Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

26/07/2019

I nodi della fase politica della “Global Britain”

Boris Johnson è entrato ieri al numero10 di Downing Street.

Ex sindaco di Londra dal 2008 al 2016 e poi ministro degli esteri dal 2016 al 2017, ha coronato martedì la su carriera politica ottenendo il 66% dei voti dei 159.000 membri dei tories, contro il 34% del suo avversario, il ministro degli esteri conservatore, Jeremy Hunt.

Grazie alla maggioranza ottenuta, Johnson diventa Primo Ministro britannico, a seguito delle ripetute bocciature parlamentari dell’accordo la UE negoziato da Theresa May, che aveva annunciato il 25 maggio le proprie dimissioni, operative dal 7 giugno.

Era stato il successo del partito “eurofobo” UKIP di Nigel Farage alle elezioni europee del 2014 a convincere l’allora premier David Cameron a prendere la decisione fatale – per la propria carriera politica – di indire un referendum sulla UE.

Così il 17 dicembre del 2015 viene dato via libera all’European Union Referendum Act, che autorizzava una consultazione popolare sulla permanenza del Regno Unito nella UE.

Nel giugno dell’anno successivo – il 23/6/2016 – il Leave vinse di misura sul Remain, e nelle elezioni anticipate volute da Cameron per l’8 giugno 2017 i conservatori perdono la maggioranza e per governare hanno bisogno degli “unionisti” nord-irlandesi.

Boris Johnson era stato a capo della campagna pro-brexit nel 2016, e poi acerrimo nemico della May intravedendo la possibilità di scalzarla.

La lotta fratricida dentro i tories sullo sfondo di una incapacità a trovare una soluzione ad un chiaro mandato popolare per il leave ha notevolmente screditato i conservatori, mentre non sono pochi coloro che hanno apertamente dichiarato all’interno del partito la propria ostilità al nuovo Primo Ministro e la loro indisponibilità a servire Johnson.

Appena eletto a capo del partito conservatore ha dichiarato che renderà effettiva la Brexit da qui al 31 ottobre: “attuare la brexit, unire il paese e sconfiggere Jeremy Corbyn” sono state le priorità che ha annunciato.

Naturalmente la Brexit non è l’unico dossier di rilievo che dovrà affrontare, considerato il montare della tensione con l’Iran.

Che la maggioranza dei 160.00 membri di un partito che esce dalle elezioni europee con un misero 9%, composto per il 97% da bianchi, per quasi tre quarti da uomini di cui i due terzi sopra i 65 anni, con l’opposizione che da tempo chiede elezioni anticipate vista l’incapacità dei tories tra l’altro di gestire la brexit, ed il ora neo premier che non ha scartato l’ipotesi di esautorare il Parlamento, facendone cessare l’attività per imporre un “no deal” – a differenza del suo sfidante Hunt – fornisce la cifra dello stato di salute della tanto decantata democrazia britannica.

La volatilità della rappresentanza politica è ormai un dato che si inscrive nell’ex sistema bipolare britannico un tempo dominato da due partiti storici – da una parte i conservatori e dall’altra i laburisti – di cui le ultime elezioni europee non sono state che l’ultimo esempio, insieme al fatto che i corpi politici sono entrati in crisi – o hanno costruito le loro recenti fortune – sulla questione nodale della brexit.

Il fatto più eclatante di questo “sfarinamento” è la vittoria del Brexit Party alle consultazioni europee dove ha totalizzato 31,6% dei voti, contro il 9% dei tories e il 14% dei laburisti, mentre nel 2017 i due partiti storici avevano raccolto l’80% dei voti.

Bisogna sottolineare un dato: il Brexit Party era stato creato sei settimane prima da Farage proprio per capitalizzare il “voto di protesta” degli elettori britannici rispetto al leave/remain, mentre la sua vecchia formazione – da lui lasciata dopo il voto – non ha eletto alcun degli europarlamentari precedenti, a differenza dei 29 mandati dal Brexit Party a Bruxelles.

Altro dato importante, a parte il successo di alcuni partiti minori – tra l’altro tutti schierati per il remain (come i Verdi e gli indipendentisti scozzesi) – il successo del partito liberal-democratico passato con il 20,3% ad avere 16 eurodeputati a Bruxelles contro l’unico che aveva in precedenza. Il segreto del suo “successo”? La sua posizione chiara rispetto alla brexit, con la proposta di un “secondo referendum” per rimanere nella UE.

Johnson, dunque, era l’unica carta che il partito conservatore poteva giocarsi per cercare di arginare l’ascesa di Farage, recuperando i consensi intercettati dal leader del Brexit Party.

Quale Brexit con la UE?

