Nelle ultime settimane il dibattito pubblico si era concentrato sullo scontro tra il governo e le ONG.
E così Carola (alla quale naturalmente va tutta la solidarietà per il coraggio e la coerenza mostrata, così come a quelle ONG che non essendosi trasformate in imprese multinazionali svolgono davvero una funzione sociale) è divenuta suo malgrado una eroina osannata dal mondo della c.d. “sinistra” nelle sue varie articolazioni.
Sulle navi umanitarie sono saliti (non solo fisicamente, ma anche e soprattutto politicamente) davvero in tanti: anche quel ceto politico alla deriva che, dopo essersi inimicato strati sempre più ampi della popolazione attraverso politiche che hanno distrutto il welfare e sdoganato le peggiori pulsioni securitarie, prova ora a prendere l’ultima nave utile per mettere in campo una operazione di maquillage politico condita di antirazzismo (e antifascismo) di facciata.
Ma al di là della strumentalità e dell’opportunismo di alcuni personaggi del PD e affini, quello che più è interessante è la riflessione che la vicenda ONG ha prodotto e sta producendo in alcune aree di movimento. Qualcuno si è spinto a sostenere che gesti esemplari come quelli di Carola e in generale delle navi umanitarie potrebbero alimentare la costruzione di una soggettività antagonista contrapposta al governo. La tesi appare francamente poco convincente...
C’è in realtà qualcosa di profondamente perverso, se di volta in volta ci si deve affidare al salvatore della patria di turno.
Il campo di gioco
Non c’è dubbio che Salvini faccia spesso ricorso ad iniziative e a spericolate incursioni istituzionali volte a distrarre l’opinione pubblica e a rubare la scena.
In fondo anche il recente vertice al Viminale con i sindacati, al di là della palese scorrettezza istituzionale, sembra costruito ad arte per allontanare l’attenzione dal caso dei fondi russi.
Il campo di gioco preferito è però senza dubbio quello dell’immigrazione.
Ogni qualvolta le contraddizioni e le chiacchiere del governo si scontrano con la realtà, ogni qualvolta la cialtroneria rischia di mostrarsi per quella che è, puntuale come un orologio svizzero si ripropone il tema dell’immigrazione: questa volta nella sua declinazione dello scontro con le ONG, o meglio con un certo tipo di ONG.
E così, mentre Salvini sbraitava contro le navi umanitarie, coprendo di insulti Carola, andava in onda l’ennesima capitolazione del governo giallo verde alle imposizioni provenienti dalla governance europeista attraverso una manovra di aggiustamento che, a garanzia dei conti pubblici, si impegna a congelare i risparmi provenienti dal reddito di cittadinanza e da quota 100.
Non c’è dubbio che se l’avversario costruisce la sua narrazione imponendo un terreno di gioco, vuol dire che ha valutato estremamente conveniente che la partita si giochi all’interno di quel rettangolo. Ed infatti i sondaggi, per quel che contano e sempre tenendo conto dell’estrema volatilità dell'elettorato, registrano l’ennesima avanzata della Lega anche e soprattutto dopo la vicenda ONG.
Nulla di cui stupirsi: la vicenda ONG provoca fibrillazioni strumentali in quel ceto politico della “sinistra” che prova a riaccreditarsi e ricollocarsi, incontra (giustamente) la complicità di un’area di militanti, attivisti e sinceri democratici, ma certamente non scalfisce le coscienze dei ceti popolari.
Certamente non si può ignorare che vi sia una parte del paese che si trova estremamente a suo agio nella narrazione autoritaria e razzista che i precedenti governi e l’attuale hanno costruito in questi anni.
Ma egualmente non si può ignorare che vi sia una intera generazione che per la prima volta immagina un futuro addirittura peggiore del già misero presente e si sente, sul fronte del lavoro e del welfare, in competizione con gli ultimi verso i quali indirizza il proprio odio sociale. Si tratta di una constatazione amara, ma drammaticamente attinente alla realtà.
Dinanzi a questo scenario, la questione che si pone va ben oltre il tema dell’immigrazione come elemento di distrazione abilmente adoperato dal governo (che pure ha un suo fondamento), ma rimanda al tema ben più profondo della relazione col blocco sociale.
Non si tratta, quindi, di rinunciare ad una battaglia necessaria che contrasti l’imbarbarimento e la deriva autoritaria che attraversa il nostro paese ma, al contrario, si tratta di inquadrarla nei giusti termini, scongiurando il pericolo di un “frontismo antirazzista” con alla testa proprio chi ha determinato quelle condizioni con le quali oggi ci misuriamo.
In questo contesto ritenere che gesti esemplari di disobbedienza possano determinare quella necessaria inversione di tendenza appare piuttosto ingenuo e sganciato dalla realtà.
