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22/07/2019

“Il partito della secessione” urla, ma è sotto scacco

La crisi del governo italiano è parte integrante della partita europea. Chi guarda alle vicende di questi giorni con gli occhi incollati ai sondaggi interni, farà sempre più fatica ad interpretare i messaggi trasversali, gli sgambetti, gli scontri violenti che devastano la maggioranza.

È appena il caso di ricordare che in questi ultimi cinque anni abbiamo avuto ben due partiti sopra o vicini al 40% nel voto popolare (non nei sondaggi), e in pochissimi mesi hanno perso tutto. Il Pd democristiano di Renzi e il M5S del neodemocristiano Di Maio sono già storia del passato. Il democristiano di ultradestra, l’“altro Matteo”, può fare la stessa fine alla stessa velocità.

Se fosse una partita solo italiana, questo andamento schizofrenico dell’elettorato richiederebbe l’intervento di uno squadrone di psichiatri di alto livello. Se la si vede intrecciata con la partita europea, invece, emerge una razionalità piuttosto severa.

Il punto essenziale da capire – e che la sedicente “sinistra” ha sempre rimosso perché troppo chiaro – è che i governi nazionali dell’Unione a 27 hanno da quasi tre decenni perso la propria “sovranità di politica economica”. Quanto più è debole un paese (per peso economico o per livello del debito pubblico), tanto meno è libero di decidere cosa fare delle proprie risorse e delle entrate fiscali.

Questa limitazione è stata il problema che ha consumato il consenso di tutte le formazioni politiche succedutesi dal 1992 ad oggi, consumando leader (Berlusconi, Prodi, Bersani, Letta, Renzi, Di Maio, ecc) e “partiti”.

Se non puoi decidere la politica economica, le tue promesse elettorali diventano impossibili da rispettare. Quanto meno, quel che riesci a combinare – prendiamo ad esempio “reddito di cittadinanza” e “quota 100” – è solo una pallida imitazione di quel che avevi promesso.

In linea teorica, un governo nazionale – di qualsiasi connotazione ideal-politica – ha la possibilità di “retroagire” a livello europeo, avanzando istanze, chiedendo cambiamenti dei trattati, condivisione delle decisioni.

In linea pratica, invece, l’unico momento in cui può provare a condizionare le decisioni comunitarie è all’inizio della nuova legislatura, quando bisogna assegnare le “poltrone” secondo criteri retoricamente alti e pratiche concretamente da manuale cencelli.

L’editoriale di Guido Salerno Aletta, per Milano Finanza, spiega con grande chiarezza il ruolo svolto da Giuseppe Conte nel portare il governo gialloverde – non proprio benvisto, diciamo così, a Bruxelles – a diventare determinante per la formazione di una “maggioranza europeista”, pur se con i voti di ultranazionalisti polacchi e ungheresi (sotto ferreo controllo economico della Germania, peraltro).

Più precisamente: mezzo governo italiano, ossia la componente Cinque Stelle, uscita dimezzata dal voto europeo.

Dei “tre governi in uno” dell’attuale esecutivo, insomma, si è imposto quello di “garanzia europea” – rappresentato dallo stesso Conte, Tria, Moavero Milanesi, Trenta – che ha trascinato i grillini in evidente stato di panico.

Non la Lega, che si è vista così assolutamente priva di sponde nell’Unione, neofascisti della Le Pen a parte. Il legame sempre più esplicito con Trump e gli Usa, nella versione para-nazista di Steve Bannon (confermata dall’origine neofascista di molti membri dello staff salviniano – dal “russo” Savoini in giù), ha svuotato di senso anche la retorica “euro-asiatica” con cui aveva fin qui condito le sue finte critiche all’Unione Europea.

Come tutti gli “unti del signore”, Salvini e la Lega si trovano dunque nella situazione di dover capitalizzare al più presto il picco di consensi certificato dal voto di fine maggio. Ma non hanno alcuna garanzia di riuscirci.