Durante la sfida alla leadership dei conservatori, sia Johnson che Hunt, non hanno escluso una “hard brexit” e sono stati categorici nell’affermare che il backstop è morto, un chiaro segnale mandato a Bruxelles che non è disposta a trattare e che fa di questo punto – il risultato dei negoziati fatti con la May – una questione dirimente.

D’altro canto la polizza di assicurazione per impedire un ritorno al confine tra le due Irlande è stata uno dei motivi scatenanti delle tre bocciature consecutive da parte del parlamento britannico dell’ipotesi d’accordo concordata tra May e UE.

Come ha scritto Nicoi Degli Innocenti il 17 luglio scorso sul Sole 24 Ore: “Bruxelles ha però messo in chiaro che il backstop è una parte fondamentale dell’accordo e non può essere eliminato. I sostenitori più moderati della brexit speravano quindi di trovare un compromesso accettabile, mantenendo il backstop ma modificandolo, ad esempio stabilendo una scadenza temporale o concedendo a Londra il diritto unilaterale di uscire per assicurare i conservatori che il Regno Unito non sarebbe stato “intrappolato” ad oltranza nel mercato unico”, ma per l’appunto la risposta dei due aspiranti leader è stata secca.

I margini a Bruxelles sembrano piuttosto ridotti, anche a causa della scarsa fiducia che riveste il personaggio per alcune sue affermazioni passate che hanno lasciato il segno – come quella di non voler pagare il debito del suo paese con l’Unione quantificabile in 40/45 miliardi di Euro – ed in generale per le sue “gesticolazioni” che come ha affermato entusiasta Orange Man stesso ne fanno il “Trump britannico”.

“Tutt’al più potremmo accordarci per una dichiarazione politica per una relazione futura” dichiara un anonimo diplomatico a “Le Monde” in un articolo che mette ben in chiaro l’intento di Bruxelles a non rinegoziare.

Ieri, intanto, era previsto che si incontrasse al parlamento europeo in una riunione straordinaria il gruppo che segue la Brexit con il capo-delegazione Michel Barnier: “per rispondere all’elezione di Boris Johnson” come ha dichiarato il suo presidente, il liberale belga, Guy Verhonfstadt.

L’unica che ha mostrato una qualche apertura – sul solco della minore intransigenza mostrata dalla Germania rispetto alla Francia – è stata Ursula Von Leyn nei giorni scorsi, che non ha atteso formalmente la presa dei propri incarichi come presidente della Commissione Europea per dirsi pronta ad accordare un nuovo rinvio di Londra oltre il 21 ottobre – se i britannici avanzassero “buone ragioni” (senza precisare quali) – probabilmente intendendo nuove elezioni (un azzardo per Johnson, ma all’interno degli scenari possibili), un nuovo referendum, o una modifica altamente improbabile delle “linee rosse” britanniche.

“Sconfiggere Jeremy Corbyn” e la sfida laburista

Dietro la Brexit, come abbiamo più volte ricordato, si gioca una partita politica importante, considerato che è lo stesso establishment britannico ad essere spaccato rispetto a quale relazioni intrattenere con i maggiori global player mondiali: UE, USA e CINA.

Una cosa è chiara per tutte le frazioni della borghesia: l’inimicizia nei confronti di Jeremy Corbyn e dei laburisti, e il terrore panico che nuove elezioni anticipate possano vedere il successo della formazione che ha ormai gettato alle ortiche i retaggi dell’esperienza del “New Labour” del criminale di guerra Tony Blair, nonostante il rilevo che a diverso titolo gli fornisce la sinistra liberal continentale, tra cui quella italiana.

Fino ad ora tutte le armi usate contro la leadership di Corbyn sono risultate frecce spuntate – l’ultima campagna contro il suo presunto antisemitismo si è risolta in un fiasco nonostante la veemenza dei toni e le narrazioni tossiche diffuse.

Così come sono risultati infruttuosi i tentativi di “spaccare” il Labour o di fare esprimere chiaramente la sua leadership per il remain, o per il pronunciamento di un nuovo referendum come priorità politica.

Fino adesso, Corbyn ha mantenuto – nelle sue esternazione e nelle comunicazione agli aderenti al Labour – la bara dritta sulla richiesta di elezioni anticipate, e la propria contrarietà sia a un “no deal” che ad una “tory brexit”. Ad una mail inviata agli aderenti al partito ha affermato ad inizio luglio:

Chiunque diventerà primo ministro dovrebbe avere la fiducia di presentare il suo accordo, o no deal, agli elettori in un voto pubblico. In questa circostanza, voglio mettere in chiaro che il partito laburista farebbe campagna per restare e contro un no deal o un accordo conservatore che non tutela economia e posti di lavoro”.

Sempre Corbyn lascia aperta la possibilità di presentarsi alle elezioni con un manifesto che proponga una brexit laburista, invece di un secondo referendum.

