Per chi come noi, in quanto studenti e studentesse, ha ancora la possibilità di vivere quotidianamente il contesto universitario, non è difficile osservare i cambiamenti e gli effetti che una scellerata gestione politica dell’attuale crisi sistemica sta apportando sulle nostre università: dai tagli ai finanziamenti a quelli della didattica, dall’aumento delle tasse d’iscrizione all’ingresso dei soggetti privati, dalla repressione delle forme di dissenso alla tendenza alla “normalizzazione” del pensiero e dei luoghi della formazione.
Tutto questo è andato di pari passo con quanto è accaduto fuori dal settore universitario, ed è infatti il risultato di quella cosiddetta “controrivoluzione” che ha visto l’introduzione di una serie di leggi, a partire dagli anni '90, in materia di lavoro, di previdenza sociale, sanitaria ecc., aventi l’obiettivo di piegare i diritti sociali e civili al profitto e promuovere l’interesse privato a discapito di quello pubblico.
A ciò va aggiunto che nel processo di integrazione e costituzione dell’Unione europea, il mondo dell’alta formazione, così come quello della ricerca e lo sviluppo, rappresenta un nodo strategico per la determinazione dell’Unione stessa come “polo di eccellenza”, competitivo a livello globale. E in questo senso, quel mondo deve essere allineato con gli interessi e gli obiettivi della classe politico-economica dominante. Infatti, nelle diverse dichiarazioni europee riguardanti l’alta formazione si legge spesso che l’Unione Europea punta a diventare l’”economia della conoscenza più competitiva al mondo”.
La sinergia esistente tra la filiera formativa e quella produttiva non deve stupire. Da sempre infatti nel processo di produzione e riproduzione capitalistica la formazione occupa una posizione privilegiata e, soprattutto in condizione di crisi sistemica, il comparto studentesco tout court diventa cruciale per la fabbricazione del consenso e l’indirizzamento ideologico delle nuove generazioni.
L’Università: un modello...
Su scala nazionale, la ristrutturazione dei sistemi formativi non ha fatto altro che seguire le linee guida e le direttive decise a livello europeo con l’obiettivo di omogeneizzare i sistemi dei singoli paesi (iniziato con il Bologna process), indirizzarli verso un’idea di istruzione e ricerca basata sulle competenze, sul concetto di Lifelong learning e sullo spirito di autoimprenditorialità, nonché riorganizzandoli attraverso gli strumenti dell’autonomia e della concorrenza.
Momenti decisivi di questo passaggio, con a capo esecutivi tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra, sono stati la legge Ruberti del 1990, in cui si concede al privato la possibilità di intervenire nella formazione dei corsi di studio; la Zecchino-Berlinguer del 1999, che ha introdotto il numero chiuso e la struttura del 3+2; la Moratti del 2003, in cui si apre il monopolio dell’educazione alla concorrenza dei soggetti privati; la serie di riforme targate Gelmini (2008-2010) che riducono drasticamente il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo) agli atenei (-22,5% nel periodo 2007-2008), di fatto costringendoli o ad aumentare le tasse o ad affidarsi ai finanziamenti privati, spalancando così le porte all’aziendalizzazione della formazione[1].
Come risultato di questo lungo ma coerente progetto, si assiste a una polarizzazione degli atenei in due categorie: atenei di serie A e atenei di serie B, a seconda che siano integrati o meno in un territorio o circuito produttivo che consente di mantenere alto il livello di competitività.
In questo modo, il sistema della formazione universitaria segue la stessa tendenza di trasformazione del territorio in cui si trova, e cioè, della sua posizione nella catena della produzione globale del valore. La deindustrializzazione di una parte consistente del paese, il taglio della spesa sociale, l’istituzionalizzazione della precarietà nel mondo del lavoro e l’alto tasso di disoccupazione giovanile, sono tutto elementi coerenti con la fotografia del mondo universitario, ma questi non hanno una dimensione unitaria. Essendo il nostro territorio caratterizzato da una forte divaricazione produttiva tra le regioni del Nord legate al capitale mittel-europeo e le regioni del Centro-Sud sempre più marginalizzate e private di investimenti, la polarizzazione degli atenei non potrà far altro che accentuare ancor di più questa distanza.
