Una scena simile si sta consumando in questi giorni nei corridoi del Palazzo, dove si discute delle condizioni materiali di vita di milioni di lavoratori italiani, il cui destino sembra somigliare a quello della Longobarda di Canà.
Sappiamo che c’è attualmente sul tavolo una proposta di legge sull’introduzione di un salario minimo che, seppur soggetta ad un futuro iter parlamentare che potrebbe comunque portarla a svuotarsi del suo contenuto più meritevole, rappresenterebbe per molti lavoratori un miglioramento delle condizioni retributive. Tale disegno di legge, a firma della senatrice Nunzia Catalfo (M5S), oltre ad essere stato criticato dai soliti portaborse degli interessi dominanti, è stato, in maniera tutt’altro che sorprendente, oggetto degli strali di Confindustria. L’Istat ha infatti stimato che l’adeguamento verso l’alto delle retribuzioni sotto ai 9 euro lordi – la soglia prevista dal disegno di legge – comporterebbe per le imprese un aggravio di costi per 4,3 miliardi. Tale aggravio salirebbe a 6,7 miliardi secondo INAPP, in base alle cui stime la misura coinvolgerebbe il 21,2% dei lavoratori dipendenti.
Vale la pena precisare che, se davvero l’obiettivo fosse quello di migliorare le condizioni materiali di vita dei lavoratori, questa misura la dovrebbero pagare solo e soltanto i profitti, in particolar modo di quelle imprese che fino ad oggi pagano salari inferiori a livelli dignitosi. Non si tratterebbe dunque in alcun modo di una misura da finanziare con coperture a carico dello Stato, come invece sembra emergere da un dibattito pubblico talvolta surreale: una fetta del prodotto sociale andrebbe ‘semplicemente’ strappata dalle mani dei padroni e redistribuita ai lavoratori.
A fronte dei costi stimati a carico delle imprese, subito sono arrivate le levate di scudi da parte dei soliti sospetti: la Lega, attraverso la voce di Claudio Durigon, ha tenuto a precisare che una legge sul salario minimo si farà solo se sarà “a costo zero per le imprese”. E come hanno tradotto questa suggestione di marca leghista i rappresentanti delle associazioni padronali? Proprio il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha dichiarato che il salario minimo dovrebbe essere accompagnato dal taglio del cuneo fiscale per le aziende. Proviamo a capire cosa potrebbe comportare questa sorta di do ut des se, malauguratamente, fosse davvero inserito nella prossima legge di bilancio.
Il cuneo fiscale (propriamente detto ‘cuneo fiscale e contributivo') è la differenza tra la spesa complessiva che un rapporto di lavoro implica e quanto il lavoratore ogni mese si mette effettivamente in saccoccia. In cosa consiste questa differenza in Italia? Come ci aiuta a capire la tabella, quando un’impresa assume un lavoratore, oltre al suo stipendio lordo deve pagare: una quota contributiva a favore del lavoratore che va all’INPS e all’INAIL (circa il 24% della retribuzione lorda), che diventerà, un domani, pensione e prestazione per gli infortuni sul lavoro o l’invalidità; un’imposta chiamata IRAP che colpisce anche il costo del lavoro (pari al 3,9% circa della retribuzione lorda). La somma di queste componenti (retribuzione lorda, oneri contributivi e IRAP) costituisce il costo del lavoro complessivo.
D’altro canto, per calcolare lo stipendio netto del lavoratore, dalla sua retribuzione lorda vanno sottratti un 9% di contributi previdenziali a suo carico e, sulla base dei relativi scaglioni, le ritenute IRPEF. Qui, per semplicità, faremo riferimento ad un’aliquota del 23% attribuita al primo scaglione di reddito.
Quindi, le componenti del cuneo fiscale sono: IRPEF (a carico del lavoratore), IRAP (a carico del datore), contributi previdenziali e assicurativi (sia a carico del datore che del lavoratore), e IRPEF. Un taglio del cuneo fiscale a favore delle imprese, quindi, si concretizzerebbe in una riduzione o della componente contributiva a carico del datore e/o dell’IRAP.