Il “compromesso laburista” proposto da Corbyn viene ribadito, sempre nella mail: uscire dalla UE, restando in una unione doganale, allineati alle regole del mercato unico, e alle tutele ambientali ed in ambito di diritti del lavoro.

È chiaro che l’ordine del discorso del leader laburista è figlio di un difficile punto di equilibrio tra le sue convinzioni euroscettiche, la base del Labour che ha votato in massa per la Brexit, e le anime organizzative del partito, tenendo presente l’immagine che vuole comunicare di una forza politica responsabile in grado di prendere in mano le redini del paese.

Il posto della Gran Bretagna nel mondo

Come accennavamo la partita importante si gioca su ciò che sarà la politica estera del Paese: se si allineerà agli Stati Uniti – come sembra far presagire l’orientamento filo-atlantico del nuovo inquilino del numero 10 di Downing Street (e la mancata difesa del dimissionario ambasciatore britannico negli USA per le sue affermazioni esplicitamente critiche nei confronti di Trump in comunicazioni interne “filtrate” alla stampa) – o manterrà e amplierà il rapporto economico con la Cina per cui era diventato il maggior partner europeo,  oppure troverà il modo di riconfigurare anche dopo la Brexit un rapporto privilegiato con l’UE magari con un trattato di libero scambio?

In questo scenario pieno di incognite, con un establishment diviso a seconda del settore di cui è parte, vogliamo concludere focalizzandoci sul rapporto Gran Bretagna-Cina, foriero di scontri aspri all’interno dei tories stessi.

Sebbene sia chiaro che solo dopo la conclusione della vicenda della Brexit sarà configurabile il rapporto esatto con la Cina, tra cui un possibile trattato di libero scambio – auspicato da alcuni – vi sono alcune evidenze empiriche delle relazioni anglo-cinesi.

Il 17 giugno il vice-presidente cinese Hu Chunhua era in visita a Londra per un programma di cooperazione economica, ricevuto cordialmente da Philip Hammond, cancelliere dello scacchiere e strenuo avversario di Johnson, sul solco dell’era d’oro delle relazioni anglo-cinese inaugurate dal suo predecessore George Osborne nel 2015.

Nel bel mezzo del conflitto Cino-statunitense su Huawei, il governo britannico aveva di non sanzionare le attività della multinazionale, con British Telecom e Vodafone che hanno utilizzato i suoi prodotti nella rete G5 prossima all'inaugurazione. L’azienda cinese con i suoi 1.600 dipendenti e i laboratori di ricerca a Cambridge è un attore di peso in Gran Bretagna.

Un altro settore fondamentale è quello dell’energia nucleare, dove un reattore EPR di ultima generazione è in costruzione da parte di EDF – la società energetica francese – finanziato per un terzo dal colosso cinese CGN, con una quarantina di ingegneri cinesi costantemente presenti nel sito.

La compagnia cinese dell’atomo, la CGN appunto, vuole costruire un proprio reattore con tecnologia indigenza ad un centinaio di km da Londra, sperando di ottenere il nulla osta dall’autorità di sicurezza britannica nel 2021.

Tecnologia della comunicazione e energia atomica, non proprio “pizza e fichi” quindi...

Nel 2015 la Gran Bretagna è stato il primo paese occidentale a partecipare alla Banca di Investimenti Asiatici per le Infrastrutture – il “braccio finanziario” tra l’altro del progetto della “Nuova Via della Seta”.

Dal 2000 al 2018, la Cina ha investito 55 miliardi di dollari in Gran Bretagna, due volte più che in Germania e tre volte più rispetto alla Francia, piazzandola come primo paese per gli investimenti cinesi in UE.

Per ciò che concerne il commercio, la Cina è il quinto partner commerciale del Regno Unito, dietro la Francia ma davanti l’Irlanda.

Ma è nel settore finanziario che il progetto anglo-cinese sta prendendo le forme più rilevanti, con la creazione di un ecosistema borsistico, in cui la City aspira ad essere il principale centro finanziario straniero per la valuta cinese, dopo esserlo stata per il Dollaro e l’Euro.

L’accordo tra le Borse di Shangai e quella di Londra firmato a giugno dopo 4 anni di lavoro ufficiale permetterà alle aziende britanniche di accedere direttamente alle piattaforme borsistiche cinesi e viceversa mente ad oggi tale ruolo era limitato alla borsa di Hong Kong.

Se non poche sono state le difficoltà e siamo solo ai primordi della costruzione, oltre all’instabilità che caratterizza in generale il mondo della finanza e alla preferenza cinese per una più rigida governance del settore, le basi sono state gettate per sviluppi che staranno in buona parte alla volontà politica britannica di portarle avanti.

Il mondo multipolare impone delle scelte e sull’orientamento di politica estera della Gran Bretagna si gioca il futuro della Global Britain...

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento