore accentuazione qualche mese più tardi, nell’articolo – sempre pubblicato sull’Avanti!
il 18 ottobre 1914 – che segna l’abbandono delle posizioni neutraliste
del PSI e che prelude all’allontanamento dal giornale e dal partito di
Mussolini, che qui elabora il concetto della “neutralità attiva ed
operante” da contrapporre alla “neutralità assoluta”, ormai considerata
una posizione sterile, improduttiva e destinata e relegare il partito ed
il paese ai margini della realtà e del flusso della storia. Per
Mussolini l’unico modo per essere protagonisti e non solo spettatori di
quel che accade è muoversi nella stessa direzione verso cui la storia
sembra tendere. L’intervento italiano può accorciare il conflitto e
condurre alla costruzione di un nuovo assetto internazionale. Si
percepisce nelle parole di Mussolini una sorta di smania di partecipare,
di frenesia di essere protagonisti, di insofferenza per le riflessioni
politiche e le elaborazioni teoriche del partito. A questo si aggiunga
che alle considerazioni politiche, seppur un po’ sgangherate, di stampo
classista degli anni precedenti si è ormai quasi completamente
sostituito il nazionalismo interventista, come risulta evidente anche
dal testo successivo, vale a dire il primo editoriale de Il popolo d’Italia del 15 novembre 1914, intitolato Audacia.
Il testo successivo è il Discorso di fondazione dei Fasci di combattimento, uscito su Il Popolo d’Italia
il giorno dopo (24 marzo 1919) l’adunata di piazza San Sepolcro e i
temi portanti, oltre al combattentismo e al nazionalismo, sono quelli
dell’antipolitica e della contrapposizione tra movimento e partito, al
fine di proporsi come forza antisistema, pronta a scavalcare leggi ed
istituzioni vigenti e ad adattarsi pragmaticamente alle esigenze
contingenti. L’incoerenza pragmatica verrà poi rivendicata come valore
due anni dopo, in occasione del secondo anniversario della fondazione
del fascismo, quando Mussolini sul proprio giornale scriverà che i
fascisti possono permettersi il lusso «di essere aristocratici e
democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari,
legalitari ed illegalitari a seconda delle circostanze di tempo, di
luogo, di ambiente, in una parola “di storia” nelle quali siamo
costretti a vivere e ad agire» (p. XVI). Parole pronunciate, in
apparenza paradossalmente, solo qualche mese prima di trasformare il
fascismo in partito (PNF), abbandonando l’ideale del movimento, ma
proprio perché – si potrebbe dire – le «circostanze di tempo, di luogo,
di ambiente» avevano reso nel frattempo quel passaggio utile e
conveniente per la conquista del potere e del governo.
L’atteggiamento antipolitico ed antisistemico diventa poi apertamente
antiparlamentare ed illiberale nel cosiddetto “discorso del bivacco”,
ossia il discorso parlamentare di insediamento del primo governo
Mussolini (16 novembre 1922), un paio di settimane dopo la marcia su
Roma. Tutto l’intervento del nuovo presidente del Consiglio trasuda
disprezzo nei confronti del Parlamento, come istituzione rappresentativa
e strumento di mediazione tra il popolo e il suo capo. Le parole
utilizzate vanno dall’ingiuria alla minaccia, passando attraverso lo
scherno. La tracotanza è quella di un uomo che si trova a guidare
istituzioni di cui ha scarsa considerazione e che attende di poter
oltrepassare e sopprimere, insieme agli ideali liberal-democratici in
esse insiti. Che è quanto Mussolini dichiara nel successivo testo
proposto da Bidussa, l’articolo pubblicato su Gerarchia nel marzo del 1923 – Forza e consenso
– in cui, oltre a ribadire il primato dell’azione sulla riflessione e
la legittimità del ricorso alla forza, il capo del fascismo apertis
verbis rivendica la legittimità dell’abbandono e del superamento
dell’idea, ritenuta inattuale ed obsoleta, di libertà. «Si sappia
dunque, una volta per tutte, che il Fascismo non conosce idoli, non
adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora
tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea
Libertà» (p. 74).
La convinzione che la libertà non sia da ritenersi un fine in sé, ma
solo un mezzo e che ad essa si debbano sostituire nuovi principi quali
«ordine, gerarchia, disciplina» sta alla base anche dell’analisi del
pensiero politico del Machiavelli che Mussolini elabora nel 1924 sempre
su Gerarchia e che Bidussa colloca alla fine del volume come Appendice. Nel Principe
il duce del fascismo va alla ricerca dei presupposti del suo modo di
intendere il rapporto tra Stato e cittadini, che ritiene di poter
accostare a quello stabilito dal segretario fiorentino tra principe e
popolo. Per prima cosa, Mussolini dichiara di condividere il pessimismo
del Machiavelli riguardo alla natura umana, che nei suoi ragionamenti si
trasforma in un pregiudizio sociale e politico nei confronti del
popolo, di quelle masse precedentemente definite come “quantità” e
“inerzia”. È lo Stato che deve imporsi sugli individui e risolvere le
conflittualità delle loro relazioni atomistiche, sussumendole nella
propria organizzazione superiore. Per questo Mussolini ritiene di dover
prendere le distanze dalle rivoluzioni del Seicento e del Settecento,
figlie del pensiero giusnaturalista e liberal-democratico, perché, a suo
parere, fondate su un’idea sbagliata di popolo, che – egli scrive – è
«un’entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove
cominci esattamente, né dove finisca». Pertanto, conclude, «l’aggettivo
di sovrano applicato al popolo è una tragica burla» (p. 106). Sovrano è
lo Stato e il “principe” che lo guida, il quale si rapporta direttamente
al popolo, conducendolo, senza bisogno delle istituzioni e degli organi
intermedi, propri dei sistemi rappresentativi.