Esempio di cuneo fiscale e contributivo | ||
Voce | Importo | Descrizione |
Costo del lavoro | 2.300 | Cuneo fiscale e contributivo |
– IRAP a carico del datore di lavoro | 70 | |
– Contributi previdenziali e assicurativi (INPS-INAIL) a carico del datore di lavoro | 430 | |
= Retribuzione lorda | 1.800 | |
– Ritenute fiscali (IRPEF) a carico del lavoratore | 415 | |
– Contributi previdenziali (INPS) a carico del lavoratore | 165 | |
= Retribuzione netta | 1.220 | Netto in busta paga |
Nell’ipotesi che lo stipendio lordo pagato da un’impresa sia 1.800 euro, possiamo calcolare gli oneri fiscali e contributivi a carico del datore. Per quanto riguarda i contributi previdenziali e assicurativi, essi ammonteranno a circa 430 euro (24% di 1.800 euro); l’IRAP dovuta sarà invece pari a circa 70 euro (3,9% di 1.800 euro). La somma tra questi oneri e la retribuzione lorda rappresenterà il costo del lavoro sostenuto dall’impresa (2.300 euro). Stando alle ipotesi sopra indicate le ritenute a carico del lavoratore dipendente ammonteranno a 680 euro (di cui 415 euro imputabili all’IRPEF e 165 come oneri contributivi). Il cuneo fiscale e contributivo è dunque rappresentato da quei 500 euro che l’impresa verserà, a titolo di tasse e contributi, più i 580 euro a carico del lavoratore, per un totale di 1.080 euro. Tagliare il cuneo fiscale a carico delle imprese vuol dire, in buona sostanza, ridurre l’ammontare di imposte o contributi che queste versano all’Erario (IRAP) o agli istituti sociali (INPS o INAIL).
Nell’ipotesi avanzata da Boccia, l’eventuale entrata in vigore del salario minimo sarebbe accettabile solo se il costo del lavoro complessivo non eccedesse i 2.300 euro che abbiamo ipotizzato nel nostro esempio: se tale misura portasse la retribuzione lorda del lavoratore da 1.800 a 2.000 euro (assumiamo anche per semplicità che questi extra 200 euro siano al netto di contributi previdenziali e oneri fiscali), per non far salire il costo complessivo del lavoro sopra ai 2.300 euro, il taglio del cuneo per le imprese dovrebbe essere esattamente di 200 euro, cioè quell’ammontare che, per legge, l’impresa dovrebbe dare in più al lavoratore. I datori di lavoro, quindi, verserebbero meno contributi INPS-INAIL, o alternativamente pagherebbero meno IRAP.
Ad una prima analisi, tale proposta non sembrerebbe così penalizzante per i lavoratori. Da un lato, per via dell’introduzione del salario minimo, la loro retribuzione netta, ceteris paribus, crescerebbe a 1.420 euro; dall’altro, non vi sarebbe alcun pericolo per la competitività dei beni prodotti, né millantate riduzioni di personale, in quanto le imprese non vedrebbero aumentare i loro esborsi complessivi (2.300) per via di una minore onere contributivo o fiscale.
È proprio qui, tuttavia, che sta l’inghippo. Conti alla mano, introdurre il salario minimo a costo zero per le imprese significherebbe ridurre il gettito contributivo o fiscale di diversi miliardi di euro (secondo le stime riportate, dai 4,3 ai 6,7 miliardi di euro). Se il taglio riguardasse il gettito contributivo, le casse dell’INPS e dell’INAIL si troverebbero con diversi miliardi in meno tra le voci di entrata. Se invece il taglio si concretizzasse in un’ulteriore sforbiciata all’IRAP, sarebbero le casse erariali a soffrire dell’ennesimo regalo fatto ai padroni. Per via del vincolo del pareggio di bilancio dettato dai Trattati europei, che questo Governo ha dimostrato di rispettare pedissequamente, questi ‘ammanchi’ si tradurrebbero, necessariamente, o in un taglio delle prestazioni previdenziali o, come tristemente noto, queste risorse sarebbero sottratte ad altre voci della spesa pubblica. In sostanza, si tratterebbe di ulteriori tagli alla spesa sociale e in genere alla spesa pubblica. Non ci vuole molto a rendersi conto che questi tagli ricadrebbero proprio sui lavoratori, o direttamente per il taglio delle pensioni e delle indennità da infortunio e invalidità, o indirettamente per il taglio dei servizi pubblici di cui beneficiano in primo luogo le classi svantaggiate, che non possono permettersi scuole private, taxi o visite specialistiche a pagamento.