...e due prospettive
Il quadro appena accennato si basa sul concetto di polarizzazione che ci permette di comprendere quali sono le necessità imposte dalla competizione internazionale e di individuare le tendenze sul piano nazionale, e su quello europeo.
Quando nel 2013 abbiamo dato vita a Noi Restiamo, eravamo partiti dall’osservazione basilare che un numero sempre maggiore di coetanei (e non) stava lasciando l’Italia. I numeri pubblicati ogni anno dai rapporti della Fondazione Migrantes avevano progressivamente rivelato che l’Italia, ben lontana dall’invasione vagheggiata dai fascio-leghisti nostrani, stava vivendo un fenomeno di emigrazione di massa simile per dimensioni a quello del dopoguerra. Ma se di solito tale fenomeno era trattato in maniera superficiale, limitando l’enfasi sulla cosiddetta «fuga dei cervelli», fin da subito come Noi Restiamo mettemmo in luce la sua dimensione extra-nazionale. Impossibile non vedere come anche altri paesi dell’area euro-mediterranea stessero sperimentando dinamiche migratorie simili. Impossibile anche pensare, in presenza di un fenomeno di massa, di attribuire le partenze alle sole scelte individuali.
Per dirla con una suggestione, tra i flussi di capitale, merci e persone, rimanendo nell’ambito di nostra maggior interesse, ossia quello di studenti e studentesse, si è poi visto come il processo di «mezzoggiornificazione» dell’Europa meridionale, in una prospettiva comparata con i paesi core, mostri il quadro non egualitario ma fondativo su cui si basa lo sviluppo diseguale dell’Unione.
Prendiamo a paragone l’Italia e la Germania, a partire dal nuovo millennio. Nella nostra penisola ad un aumento delle tasse di iscrizione si registra parallelamente un calo degli iscritti, risulta finito il lungo periodo di espansione e trasformazione che aveva aperto le porte dell’università a tutti i ceti sociali (la cosiddetta «università di massa») e siamo ora in presenza di una tendenza decisamente opposta avente il carattere del forte ridimensionamento. Nel decennio 2005-2015, gli immatricolati si sono ridotti di 68 mila unità, passando da 323mila a 255 (-21%); i docenti da poco meno di 63 mila a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%); il 40% dei corsi di dottorato è scomparso.
Situazione molto diversa invece in Germania. Nello stesso periodo di tempo, il numero degli immatricolati è cresciuto del 20%, e ora sei diplomati su dieci si aspettano di proseguire gli studi. Anche il numero degli immatricolati stranieri è cresciuto in maniera significativa: per esempio, dal 2012 al 2017 è aumentato del 30% con un balzo dell’8% solo nell’anno 2016. Il paese ha superato già nel 2017 il target di 350mila studenti stranieri, con tre anni d’anticipo rispetto alla tabella di marcia stabilita dal governo (2020).
Di fronti a questi dati, non stupisce che proprio la Germania sia un paese i cui investimenti nell’istruzione, in rapporto al Pil, risultino tra i più alti tra quelli Ocse. Ciò significa che nel pieno degli anni della crisi economica, il governo tedesco non ha tagliato le quote della spesa pubblica destinate all’istruzione, anzi, questa è andata persino crescendo. Aumento che fa ben intendere la natura dei vincoli imposti (formalmente) da Bruxelles, ma che in realtà sottendono una precisa gerarchia intra-europea tra i paesi aderenti all’Unione.
Volgendo ora lo sguardo all’interno del nostro paese, si riconosce come il concetto di polarizzazione sopra accennato si dimostri capace di rilevare anche il generale andamento dei vari atenei nostrani. La dicotomia Nord-Sud si impone anche in questo caso, con forti indici territoriali e di reddito. Il dato che ci parla di una caduta del numero di iscritti è dovuto sia al processo di “élitarizzazione” dell’università (aumento del costo totale del percorso di studi, restringimento delle soglie di accesso, ecc.), ma anche dal relativo impoverimento della classe media. Inoltre, il già non roseo dato medio nasconde forti differenze al suo interno: mentre le università statali di Milano hanno incrementato il numero di studenti del 2,3%, nello stesso periodo gli atenei del centro-sud hanno registrato una tendenza diametralmente opposta (-8,2% a Roma e -8,9% a Napoli).