Ed è quanto Mussolini lascia intendere che sarebbe accaduto con il Discorso alla Camera dei deputati del 3 gennaio 1925,
quello successivo al delitto Matteotti e alla secessione dell’Aventino e
con il quale si dà il via definitivo alla dittatura e al totalitarismo.
Colpiscono nelle parole del duce l’arroganza e la spudoratezza con cui
egli si assume la responsabilità politica, morale e storica di quanto è
accaduto, ritenendosi legittimato dalla necessità di perseguire il
superiore interesse del paese e degli italiani ed accusando le
opposizioni aventiniane di comportamento antinazionale ed eversivo.
Bidussa infine riporta anche il Discorso di Pesaro, pubblicato da Il Popolo d’Italia il 19 agosto del 1926 e il Discorso dell’Ascensione,
tenuto alla Camera dei deputati il 26 maggio del 1927. Nel primo si dà
l’annuncio di quel provvedimento di politica monetaria che va sotto il
nome di “Quota 90”, economicamente svantaggioso per il paese nel suo
complesso, ma molto proficuo dal punto di vista propagandistico e del
consenso. Come osserva Bidussa, con “Quota 90” Mussolini proclama una
politica di nazionalismo e sovranismo monetari, che dichiara di voler
difendere la divisa italiana – rivalutandola in realtà oltre il suo
effettivo valore – nel contesto economico e monetario internazionale. Si
tratta di quell’atteggiamento nazionalista e sovranista che avrebbe
trovato il suo culmine nella politica autarchica di una decina di anni
dopo.
Il Discorso dell’Ascensione pone le basi della politica
sociale e demografica che il regime intraprende a partire dal 1927 e la
parte del discorso che Bidussa riporta ha per titolo La difesa della razza. Qui il razzismo fascista si limita ancora sostanzialmente alla pars construens
e cioè alle politiche di incremento demografico, di sostegno e
divulgazione del modello tradizionale della famiglia prolifica; una
decina di anni dopo, con la conquista dell’Etiopia e con la legislazione
antisemita, si passerà anche alla pars destruens. Il ragionamento di
Mussolini è funzionale all’affermazione imperialistica dell’Italia nel
mondo e affinché essa sia realizzabile occorre un incremento demografico
quantificato in venti milioni di italiani in circa vent’anni. Solo un
popolo numeroso potrà essere forte e potrà conquistare l’impero; ma
attraverso il legame posto tra politica demografica e politica di
potenza passa anche la visione tradizionalista della società e
maschilista della famiglia e del ruolo sociale della donna che è propria
del fascismo.
Insofferenza per la riflessione teorica in politica e privilegio
accordato all’azione e alla capacità d’iniziativa; disprezzo
antipolitico per i partiti tradizionali e i sistemi politici
rappresentativi; ricorso alla forza; antiliberalismo; interpretazione
elitaria della politica ed utilizzo delle masse esclusivamente come
bacino di consenso; superamento delle modalità mediate di rapporto tra
popolo e istituzioni e ricorso a modalità di relazione diretta tra
leader e masse; populismo; autoritarismo; nazionalismo e sovranismo;
adozione di politiche demografiche per la difesa e la promozione del
popolo e della sua identità. È un lungo elenco di parole, idee,
concetti, slogan fascisti che fino a non molti anni fa erano per lo più
esclusi dallo spazio della dicibilità politica o comunque relegati in un
sottobosco politico in cui si riteneva che sarebbero stati facilmente
confinati. Oggi invece le cose sono cambiate e queste parole d’ordine,
questi slogan e questi proclami nuovamente risuonano attorno a noi, con
una frequenza crescente ed una insistenza martellante. Si presentano
declinate in forme adatte all’oggi, con sfumature e toni differenti
rispetto al passato, ma rimangono uguali nella sostanza della loro
venefica pericolosità. Ed è questo il “ritorno del fascismo” che deve
preoccupare. Non il ritorno di esso come esperienza politica, forma di
governo e regime quali si configurarono dal 1919 al 1945, in quanto il
fascismo nelle sue forme storicamente determinate rimane ovviamente
irripetibile, come ogni altra forma storica particolare; ma il fascismo
come forma del pensare politico, sociale e civile ha invece già
imboccato la via del ritorno e sembra non incontrare ostacoli capaci di
arginare la forza di questa onda nera montante.
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