Non sarebbe certo la prima volta che un crisi di governo non porta alle elezioni anticipate, e la necessità di varare entro fine anno la legge di stabilità (che anche secondo Mario Monti dovrà contenere “un bel po’ di lacrime e parecchio sangue”), sotto strettissimo controllo della Commissione, è di per sé un buon motivo per non andare alle urne neppure se il governo decidesse di sciogliersi questo giovedì (come minacciato da Conte).

Non paradossalmente, il tema su cui lo scontro si è acutizzato – l’autonomia regionale differenziata – rischia di riportare la Lega alle sue origini: il partito della secessione. Se non fosse per la complicità del Pd emiliano (il governatore Bonaccini ha sottoscritto una richiesta del tutto analoga a a quella dei leghisti Zaia e Fontana, assunzioni nella scuola a parte), sarebbe stato abbastanza semplice concentrare su Salvini & co. una critica radicale in tal senso.

Una secessione di classe, perché tende platealmente a favorire una concentrazione della ricchezza e una redistribuzione della povertà, accentuando le disuguaglianze sociali – anche all’interno delle regioni del Nord – che accompagna una più esplicita secessione territoriale.

Un programma – paradossalmente – che ripropone la logica economica del “progetto europeo” sulla più ristretta base nazionale. Non ci vuol molto, per esempio, a capire che la proposta di salario minimo europeo, enunciata nel discorso di candidatura della Von der Leyen, è una proposta di ufficializzazione delle gabbie salariali giù esistenti a livello continentale. E anche il leghista Giorgetti, candidamente, ha spiegato che andrebbero legalizzate (di nuovo, dopo 50 anni) anche in Italia, regione per regione, provincia per provincia.

Un programma che demolisce in pochi passaggi un paio di pilastri della retorica salviniana: il “prima gli italiani”, che diventa un “prima i ricchi, o comunque il Nord”, e il “rimettere un po’ di soldi nelle tasche dei lavoratori”, che si rivela il classico togliergliene un altro po’.

Obietterete che tutto questo non risulta così evidente agli occhi dell’elettorato.

È verissimo. Proprio per questo la Lega avrebbe bisogno di capitalizzare subito la massa di consensi (sempre molto volatili, come abbiamo visto in questi anni) andando al voto. Proprio per questo, tutti gli altri – dalla Unione Europea a Mattarella, alla maggioranza degli attuali parlamentari – non glielo permetteranno.

Salvini lo sa, e dunque esita a formalizzare la crisi. Ma il governo può cadere lo stesso. Se la “componente di garanzia europea” decide di staccare la spina...

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I fatti e la loro narrazione. Conte azzarda

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza

I fatti e la loro narrazione: niente è mai come sembra a prima vista, non a Roma e neppure a Bruxelles. I capovolgimenti di fronte, nella lunga battaglia politica che sta portando alla formazione dei nuovi organismi di vertice dell’Unione sono continui e lasciano spazio alle manovre politiche più imprevedibili. A volte, veri e propri azzardi.

Al momento, a fare da ago della bilancia per riuscire a formare la maggioranza necessaria per far approvare a Strasburgo la nomina di Ursula Von der Leyen a Presidente della Commissione è stato Giuseppe Conte, il Presidente del Consiglio di un’Italia che tutti danno per emarginata, sempre fuori dai giochi.

Per insinuarsi, spiazzando per un giorno almeno il ruolo di king-maker assunto dal Presidente francese Emmanuel Macron, Conte ha approfittato del vistoso ammutinamento in casa S&D, con il forte dissenso dei rappresentanti di Germania, Grecia, Austria, Slovenia e Benelux che avrebbero preferito il loro candidato-guida, l’olandese Frans Timmermans, ed all’interno della stessa Cdu.

