La guerra delle petroliere
Non era difficile capire che il sequestro di una petroliera iraniana, al largo dello stretto di Gibilterra, realizzato con una operazione delle “teste di cuoio” britanniche, avrebbe innescato ritorsioni da parte dei “persiani”.
Al di là delle molte chiacchiere di circostanza sulla “transizione ecologica”, gli “accordi sul clima” e gli altisonanti impegni a rispettare l’ambiente, il petrolio – e in generale gli idrocarburi – restano al centro del sistema mondiale di produzione dell’energia. E niente e nessuno sembrano in grado di far cambiare idea a chi controlla l’evoluzione del modo di produzione, guadagnandoci e competendo fino alla follia.
I Guardiani della Rivoluzione hanno sequestrato due petroliere britanniche nelle acque dello Stretto di Hormuz: una, la Mesdar battente bandiera liberiana, è stata liberata poco dopo; ma la Stena Impero, che batte bandiera britannica, costruita nel 2018 e con una stazza di quasi 30 mila tonnellate, è ancora nelle mani dei Pasdaran.
A bordo della Stena Impero ci sono 23 marinai, nessun cittadino britannico, ma indiani, russi, lettoni e filippini. A riprova che la proprietà e la “bandiera” servono solo a dare un indirizzo ai flussi di profitto, mentre il lavoro bruto viene svolto ingaggiando schiavi di qualsiasi paese.
Nel caso della Mesdar l’allarme è presto rientrato: sarebbe stata fermata solo per un controllo e ha ripreso la navigazione, ma cambiando rotta. “Tutto l’equipaggio sta bene ed è al sicuro”, ha fatto sapere la società armatrice.
Il governo britannico ha annunciato pensanti ritorsioni ed invitato le navi ad evitare lo Stretto di Hormuz. “Rimaniamo profondamente preoccupati per l’inaccettabile azione che rappresenta una chiara sfida alla libertà di navigazione. Abbiamo suggerito a tutte le navi di rimanere lontane dalla zona per un periodo di tempo ad interim“, ha segnalato il Foreign Office nella notte. Dimenticando completamente il sequestro di Gibilterra. Si vede che la “libertà di navigazione” è un diritto a geometria variabile: c’è chi lo può invocare e chi no...
Il Foreign Office ha minacciato esplicitamente: “Come ha detto il ministro degli Esteri, la nostra risposta sarà considerevole e forte e ci saranno serie conseguenze se la situazione non si risolve. Rimaniamo in contatto con i nostri partner e ci saranno ulteriori riunioni nel fine settimana“.
L’ambasciatore britannico a Teheran è in contatto con il ministero degli Esteri iraniano mentre la Gran Bretagna lavora con gli alleati per la soluzione della crisi.
Appresa la notizia del sequestro, il presidente americano, Donald Trump, ha parlato al telefono con il presidente francese, Emmanuel Macron. “Parlerò anche con Londra, aspettiamo e vediamo“, ha aggiunto insolitamente cauto, incontrando la stampa, fuori dalla Casa Bianca, in partenza per il New Jersey; ma il sequestro conferma quello che “dico da sempre sull’Iran, ovvero che Teheran crea problemi”.
La Stena Impero era diretta verso l’Arabia Saudita quando improvvisamente ha lasciato le acque internazionali e all’altezza del Golfo di Hormuz è stata costretta a virare: ora appare diretta, secondo i tracciati radar, verso l’isola iraniana di Qeshm, dove i Guardiani della Rivoluzione hanno una base.
L’azione dei Pasdaran è palesemente la reazione al sequestro, nelle scorse settimane, da parte della Marina reale britannica al largo di Gibilterra di una petroliera battente bandiera panamense, la Grace 1, sospettata di trasportare greggio iraniano verso la Siria, in violazione delle sanzioni europee a Damasco. Proprio oggi le autorità di Gibilterra hanno confermato il fermo fino al 15 agosto della nave cisterna che, per l’Iran, è un “atto di pirateria”. Teheran aveva infatti preannunciato una reazione “al momento opportuno”.
Le conseguenze di questa escalation sono al momento imprevedibili. Trump giovedì aveva dato notizia dell’abbattimento di un drone che nel Golfo si era avvicinato troppo a una nave da guerra americana, la Boxer. Teheran ha però smentito la perdita di un velivolo senza pilota e ha fatto circolare un video per mostrare che il drone era rientrato correttamente alla base.
La Royal Navy inglese ha deciso di inviare un’altra grande nave da guerra nel Golfo Persico, la terza. Appena giovedì una petroliera degli Emirati arabi, la Riah, era stata sequestrata dai Pasdaran con l’accusa di contrabbando di petrolio.
Nello Stretto di Hormuz transitano ogni giorno carichi da milioni di barili, pari grosso modo al 35% di tutto il greggio commerciato via mare ed al 20% del totale. Le tensioni nell’area, che costituisce la rotta dei traffici commerciali e delle esportazioni petrolifere mondiali, si accavallano a quelle tra Iran e Usa per l’accordo sul nucleare.
Dopo che il presidente Usa, Donald Trump ha deciso di uscire dall’accordo siglato nel luglio 2015, l’Iran ha deciso di superare i limiti delle riserve di uranio arricchito imposti da quell’intesa. Gli Usa hanno imposto nuove sanzioni contro 12 tra entità e individui, con sede in Iran, Belgio e Cina, legati a una rete che acquistava “materiali sensibili” per il programma nucleare iraniano.
