15/07/2019
Luglio 1970: la Rivolta di Reggio Calabria. I problemi del conflitto metropolitano
Nel luglio del 1970 presero il via quelli che la storia recente del nostro paese narra come “I moti di Reggio Calabria”.
Il fattore scatenante di quel grande sommovimento sociale che – ricordiamolo – provocò 6 morti (ufficiali), centinaia di feriti e migliaia di inquisiti fu il trasferimento del capoluogo della regione Calabria da Reggio a Catanzaro. Nei mesi della rivolta esercito, polizia e carabinieri non si fecero scrupolo a usare, ripetutamente, le armi da fuoco e i carri armati nella repressione che misero in atto in piena continuità con gli anni di Scelba, della repressione antioperaia di quel periodo e dei morti provocati in altri contesti di crisi sociale al Nord come al Sud del paese.
È utile ricordare che non esisteva precedentemente un formale capoluogo di regione, considerato che l’istituzione delle Regioni andò in vigore nel 1970. Questa decisione, però, fu vissuta dai reggini come un ulteriore schiaffo ad una città ed un territorio che erano stati, storicamente, martirizzati dalle politiche economiche, almeno dal 1860.
I limiti derivanti della Riforma Agraria che in Calabria, prima e soprattutto dopo il fascismo, era stata fortemente voluta da un ampio movimento di lotta contro il latifondo che vigeva in quelle terre guidato dai comunisti con alla testa figure come quelle di Fausto Gullo; la mancata industrializzazione del Sud con buona pace di tutte le chiacchiere e la demagogia della Cassa per il Mezzogiorno, e la grande frustrazione sociale che seguì all’annuncio della decisione del Governo che “scippò” Reggio, furono le ragioni sociali da cui prese il via quella che possiamo definire come la più grossa “rivolta urbana” italiana.
I Moti di Reggio – che ebbero il loro epicentro nel quartiere popolare di Statte – sono passati alla storia come una vicenda egemonizzata dai fascisti e da piccoli imprenditori locali. Uno dei leader dell’allora Movimento Sociale Italiano, Ciccio Franco, divenne famoso in tutta Italia e fu un deputato noto per il suo essere stato il megafono di quella rivolta, il capo dei “Boia chi Molla”.
Certo i fascisti ebbero un ruolo ed una funzione agente importante in quel contesto, ma sarebbe ora – in sede storica – di interrogarsi criticamente (con uno sguardo rivolto all’oggi) sui limiti di comprensione che l’allora Partito Comunista Italiano, e di conseguenza la CGIL, mostrarono nell’interpretare quel malessere e quella vera e propria materia sociale incandescente che si ritrovò, improvvisamente, con i fascisti alla propria guida.
Il PCI, la CGIL, il PSI e tutto il resto della sinistra parlamentare furono colti totalmente impreparati politicamente dall’esplosione sociale e non trovarono di meglio che, in nome di astratti concetti di richiamo alla cosiddetta legalità dello Stato, prendere le distanze dalle prime proteste finendo per diventare, di fatto, le controparti politiche e fisiche delle proteste.
Bastarono, quindi, pochi giorni ai fascisti per mettersi alla testa di queste masse deluse ed arrabbiate (ricordiamo che solo un anno prima analoghi moti, con motivazioni scatenanti simili, erano avvenuti a Battipaglia e ad Avola), indirizzando la protesta contro Roma e la sinistra, accusati di aver tradito le popolazioni del Sud.
Naturalmente la reazione dello Stato non fu dialogante ma, fin dalle prime manifestazioni di piazza, la polizia represse duramente ogni tipo di mobilitazione, dando all’azione dei fascisti ulteriore legittimità ed internità sociale.
Che poi il primo morto ammazzato dalla polizia fosse un sindacalista della CGIL, Bruno Labate, dimostra come la partecipazione agli scioperi, ai blocchi e a tutte le altre forme di lotte che si susseguirono era trasversale a tutte le forze politiche e ai ceti sociali.
Lo stesso Ciccio Franco, in una intervista dalla latitanza rilasciata ad Oriana Fallaci (1971), dichiarò: “Specie nei quartieri popolari v’erano tanti ragazzi che ritenevano che Reggio potesse esser difesa dai partiti della sinistra o di centro-sinistra. E, dopo la posizione assunta dai partiti di sinistra e di centro-sinistra contro Reggio, questi ragazzi hanno ritenuto di dover rivedere la loro posizione anche politicamente. Molti, oggi, fanno i fascisti semplicemente perché ritengono che la battaglia di Reggio sia interpretata in modo fedele solo dai fascisti.”
