Per due ordini di motivi principali:
a) le esperienze delle crisi passate non sono mai state “metabolizzate” al punto di mettere in discussione i fondamenti delle loro teorie (basate sull’”equilibrio”, per cui la crisi è sempre imprevedibile e comunque frutto di banali “errori di qualcuno”);
b) da quelle esperienze hanno fatto derivate alcune “ricette” da applicare a prescindere, come se tutti gli eventi critici fossero grossomodo uguali.
È la prima impressione che si ricava da questo eccellente editoriale dell’ormai noto – anche ai nostri lettori – Guido Salerno Aletta, pubblicato sabato su Milano Finanza.
Le banche centrali, nella loro forma attuale, sono state imprintate dalla necessità di combattere l’inflazione, ossia l’aumento dei prezzi, soprattutto per la parte derivante da dinamiche endogene come i livelli salariali. Questo è totalmente vero per la Bce, che addirittura nello statuto fondativo ha come unico obbiettivo quello di tenere sotto controllo la dinamica dei prezzi. Lo è invece solo in parte per la statunitense Federal Reserve, che deve invece tener d’occhio anche il tasso di disoccupazione (in teoria, visto che i criteri statistici adottati negli USA permettono di ignorare 95 milioni di cittadini yankee che non lavorano, ma vengono classificati come “scoraggiati” perché hanno persino smesso di cercarlo, un lavoro).
Ne deriva che l’orientamento “istintivo” delle banche centrali sia di reagire brutalmente ad ogni aumento dell’inflazione, senza però disporre di strumenti “canonici” per combattere crisi di altro tipo.
È quello cui assistiamo – o meglio, soffriamo – dal 2007. Una crisi esplosa sotto forma di svalutazione drastica di patrimoni finanziari (alquanto fantasiosi, nella loro origine), che ha portato con sé svalutazione di molte attività economiche direttamente produttive e dunque deflazione. Ossia il “nemico” opposto a quello che i banchieri centrali erano pronti o abituati a combattere.
Non a caso, tutto quel che è stato messo in campo per salvare il sistema finanziario occidentale (coincidente all’epoca con quello globale) è stato classificato come “strumenti non convenzionali”, ossia cose che è necessario fare ma che non debbono essere considerate solo per questo “teoricamente corrette”.
Emerge certo una differenza di impostazione tra Fed e Bce (più “politica”, ossia elastica la prima, più “robotizzata” la seconda), ma in entrambi i casi è diventata più difficilmente sostenibile la famosa “indipendenza delle banche centrali”. Per il buon motivo che quella indipendenza aveva il suo precario fondamento nel disinteresse delle classi politiche per la lotta all’inflazione e politiche di bilancio basate sui tagli di spesa (guardando ovviamente al consenso elettorale a breve termine).
Ma se l’inflazione non riparte neanche a cannonate, come si fa a difendere questa impostazione?
Tassi di interesse a zero (o addirittura negativi, come quelli sui depositi) e “iniezioni di liquidità” immense, durate anni, non hanno modificato la situazione. Hanno tenuto in piedi le borse e la speculazione finanziaria, certamente, garantendo “i liquidi”; ma l’economia reale occidentale, e soprattutto statunitense ed europea, non ne hanno beneficiato neanche un po’.
Ad esempio. Nel secondo trimestre di quest’anno le aziende statunitensi quotate nello S&P 500 – le prime 500 del paese – avranno un calo medio di profitti del 3%, che fa seguito al calo medio dello 0,3% del primo trimestre. Nella tradizione, questa caduta dei profitti dovrebbe far scendere anche i corsi azionari (basati sul rapporto price/earnings, ovvero tra prezzi delle azioni e profitti attesi in futuro). E invece lo S&P vola, segnando nuovi record storici.
Perché? Perché la liquidità in circolazione è enorme, ma non trova un luogo in cui – marxianamente – “valorizzarsi”. Quindi vaga da un titolo azionario a titoli di Stato “sicuri”, gonfiando quotazioni che non corrispondo a qualcosa di solido.
Carta, sotto cui c’è ben poco. Nel frattempo un certo Trump aveva tagliato drasticamente le imposte sui profitti, facendo balzare gli utili negli ultimi tre anni. Ma come ogni droga, l’effetto si spegne con il passare del tempo. Ora questo “stimolo” è venuto meno. Come nel decennio passato (quando negli Usa trionfava il Quantitative easing della Fed), poi il calo delle imposte sui profitti aziendali (con conseguente aumento del debito pubblico) hanno sostenuto il volo di Wall Street. Carta per carta, fare il denaro con il denaro (inesauribile grazie alle banche centrali e ai “prodotti finanziari derivati”).