La prospettiva di negoziati sembra lontana: nelle ultime ore, tramite il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, principale sponsor dell’accordo di Vienna, l’Iran ha fatto sapere che Teheran accetterebbe “formalmente e permanentemente” ispezioni del suo programma nucleare in cambio dell’annullamento definitivo delle sanzioni americani.
Per ora Trump ha detto di no, ma la prospettiva di una guerra sembra non piacergli. Ne sembra consapevole il capo storico dei Pasdaran, l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad: “Trump è un uomo d’azione, un uomo d’affari, in grado di calcolare costi benefici e prendere una decisione. Diciamogli ‘calcoliamo i costi/benefici a lungo termine per le nostre due nazioni e cerchiamo di avere uno sguardo non miope‘”.
Nel frattempo, l’Unione Europea sta cercando la strada per aggirare legalmente le “sanzioni” unilaterali decise da Washington contro l’Iran. Ma deve fare i conti con i due paesi più “amerikani” del Vecchio Continente: Italia e Polonia.
Qui di seguito l’articolo che Beda Romano, per IlSole24Ore, dedica al tentativo. La realtà geopolitica dopo la fine della “globalizzazione” è decisamente più complessa degli schemini bipolari in uso nella vecchia come nella nuova “sinistra”.
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Italia e Polonia frenano il dispositivo salva-Iran
Beda Romano
È innovativo, ambizioso ma difficile da far decollare il meccanismo europeo che dovrebbe permettere ai Paesi dell’Unione, e non solo, di salvaguardare i legami commerciali con l’Iran, e di converso evitare una corsa al riarmo nucleare. La partita è tecnica, legale, ma anche molto politica. Le divisioni europee stanno indebolendo un progetto che riflette il tentativo di affrancarsi dagli Stati Uniti, suscitando di conseguenza le critiche e i dubbi di Teheran.
Parlando questa settimana qui a Bruxelles, l’Alta Rappresentante per la Politica estera Federica Mogherini ha spiegato che il meccanismo messo a punto da Francia, Germania e Regno Unito (noto con l’acronimo inglese Instex) è ormai «operativo» e che «le prime transazioni sono in via di elaborazione».
Concretamente, il veicolo si basa sul baratto: dovrebbe far sì che un esportatore europeo verso l’Iran venga pagato da un importatore europeo di prodotti iraniani.
L’obiettivo è aggirare le sanzioni americane contro l’Iran, continuare a commerciare con il Paese e quindi mantenere in vita l’accordo sul Nucleare (JCPOA), rinnegato da Washington.
La società ha sede a Parigi, presso il ministero delle Finanze, ed è guidata da un banchiere tedesco, Per Fischer. Il capitale di partenza è stato di 3.000 euro. Diplomatici qui a Bruxelles sono molto discreti sulle transazioni in atto, gli ammontari e i prodotti coinvolti. Il timore è di essere colpiti da nuove sanzioni americane.
«Alcune transazioni sono in via di definizione – conferma un diplomatico –. Si sta verificando il rispetto delle norme sul riciclaggio di denaro sporco».
La messa a regime di Instex è complicata anche dal fatto che l’Iran è ancora al lavoro sul proprio meccanismo che dovrebbe fare da specchio a quello europeo. Secondo gli ultimi dati disponibili, l’export europeo verso l’Iran totalizzava in aprile 314 milioni di euro (-55% annuo), mentre l’import dall’Iran ammontava a 58 milioni di euro (-93% annuo).
Durante una riunione dei ministri degli Esteri lunedì, sette governi si sono detti interessati a partecipare al veicolo finanziario: il Belgio, l’Olanda, la Spagna, la Slovenia, la Svezia, l’Austria e la Finlandia. Tuttavia, due grandi paesi, l’Italia e la Polonia, stanno ancora valutando come agire.
Il governo italiano è combattuto sul da farsi. Da un lato, vuole preservare l’Accordo sul nucleare e continuare a commerciare con Teheran. Dall’altro, teme di innervosire gli Stati Uniti (dopo aver ottenuto nel 2018 una esenzione temporanea dalle sanzioni americane).
Chi ha partecipato alla riunione ministeriale ha ritenuto che Varsavia avesse un atteggiamento ancor più nettamente pro-americano.
La spaccatura non è banale in un momento in cui l’Europa tenta di affrancarsi dagli Stati Uniti e di ridurre il peso egemonico del dollaro. Spiega in un recente rapporto lo European Council on Foreign Relations che «le vulnerabilità dell’Europa dipendono soprattutto da una interdipendenza dagli Stati Uniti che è asimmetrica, per via della taglia dei mercati finanziari americani e del ruolo globale del dollaro». In questo senso, il centro-studi crede che «l’Unione europea debba rafforzare le sue politiche sanzionatorie (…) preparandosi ad adottare contromisure asimmetriche».
Parlando al Financial Times di ieri, il ministero degli Esteri russo ha dato il suo appoggio a Instex. Dicendosi pronta a utilizzarlo, la Russia ha esacerbato le divisioni europee. Non basta: rimane in dubbio se Instex potrà essere usato per il petrolio iraniano. Non sorprende in questo frangente che Teheran ritenga Instex insufficiente, e abbia rimesso in questione il JCPOA (si veda II Sole 24 Ore del 29 giugno).
Il meccanismo di baratto sarà tanto più efficace quanto più numerosi saranno i Paesi europei ad utilizzarlo.
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