Per la verità storica, e per rispetto ad una tradizione politica che si pose il compito teorico e pratico di scandagliare la nuova “Questione Meridionale”, dobbiamo ricordare che l’allora nascente organizzazione Lotta Continua non si accodò alla vulgata in auge a proposito della “rivolta fascista” e, correttamente, inviò dal resto d’Italia numerosi militanti a Reggio Calabria per seguire da vicino tale dinamica sociale e per sollecitare/impulsare un indirizzo “rivoluzionario”.
Certo, leggendo ora la pubblicistica di Lotta Continua di quei mesi, salta agli occhi una modalità estremamente enfatica di leggere gli avvenimenti, oppure una interpretazione troppo meccanicistica la quale individuava nel nesso “protesta violenta popolare/lotta antisistema ed anticapitalistica” un fattore già acquisito e metabolizzato da parte dei ceti popolari. Ma, tale attenzione controcorrente, sperimentata da questi compagni, resta un merito di cui va dato atto a questa esperienza la quale si mosse contro l’allora (forte) senso comune della Sinistra.
Sicuramente, come è stato agli albori della sinistra rivoluzionaria di quel periodo, il soggettivismo immediatista era predominante, ma nell’atteggiamento dei compagni di Lotta Continua era possibile cogliere l’intuizione e l’attitudine militante a riferirsi costantemente alla “classe” e all’intero corollario di questioni che attengono alla sua caratteristica/configurazione/composizione economica, sociale e territoriale.
Una riflessione teorica ed un assunto metodologico il quale andrebbe oggi valorizzato e collocato all’altezza delle odierni contraddizioni per riferirci, sempre meglio e con meno approssimazione, ad una congiuntura politica caratterizzata dal predominio dei fattori di frantumazione sociale e di cancellazione di ogni residuo di “coscienza di classe” prodotta dal vecchio ciclo di lotte e conquiste.
Solo successivamente la “sinistra” di quegli anni ritenne di “intervenire” (a modo suo) a Reggio Calabria.
Cgil, Cisl e Uil organizzarono una grande manifestazione in città, con delegazioni di massa da ogni parte d’Italia le quali raggiunsero Reggio scansando le bombe che i fascisti posero sui binari dei treni. Ma l’enorme corteo che sfilò per le strade reggine si svolse in un clima blindato, con una città ostile ai manifestanti che percepiva le delegazioni dei lavoratori come una forzata interferenza esterna verso una sacrosanta protesta. Il “proletariato reggino” era solo, fu lasciato solo e continuò ad essere isolato!
La rivolta andò avanti per mesi, tra inasprimento delle proteste e periodi di “trattative” con il Governo, e dopo qualche tempo si raggiunse una sorta di “accordo” alla cui base erano stabiliti alcuni trasferimenti di funzioni amministrative a Reggio, la promessa di costruzione di fabbriche e l’insediamento di “poli di sviluppo” accompagnati dalla solita “infornata di assunzioni clientelari”, di cui i vecchi democristiani meridionali erano autentici strateghi per le loro abituali tecniche di governance.
Ricordare la Rivolta di Reggio Calabria serve non solo per ricostruire una memoria collettiva delle lotte dei subalterni, contrastando revisionismi ed opacizzazioni storiche ma, a parere di chi scrive, questo esercizio è oggi utile per testare continuamente il ruolo e l’azione della soggettività comunista – ieri come oggi – nell’affrontare questioni e scenari complessi e contraddittori.
In quel contesto l’allora sinistra politica e sociale furono travolti dagli avvenimenti ed incapaci di svolgere una analisi concreta della situazione concreta, offrendo concretamente spazio e linfa vitale ai fascisti ed alle forze reazionarie incapaci, strutturalmente, di produrre un avanzamento politico di quelle istanze sociali.
Tornare, quindi, su questi aspetti della storiografia di classe, dove si intrecciano scenari complicati e forme della politica inedite, costituisce un fattore di autoformazione collettiva per attrezzare una generazione di militanti consapevole che la lotta di classe – particolarmente nei paesi imperialisti – non si nutre di facili dogmi o di collaudate abitudini che possono, automaticamente, riprodursi in eterno e, magari, risolverci i “problemi della lotta di classe”.
Il tema della Rottura ha bisogno di analisi critica, di inchiesta sociale e di ricerca del filo rosso della ricomposizione della classe in contesti e campi di battaglia sempre più spuri e complessi.
Reggio Calabria ieri e le periferie delle nostrane metropoli sono foriere di questi rompicapi e sono il portato di una sfida contemporanea.
Questa è – ci piaccia o meno – la cruna dell’ago che ci tocca attraversare!
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