Ma ogni gioco ha un termine...
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Banche centrali: per garantire la stabilità, l’indipendenza dai Governi non basta
Guido Salerno Aletta
Qualcosa di profondo è già cambiato nei rapporti tra il potere politico e le banche centrali: la crisi americana del 2008 e quella europea che si trascina dal 2010 hanno minato la generale accettazione del principio secondo cui la loro indipendenza rispetto ai governi rappresenta un baluardo sufficiente a garanzia della stabilità, che si identifica nel valore attuale del risparmio accumulato.
Ciò è avvenuto perché è cambiato il parametro di riscontro: mentre a partire dagli anni '70 il problema era rappresentato dal rischio della perdita di valore della moneta nel momento dello scambio economico, ora risiede da quello della perdita di valore degli investimenti finanziari.
Prima il pericolo era rappresentato dalla distruzione del risparmio per via dell’inflazione dei prezzi al consumo, ora risiede in quello di vederlo polverizzato per via della deflazione dei prezzi degli asset in cui è stato investito.
L’inflazione, si diceva, aveva due cause: le spese pubbliche in disavanzo e la monetizzazione del debito: servivano dunque banche centrali realmente capaci di resistere alle pressioni dei governi, senza alcun obbligo legale o morale di finanziarne le spese stampando moneta. Anche il tasso ufficiale di sconto doveva dipendere esclusivamente da una loro decisione, non più condivisa con i responsabili del Tesoro. Questi ultimi, infatti, pur di non rallentare il ciclo ancorché inflazionistico, erano sovente restii a serrare le briglie del credito.
La crisi finanziaria iniziata nel 2008 è invece nata dalla esistenza di squilibri macroeconomici e dunque finanziari internazionali: aree sempre più indebitate come le famiglie americane con i mutui sub-prime, l’intera economia greca ed i sistemi bancari di Irlanda e Spagna hanno fatto default. Ne è seguito il collasso dei mercati finanziari, sacrificando dunque i creditori, nel primo caso; avviando un interminabile processo di aggiustamento interno, nel secondo.
Non essendo stata disposta alcuna forma di dirigismo nei confronti dei mercati, né di vincolo ai movimenti dei capitali o di limite agli squilibri internazionali, le banche centrali hanno usato fino alla esasperazione le due leve in loro possesso, tassi e liquidità. Portando i primi a mai conosciuti livelli negativi e la seconda a quantità senza precedenti.
I risultati strutturali non sono soddisfacenti, perché la crescita dell’economia reale non è mai robusta, ed il rientro dalle politica monetarie accomodanti ha immediate conseguenze negative.
Di qui nasce la pesante inframmettenza della politica: il Presidente americano Donald Trump marca sempre più strettamente l’operato della Fed chiedendo un allentamento delle briglie monetarie, perché non può permettersi una crisi economica in piena campagna per le primarie. In Europa, il Consiglio ha candidato Christine Lagarde, ora Direttore generale del Fmi, alla successione di Mario Draghi al vertice della Bce: anche qui serve una gestione politica, perché l’Eurozona è un progetto alchemico: i mercati hanno accolto la proposta con favore.
Il solo annuncio, invece, della candidatura di un monetarista, o peggio di un ordoliberista, li avrebbero fatti collassare.
È in corso una sorta di deriva di continenti: la placca politica si sta sovrapponendo all’area dominata dalle banche centrali: a volte scivolando silenziosamente, a volte scontrandosi in modo violento.
In passato, ad esempio, gli Accordi di Basilea erano considerati pressoché assorbenti rispetto ad ogni altra normazione statale, e soprattutto venivano considerati intangibili. Dopo la crisi, in Europa c’è stato un proliferare di decisioni, di normazioni e di Autorità indipendenti che hanno reso frastagliato e complessissimo il quadro di riferimento che disciplina la supervisione finanziaria. Operano sui diversi aspetti, cooperando tra di loro, l’EBA (European Banking Authotity), l’ESRB (European Systemic Risk Board), l’ESMA (European System of Market Authority) e l’Eiopa (European Insurance and Occupational Pensions Authority).
Anche all’interno della Bce, la funzione relativa alla vigilanza prudenziale sulle istituzione bancarie sistemiche ha avuto una fisionomia ed una autonomia peculiare.