L’idea che la riduzione del cuneo fiscale possa rappresentare un toccasana per l’economia, ripetuta da molti anni nel dibattito pubblico, fa riferimento alla consueta visione dominante del sistema economico, secondo cui esisterebbe una domanda di lavoro che diminuisce all’aumentare del salario lordo (il cosiddetto ‘costo del lavoro’). In sostanza, sborsando meno denaro per assumere un lavoratore, le imprese sarebbe indotte ad assumere più lavoratori. Mettendo da parte le conseguenze distributive di un taglio del costo del lavoro, si tratta, a priori, di una concezione errata che non considera che il livello dell’occupazione non dipende dal costo del lavoro ma dalla domanda generale di beni e servizi, che consente alle imprese di vendere i loro prodotti. Una riduzione del cuneo fiscale, a parità di domanda di beni e servizi, altro non implicherebbe che un aumento dei profitti a scapito della spesa sociale e a parità di occupazione, nella migliore delle ipotesi. Sarebbe, infatti, plausibile immaginare anche una diminuzione della domanda aggregata per via della caduta della sua componente statale, e quindi una diminuzione dell’occupazione. Proprio l’opposto di ciò che viene postulato come dogma dalla teoria economica dominante.
Il pericoloso do ut des imposto ai lavoratori, oltre a non sortire alcun tipo di effetto occupazionale positivo ed a produrre conseguenze distributive negative, sarebbe ancor più penalizzante per i lavoratori se si considerano tutte le insidie della proposta di salario minimo e, soprattutto, ciò che effettivamente potrebbe accadere al testo prima che venga definitivamente tradotto in legge. Se, ad esempio, venisse limitato il perimetro di applicazione del salario minimo, escludendo specifiche categorie di lavoratori (come si è vociferato, gli agricoli, gli under 30, e i collaboratori domestici), o se, in maniera ancor più deleteria, il testo della legge non facesse riferimento ai minimi tabellari bensì alla retribuzione complessiva, gli effetti dell’introduzione del salario minimo sarebbero pressoché nulli.
Per queste ragioni, ridurre il cuneo fiscale nell’attesa dell’entrata in vigore di un salario minimo vorrebbe dire accettare uno scambio simile a quello che Bortolotti spacciava per vantaggioso a Canà: si tratterebbe di cedere o ridimensionare, oggi, le poche certezze che restano ai lavoratori (una pensione già compromessa da anni di controriforme, una scuola ed una sanità pubblica devastate ma ancora esistenti, o dei trasporti che, sebbene fatiscenti per via dell’austerità, ancora costano 1 euro e mezzo), per ottenere, forse, un domani, un aumento della retribuzione.
D’altronde, siamo già abituati ad assistere a fregature di questa portata: nel 1993 ad esempio, con la promessa di maggiori investimenti, gli imprenditori ottennero la riforma della contrattazione collettiva. Il risultato è tristemente noto: i salari reali sono caduti e degli investimenti nemmeno l’ombra.
Sulla proposta di salario minimo ci siamo già espressi, senza mezzi termini: se vogliamo avere una qualche utilità, abbiamo il dovere di insinuarci anche nelle più piccole contraddizioni di questo Governo, per strappare anche il più piccolo miglioramento nelle condizioni materiali della classe lavoratrice. Tuttavia, nonostante queste piccole increspature, l’attuale compagine governativa si rivela ogni giorno sempre più assoggettata ai diktat europei, agli interessi dei poteri dominanti e alla visione prevalente del sistema economico: la dialettica di questi giorni sul salario minimo e sul cuneo fiscale, con il vicepremier Di Maio che ha dichiarato di essere pronto ad accettare uno scambio del genere, ci porta, ancora una volta, a considerare quello gialloverde come l’ennesimo esecutivo al servizio del padrun.
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