C’è un dato di fatto, di cui tener conto. A Strasburgo, la triplice alleanza formata da Popolari, S&D e Renew può contare su 369 seggi: un numero inferiore, seppur di poco, rispetto ai 374 che rappresentano la maggioranza assoluta dell’Assemblea di Strasburgo, richiesta per approvare la candidatura del Presidente della Commissione. Se a questi si aggiungono i 14 voti apportati dagli eurodeputati “non iscritti” ad alcun Gruppo si arriva ad un totale di 383 voti. Curiosamente, gli eletti italiani nella lista del M5S, gli unici ad essere “non iscritti”, sono già considerati nel sito di Wikipedia dedicato al Parlamento europeo come facenti parte della maggioranza basata sulla triplice alleanza. Di questo, si tace.

Di fronte alle defezioni preannunciate, e piuttosto che puntare sul fallimento dell’accordo raggiunto sulla candidatura della Von der Leyen, il Premier Conte ha sollecitato l’appoggio necessario agli eurodeputati dei Gruppi che si riferiscono alla maggioranza che sostiene il governo: solo il M5S ha raccolto l’invito; e così, ad essere determinanti, sono stati i loro 14 voti favorevoli. La candidata ha ottenuto 383 voti favorevoli, superando con uno scarto di appena 9 voti il quorum richiesto.

Non è bastato alla Van der Leyen un discorso di ampia apertura ai Verdi, con la promessa di fare dell’Europa il primo continente ad emissioni zero entro il 2050 rispettando anche la tappa intermedia del 2030; e neppure l'ipotesi di trasformare la Bei in una Banca per gli investimenti nel campo ambientale: le politiche di sviluppo industriale della triplice alleanza sono assai distanti rispetto a quelle della galassia verde che popola Bruxelles. E poi, i Verdi, che sono arrivati ad essere il secondo partito in Germania, non hanno nessuna voglia di fare da stampella ad una grande coalizione che vede l’SPD in forte difficoltà: puntano, invece alla crisi della Grande coalizione, per sbarcare la Cdu-Csu.

L’appoggio italiano alla candidatura della Von der Leyen è stato apertamente rivendicato dal Premier Conte, giovedì scorso, con una lettera alla stampa. Ha affermato di averne condiviso la designazione “per la sua storia personale e politica, e perché questa soluzione avrebbe consentito all’Italia di ottenere un portafoglio economico di rilievo, in particolare la ‘concorrenza’, come da me richiesto, e avrebbe aperto a buone prospettive per l’Italia anche con riguardo alle restanti nomine”.

Ricordando di aver invitato i parlamentari europei delle forze politiche che sostengono la maggioranza interna ad appoggiare questa candidatura, e che gli Europarlamentari eletti con la Lega hanno espresso voto contrario, ha affermato di non essere “in condizione di prefigurare se questa contrarietà avrà ripercussioni sulle trattative che si svolgeranno per definire la composizione della squadra di neo-Commissari. Non si tratta infatti di rivendicare una ‘poltrona’, quella di Commissario alla concorrenza, a beneficio di una singola forza politica, ma di difendere gli interessi nazionali e di rivendicare per l’Italia il posto di prestigio che merita”. D’altra parte, ha concluso sul punto, il discorso programmatico della neo-Presidente aveva confermato molte delle priorità che stanno a cuore all’Italia, in tema di politiche sociali, di misure per l’occupazione, per la tutela dell’ambiente, e di contrasto al traffico illegale di migranti.

L’appoggio del M5S alla candidatura lascia immutato l’accordo politico fondato sulla sola triplice alleanza. Su questo, la capodelegazione Tiziana Beghin, dopo aver espresso apprezzamento per gli impegni assunti dalla neo-presidente della Commissione europea, è stata chiara: “il Movimento Cinque Stelle monitorerà costantemente il suo mandato e sarà, se necessario, molto duro con lei”.