Politicizzazione dell’umanitario
È la tesi maggiormente sostenuta da certe aree di movimento. In sintesi il ragionamento è il seguente: il tema umanitario è divenuto terreno di conflitto e di conseguenza la politicizzazione dell’umanitario costituirebbe una condizione per la politicizzazione della società.
E qui forse si gioca l’equivoco maggiore, e non solo per le ragioni che illustravo prima e per la cattiva compagnia che affolla il fronte antirazzista.
La fuoriuscita dell’umanitarismo dalla sfera delle compatibilità, l’impossibilità di contemplare pulsioni umanitarie all’interno di un modello di sviluppo fondato sulla diseguaglianza e sullo sfruttamento, è l’effetto di politiche che da decenni, e con una spaventosa accelerazione dopo l’esplosione della crisi, hanno distrutto qualsiasi visione collettiva e solidale. Ciò, è bene tenerlo a mente, non avviene solo nel nostro paese, ma è un processo dalle dimensioni ben più ampie.
Uno scrittore francese del ‘600 diceva che l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù. Diciamo che per un certo periodo la democrazia c.d borghese – per pudore, per opportunità, per differenti rapporti di forza – si era data o era stata costretta a darsi, dei limiti che non potevano essere valicati o che almeno per opportunità era meglio non valicare.
Ciò non vuol dire che la disumanità non sia sempre stata presente nelle società capitaliste, ma era in un certo senso considerata un tabù da non infrangere, se non in ambienti particolarmente reazionari e fascistoidi.
Quel velo di ipocrisia, quel tabù è ora venuto meno: il vizio non deve più rendere omaggio alla virtù, semplicemente perché il vizio non è più percepito come tale e per la virtù lo spazio si è esaurito.
Questa deriva valoriale si avvale di una comunicazione mediatica bipartisan agghiacciante: l’”aiutiamoli a casa loro” ha costituito il mantra dell’ex Ministro Minniti per imporre alle ONG il codice di autoregolamentazione e per siglare accordi con i quali si concedevano alle “proprie” fazioni libiche soldi, armi e motovedette per allontanare dai nostri occhi le stragi del Mediterraneo; fino ad arrivare al tristemente noto “devono sparire, peggio per loro, se tirano qualcosa spezzategli un braccio” pronunciato da un funzionario di polizia durante le cariche in piazza Indipendenza, nell’estate di due anni fa.
Linguaggio, e qui il campionario sarebbe infinito, e pratiche, vedi il recente sgombero di Cardinal Capranica, prontamente ripresi dall’attuale vice premier.
Ma questa comunicazione è stata ed è funzionale ad una produzione normativa che ha spazzato via la retorica umanitaria semplicemente perché l’umanitarismo era l’effetto collaterale (positivo) di un modello sociale che, fino a qualche decennio fa, garantiva o tendeva a garantire un sistema di tutele e protezione sociale.
Affermatosi prepotentemente l’inderogabile dispositivo europeista fondato sull’abbattimento del debito, sul pareggio in bilancio e quindi sul taglio della spesa sociale, rotto quel modello sociale solidale fondato sulla Costituzione, si è imposta una visione cinica, spietata e individualista all’interno della quale l’umanitarismo non ha più diritto di cittadinanza.
Il passaggio dallo stato sociale allo stato penale, il passaggio dall’umanitario (certo con tutta l’ipocrisia del caso) al disumano urlato ai quattro venti in quanto produttivo di consenso sociale, l’attrazione nell’orbita penale persino del salvataggio di gente in mare, si inscrivono esattamente dentro questo processo.
Il nodo ineludibile
Se i diritti sociali (istruzione, pensioni, sanità, casa) non sono esigibili perché comporterebbero investimenti e risorse economiche precluse dai Trattati Europei, se la crisi viene spoliticizzata e le ricette economiche presentate come risposte tecniche inevitabili, se uno Stato viene spoliato della sua vocazione sociale, resta soltanto la barbarie culturale e politica di un “diritto” che diviene semplicemente affermazione del più forte.
È questo il vero nodo da affrontare all’interno di una battaglia politica che si annuncia lunga e complessa e che non può non passare attraverso il tentativo di riconnettere sotto un’unica bandiera quel campo sempre più largo degli sfruttati (indipendentemente dal colore della pelle) che da decenni subiscono gli effetti devastanti della globalizzazione liberista e che, a torto, oggi si affidano a qualsiasi soluzione presentata come immediatamente disponibile.
Una proposta politica autonoma e indipendente che scardini la narrazione salviniana e la sua finta opposizione e provi a ricomporre la frammentazione sociale rimettendo al centro il tema delle diseguaglianze sociali e del diritto al welfare, a partire da una ipotesi di rottura dei trattati europei che quei diritti hanno reso indisponibili, è certo operazione non facile.
Ma farsi illusioni è deleterio: non ci sono scorciatoie o gesti esemplari che possano by-passare questo nodo fondamentale o riscattare decenni durante i quali le politiche liberiste hanno scavato il solco tra il nostro mondo e le istanze popolari.
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