L’emigrazione studentesca che caratterizza il territorio nazionale si svolge anche qui in un’unica direzione. Mentre gran parte degli iscritti delle università del nord-ovest e del nord-est provengono dal centro-sud (rispettivamente 15% e 12%), nel Mezzogiorno sono completamente assenti studenti provenienti dalle zone settentrionali.
I punti di approdo più ambiti sono i grandi poli universitari – da noi ridefiniti di serie A – del Nord: i maggiori indici di attrazione si registrano in atenei come il Politecnico di Torino (40% di iscritti da fuori regione), il Politecnico di Milano (29%), l’Università di Bologna (40%) e l’Università di Pisa (32%). Al contrario, Roma rappresenta il riferimento per il solo centro-sud, mentre centri come Napoli, Palermo o Catania, sono attrattive solo per le rispettive aree limitrofe. Se la gerarchizzazione e la creazione di dinamiche centro-periferia avvengono su scale di valori differenti, la desertificazione delle aree marginali è tuttavia un risultato certo.
La disparità tra i diversi atenei si evidenzia anche rispetto alla condizione sociale degli studenti. Al Nord i redditi medi familiari sono nettamente superiori (oltre 25 mila euro per le università statali di Bologna e Milano), mentre al Centro-Sud le possibilità economiche degli iscritti sono inferiori (da 20 a 25 mila euro a Roma, e 17 mila per la Federico II di Napoli). L’università statale con gli studenti appartenenti ai nuclei familiari più ricchi è il Politecnico di Milano con quasi 30 mila euro di reddito medio annuo.
A nostro avviso, questo dato certifica l’“élitarizzazione” in corso degli atenei lungo tutto il territorio nazionale. La dinamica Nord-Sud infatti non deve essere intesa come tendenza omogenea a tutta la componente sociale, ma va vista da una prospettiva di classe. Questo perché, nella maggioranza dei casi, solamente lo studente in grado di sostenere le spese di un percorso formativo fuori sede potrà scegliere università fuori dalla propria città o regione.
Infatti, se è vero che in media le regioni settentrionali sono economicamente più forti di quelle meridionali, è altrettanto vero che per il “singolo studente meritevole” le opportunità di costruire un proprio percorso e una propria carriera in luoghi altri da quello natio sono comunque aperte. D’altronde, questo è un fenomeno che, se inquadrato su scala europea, si ripropone allo stesso livello. Paesi come la Germania, il Regno Unito o l’Olanda, attirano un numero molto alto di ricercatori qualificati, soprattutto dal sud Europa.
Quadro unitario, pratiche differenti
Quando una soggettività politica agisce nell’ambiente che la circonda con l’intento di modificarlo, se non tiene conto e non si evolve di pari passo con le trasformazioni che occorrono nell’ambiente stesso, rischia di risultare inadeguata al raggiungimento dell’obiettivo preposto.
Per questo principio basilare, come Noi Restiamo, essendo presenti in quattro città lungo lo stivale, abbiamo la necessità di collegare la pratica politica a un doppio livello: da una parte, al quadro generale da cui recepire le macro-tendenze che caratterizzano i vari ambiti di intervento politico (di cui l’università ne rappresenta uno specifico); dall’altro, al segmento particolare che esprime in forme spesso diversificate le tendenze registrate al livello superiore.
È così che all’Alma Mater di Bologna, università di serie A, le questioni derivano dal tentativo da parte dell’ateneo emiliano di agganciarsi al carro delle università di élite del nord Europa. Questo tentativo nell’attuale configurazione sociale, politica ed economica, non può che passare attraverso la repressione del dissenso interno, lo sgombero delle aule occupate, il restringimento dell’accesso ai corsi, la nascita di costosi master ad hoc orientati all’occupazione qualificata privata, l’“inglesizzazione” dell’offerta formativa[2]. Nella società attuale, eccellenza significa esclusione, e questa è sempre a discapito degli ultimi – in partenza e all’arrivo.
