Nelle ultime settimane la città cinese di Hong Kong è scossa da una seconda fiammata del cosiddetto “movimento degli ombrelli”, di matrice antigovernativa, che già aveva avuto una prima fiammata nel 2014.
Si ricorda che Hong Kong, assieme a Macao e Taiwan, è uno dei territori che la Rivoluzione Cinese del 1949 non è riuscita a riscattare dal dominio straniero. La città, infatti, rimase colonia del Regno Unito, sotto il cui tallone si trovava dalla fine della Prima Guerra dell’Oppio (1842), ad eccezione del breve periodo di occupazione giapponese dal 1941 al 1945.
La decolonizzazione ebbe avvio solo 1997, attraverso una trattativa diplomatica pacifica fra Repubblica Popolare Cinese e Regno Unito. Da allora il potere politico cinese si esercita sull’isola attraverso il sistema definito “Una Cina, due sistemi”, ovvero su Hong Kong si esercita una giurisdizione particolare, sia dal punto di vista del sistema politico/istituzionale in senso stretto, sia dal punto di vista economico, ovvero vi è minor interventismo e regolamentazione dello Stato sulle forze capitaliste. Tuttavia è pianificato che tali differenziazioni con il resto della Cina vengano gradualmente meno, fino alla conformazione totale prevista per il 2047.
Ebbene, negli ultimi anni, i più cruciali passaggi politici che segnano la strada verso la conformazione totale dell’ex-colonia britannica alla Cina sono caratterizzati da altrettanti passaggi conflittuali più o meno estesi: nel 2014 era stata una riforma elettorale che segnava un maggior intervento centrale nelle elezioni locali a dare il via al movimento. Stavolta, invece, è il turno della cosiddetta legge dell’estradizione, una legge tendente, in sostanza, a conformare il sistema giudizio di Hong Kong a quello nazionale.
La protesta del 2014 cominciò in ambienti accademici e religiosi, assumendo le forme dell’occupazione di strade e altre forme cosiddette di “disobbedienza civile”. Essa si concluse in poco più di due mesi con l’intervento della polizia a sgomberare i blocchi. Recentemente i principali esponenti di quel movimento sono stati condannati fino a un massimo di 16 mesi di detenzione.
Il movimento attuale, invece, sta assumendo forme decisamente più aggressive, accompagnate da una più astuta grancassa mediatica da parte dei media mainstream e dall’interventismo “verbale” condotto delle cancellerie occidentali.
In particolare, il primo luglio – giorno del 22-esimo anniversario della decolonizzazione – alcuni manifestanti sono riusciti ad entrare nell’edificio del parlamento di Hong Kong, cancellandovi i simboli nazionali e affiggendovi di nuovo quelli propri dell’epoca del colonialismo britannico.
È stata, così, fatta piena luce riguardo la vera natura e i veri obiettivi della protesta, che alludono molto più apertamente – rispetto agli eventi del 2014 – ad un ritorno sotto l’ala protettrice dell’imperialismo britannico e invocano apertamente e pericolosamente l’aiuto esterno di quest’ultimo per far precipitare la situazione.
Naturalmente, il Ministero degli Esteri britannico non ha perso occasione per mettere bocca sulla questione, a sostegno della sedicente “lotta per la democrazia”, che starebbe avendo luogo a Hong Kong, scatenando la replica dell’omologo ministero cinese.
Per far venire allo scoperto la strumentalità della vicenda, Pechino pare decisa a ritirare parzialmente o totalmente (per il momento) la legge dell’estradizione; in occasione delle proteste, invece, alcune volte lascia fare i manifestanti (vedi l’occupazione del Parlamento), alle volte ricorre allo strumento delle cariche poliziesche nei loro confronti. Ci sembra un atteggiamento molto maturo e prudente per non dare spazio a strumentalizzazioni ed al complesso delle varie manovre di manomissione diplomatica.
Tuttavia – tanto per essere chiari – la forza repressiva non pare nemmeno paragonabile a quella esercitata, ad esempio, dalla polizia francese nei confronti dei gilet gialli o dalla polizia americana, ogni qual volta è chiamata ad intervenire. Pertanto, gli ipocriti richiami contro la repressione, da parte occidentale, appaiono ancora più fuori luogo ed apertamente strumentali.
In ogni caso bisogna fare attenzione, poiché se le cancellerie occidentali volessero utilizzare quest’occasione per far alzare la tensione, boicottando i passi distensivi in atto in queste ore e, magari – aumentando artatamente la virulenza delle “proteste” – la reazione di Pechino potrebbe avere ben altro tenore e questa situazione potrebbe mutarsi nell’ennesimo focolaio atto ad aumentare la conflittualità internazionale nei rapporti fra le varie potenze globali.
Per tirare le somme, appare evidente che a Hong Kong è in atto un conflitto che ha basi materiali reali: lo stato cinese, man mano che tenta di riassorbire Hong Kong nel proprio sistema, viene in conflitto con i ceti borghesi e medio-borghesi locali che in questi anni hanno accumulato risorse e, di conseguenza, potere e influenza politica in quanto beneficiari dei margini di autonomia dati dal paradigma “Una Cina, due sistemi”.
Tali margini di autonomia li hanno portati ad essere legati più al grande capitale multinazionale straniero che a quello “nazionale” (dove per “nazionale” s’intende quello basato in Cina e sottoposto alla regolamentazione dello stato). Questa forma di conflitto di classe può essere utilizzato dalle grandi potenze occidentali per provare a indebolire quella che, al momento, appare loro come una potenza impenetrabile e in preoccupante ascesa, retta da un sistema per certi versi indecifrabile anche da parte delle loro migliori “teste d’uovo”, da anni obnubilate dal pensiero unico iperliberista, e vieppiù inquietante in quanto si ispira “ancora” al socialismo, ovvero la Repubblica Popolare Cinese.
In questo quadro, con l’auspicio che la situazione non precipiti, è necessario sostenere la piena legittimità della Cina a muovere i passi necessari affinché si giunga alla decolonizzazione completa di Hong Kong, Macao e Taiwan per estirpare radicalmente la mala pianta del colonialismo imperialista!
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