La Lega ha votato contro, disattendendo l’invito di Conte: senza garanzie per un suo uomo alla Concorrenza, sarebbe stato un voto a perdere. Il sospetto, però, è che a Bruxelles non si siano mai impegnati a designare un italiano leghista: prima ancora della pubblicazione della lettera in cui il Premier Conte esprimeva rammarico e preoccupazione per la decisione della Lega, è stato annunciato che Margrethe Vestager, attuale Commissario con questo incarico, aveva deciso di aprire un’indagine su Amazon, per verificare se l’utilizzo dei dati dei dettaglianti indipendenti che vendono i loro prodotti attraverso la piattaforma del gigante dell’e-commerce violi le regole sulla concorrenza.

Una iniziativa assunta in articulo mortis, per condizionare il prossimo Commissario e mantenere alto il livello di scontro con gli Usa, proseguendo l’escalation in corso da cinque anni contro i giganti americani, come Qualcomm, Apple e Google. Una procedura aperta poi, guarda caso, proprio quando gli Antitrust di Germania ed Austria avevano dichiarato concluse le proprie investigazioni su Amazon avendo ottenuto impegni assai soddisfacenti circa i comportamenti a livello globale.

Le simpatie americane della Lega, confermate dall’ultimo viaggio di Matteo Salvini oltre Atlantico, a dispetto delle recenti notizie su presunti finanziamenti russi al suo partito, rendono quanto mai improbabile che un politico italiano filo-statunitense, possa assumere il ruolo di Commissario alla concorrenza.

Tra l’altro, Francia e Germania hanno già in animo di rivedere tutti i parametri relativi alla individuazione del mercato rilevante ai fini di fusioni ed acquisizioni: l’obiettivo è di creare colossi continentali, favorendo le aggregazioni industriali e societarie tra i due Paesi. Affermare, come pure ha fatto il Premier Conte, che in Europa occorre difendere a tutti i costi gli interessi nazionali italiani, cozza dunque con il progetto strategico franco-tedesco in materia di concorrenza.

L’accordo di maggioranza che fa da supporto alle nuove istituzioni europee si è confermato numericamente insufficiente e politicamente fragile: ciò le rende meno autonome rispetto alle politiche nazionali. Ora, tutta l’attenzione si sposta verso il completamento della struttura con la nomina dei ventisei Commissari, dando per scontato che le due Vicepresidenze della Commissione saranno assegnate a Frans Timmermans in rappresentanza del Gruppo S&D e a Margrethe Vestager per Renew.

Per quanto riguarda il vertice della struttura burocratica, si sa già che lascerà il suo incarico il tedesco Martin Selmayr, che ha fatto da guardiano al Presidente Jean-Claude Junker. Il nome del suo successore non è noto, ma non sarà comunque un tedesco, vista la nazionalità della Von der Leyen.

Per la neo-Presidente della Commissione, la strada è tutta in salita: le prossime nomine cercheranno di sanare le incomprensioni e di rimediare agli incidenti di percorso che finora hanno costellato la nuova tornata europea. Alternando le fasi di allargamento dell’Unione a quelle di consolidamento, la neo-Presidente ed ex-ministro della difesa in Germania, batte su quest’ultimo tasto: l’Europa sta nella Nato, ma deve andare avanti a passi marcati verso una vera Unione Europea di Difesa. Pronta al confronto geopolitico e commerciale con gli Usa, ruvida ma non troppo verso la Russia, comunque sospettosa verso la Cina: se non fosse per la prospettiva di questa “Fortress Europe”, nel suo programma (A Union that strives for more – My agenda for Europe) si ripetono con immutata enfasi gli stessi obiettivi strabilianti già contenuti del Trattato di Lisbona, entrato in vigore dieci fa, il 1° dicembre 2009. L’impegno ora è per un’Europa leader non solo nella realizzazione del nuovo mondo digitale, ma anche nell’azzeramento delle emissioni di CO2. Le solite promesse?

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