Nell’università di Torino invece, ateneo che nella competizione gioca la sua partita ma che soffre il ritardo della regione Piemonte nei confronti delle ben più attrezzate Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, la ricerca del finanziamento privato è costante in moltissimi corsi di laurea coprendo anche l’ambito della ricerca militare[3]. E non solo, la privatizzazione si esprime anche nella cessione degli spazi pubblici per fini commerciali privati, come accaduto con l’apertura di un fast food in una palazzina di proprietà dell’ateneo[4].
Per quanto riguarda Siena, le vicende della Monte dei Paschi hanno un’influenza negativa decisiva nella generale salute della città, il cui declino economico non risparmia la svendita del patrimonio pubblico e la decadenza delle strutture a questo connesso, come l’Università.
A Roma, il diritto allo studio è messo in crisi dall’enorme problema abitativo che da tempo attanaglia la città, dove ai prezzi fuori controllo per una stanza non si supplisce con la costruzione di studentati per le fasce reddituali più deboli[5]. Inoltre, recentemente abbiamo preso parola contro tutte quelle collaborazioni, sia da parte di singoli professori, sia di interi dipartimenti, a dei progetti che cozzano con la retorica green utilizzata dall’ateneo in tema di inquinamento, salvaguardia dei territori, sviluppo sostenibile, ecc.
In conclusione, la breve analisi qui esposta, come tutte quelle che aiutano alla comprensione della realtà circostante, hanno per noi un valore determinante quando a queste viene connessa una pratica politica organizzata che sappia, o abbia almeno l’obiettivo di migliorare le condizioni esistenti. Come abbiamo provato a mostrare per mezzo dell’analisi dei flussi studenteschi, se si sviluppa una lettura il più prospettica possibile della realtà che si affronta, allora per ogni pezzetto di questa è possibile immaginare e mettere in atto un tipo di azione adeguata alle condizioni[6].
La messa in movimento di interessi di classe, che è solo una maniera più elegante per definire il concetto di politica, è, in fin dei conti, l’obiettivo ultimo di ogni nostro sforzo teorico.
* Noi Restiamo è un’organizzazione politica di giovani universitari e lavoratori precari che hanno scelto di costruire un’opposizione nelle università e nelle conflittualità metropolitane. La mancanza di un approccio complessivo che inquadrasse le dinamiche del sistema formativo e un contesto di mobilitazioni studentesche conflittuali sempre più ridimensionato, ha fatto nascere l’esigenza di un’analisi politica delle trasformazioni che stanno avvenendo nelle nostre università, presupposto necessario, ma certo non sufficiente senza la pratica e la lotta, per capire come “rompere gli ingranaggi” e mettere in campo un’opposizione reale e di rottura.
Note
[1] Cfr. Noi Restiamo, Giovani a sud della crisi, cap. 3.
[2] Cfr. Noi Restiamo, Dove sta andando l’UniBo?, disponibile nella versione in formato pdf qui: http://noirestiamo.org/2017/03/16/dove-sta-andando-lunibo/.
[3] Cfr. Noi Restiamo, Dove sta andando UniTo?, disponibile nella versione in formato pdf qui: http://noirestiamo.org/2017/11/22/dove-sta-andando-lunito/.
[4]Noi Restiamo, Se viviamo è per camminare sulla testa dei Re, disponibile nella versione in formato pdf qui: http://noirestiamo.org/2019/03/13/viviamo-camminare-sulla-testa-dei-re/.
[5] Al contrario, in cantiere c’è l’edifica del “The Student Hotel”, residenza da 900 euro a camera con piscina e facilities degne di un albergo di lusso, di nuovo, inaccessibile alla maggioranza della popolazione studentesca. Cfr. Noi Restiamo, Dove sta andando la Sapienza?,cap. 5, disponibile nella versione in formato pdf qui: http://noirestiamo.org/2019/03/28/dovestanandolasapienza/.
[6] Un esempio di grande attualità può essere quello dell’“autonomia differenziata”: se è vero che, in ottemperanza al quadro proposto, quest’eventuale manovra andrebbe ad accelerare una divisione del paese già sostanzialmente in atto nella realtà, allora possiamo prevedere l’avvento di un’eventuale, ennesima, riforma dell’università che andrebbe a certificare la spartizione classista delle risorse adibite alla formazione, con un deciso salto di qualità sul piano geografico.
Fonte
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