Commissione e Parlamento europeo hanno detto la loro sul sistema unificato delle risoluzioni bancarie (BRRD), sulla garanzia dei depositi, sui meccanismi di sostegno alle banche in difficoltà. Sono tutte questioni profondamente politiche, perché i fondi per i salvataggi bancari sono sempre rivenienti dagli Stati, anche se gestiti sulla base di Accordi internazionali, come l’ESM. A contribuire ai salvataggi ed a garantire il rimborso dei prestiti internazionali sono sempre i cittadini. E sono loro a rischiare i risparmi: come azionisti delle banche, come sottoscrittori di obbligazioni bancarie, o come semplici depositanti. Per non parlare dei debitori, che sono i primi ad essere messi alle strette dalle banche quando le acque si increspano appena.
Le scelte politiche europee in materia di supervisione finanziaria sono state completamente diverse rispetto a quelle americane: è stata seguita la consueta strategia della robotizzazione, fatta di divieti automatici e di procedure blindate.
La seconda Comunicazione della Commissione sugli aiuti di Stato alle banche e la direttiva sulle risoluzioni bancarie (BRRD) hanno azzerato i margini di gestione delle crisi bancarie da parte delle banche centrali e degli Stati. C’è una sorta di pilota automatico che ha portato a conseguenze aberranti: in Italia, i casi delle quattro piccole banche locali, del Monte dei Paschi di Siena e delle due banche venete, sono degni di essere inseriti nelle museo degli orrori.
Si rimpiange il passato: anche di fronte a situazioni di crisi gravissime, dal Banco Ambrosiano al Banco di Napoli, la Banca d’Italia ed il Tesoro cooperarono in modo assai efficiente, con soluzioni articolate e di volta in volta diverse, e con ricadute mai negative per le finanze pubbliche ed i depositanti.
Negli Usa, con la Dodd-Frank, si è puntato al coordinamento di tutte le istituzioni federali sotto la guida del Segretario al tesoro. Questi presiede il Financial Stability Oversight Council, di cui fanno parte tutti i vertici delle istituzioni di regolamentazione e sostegno finanziario, compresi i Presidenti del Fed, della Sec e della Cftc. In tutto, dieci membri. La presidenza affidata al Segretario al tesoro non è simbolica: per due categorie di decisioni, eccezionali e fortemente discrezionali (condurre nell’alveo della vigilanza tradizionale taluni operatori finanziari non bancari e di sottoporre ad una normativa prudenziale avanzata determinati soggetti bancari e non bancari), non solo è necessaria la maggioranza dei due terzi del Consiglio, ma è indispensabile il suo voto favorevole.
Sono decisioni di alta amministrazione, cui è possibile opporsi giudiziariamente solo per eccepire, come unico possibile vizio, il fatto che la decisione sia arbitraria ed assunta per mero capriccio. In pratica, i giudici non possono intervenire sulla ragionevolezza della decisione, che sarebbe comunque opinabile, ma solo sull’abuso del potere. Discrezionalità assoluta in America, quindi, condizionata per giunta dalla posizione favorevole del Segretario al Tesoro. La legge di riforma ha superato l’impostazione tradizionale, secondo cui il raccordo e la dialettica tra Tesoro e Fed sarebbero sufficienti ad assicurare la stabilità dei mercati finanziari: il ruolo della politica è divenuto chiaro e condizionante.
Si è confermato invece il principio democratico della responsabilità diretta dell’Amministrazione nei confronti del Congresso: i dieci componenti del Consiglio, dal Segretario al Tesoro ai vertici degli apparati tendenzialmente indipendenti dall’Esecutivo, compresa la Fed, devono riferire annualmente al Congresso, singolarmente. Non c’è infatti una relazione complessiva del Consiglio, né tanto meno sono ammesse opinioni dissenzienti: ognuno deve firmare una propria dichiarazione, in cui afferma che si sono compiuti tutti i passi necessari per riportare la stabilità sui mercati oppure denuncia chiaramente le carenze riscontrate e le azioni che dovrebbero essere intraprese.
I tweet con cui Donald Trump contesta da mesi la linea di politica monetaria restrittiva del Governatore della Fed Jerome Powell non hanno fatto altro che anticipare ciò che costui ha dovuto appena riconoscere parlando al Congresso: “I venti contrari aumentano. La Fed agirà in modo appropriato per sostenere l’espansione”.
I politici agiscono d’istinto, sentono l’umore del popolo. I banchieri centrali, per parlare e per decidere, ormai hanno bisogno di numeri probanti, di statistiche, di previsioni convalidate: si sono legati, anche loro, ad un sistema robotizzato da cui non possono uscire se non di fronte a situazioni eccezionali.
Lo fece Mario Draghi il 26 luglio 2012 a Londra, promettendo ai mercati che avrebbe fatto “whatever it takes” per evitare il collasso dell’euro. Prese una decisione politica, e salvò innanzitutto la autonomia della Bce da una fine assai ingloriosa.
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