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“Gigante economico, nano politico, verme militare”. Così fu definita nel 1991 la costituenda Unione Europea dall’allora Ministro della Difesa belga Mark Eyskens.
Sebbene questo giudizio rimanga sostanzialmente valido, sono in atto importanti cambiamenti nella cooperazione europea nel settore degli armamenti. Il presente lavoro esaminerà il processo di «europeizzazione» dell’industria militare iniziato sul finire degli anni '90. Da allora, infatti, assistiamo ad una dinamica di concentrazione e integrazione internazionale dell’industria militare europea, mediante l’instaurazione di una fitta trama di collaborazioni tra imprese, alleanze strategiche e F&A transnazionali.
Si tratta di un processo di ristrutturazione produttiva graduale e contraddittorio, guidato da una duplice esigenza: da un lato, le imprese militari spingono verso l’integrazione industriale e dei mercati per dotarsi delle dimensioni adeguate a rilanciare la propria competitività e fronteggiare la crescente concorrenza internazionale, sia da parte statunitense sia dei produttori emergenti; dall’altro, i governi nazionali sono spinti a collaborare per minimizzare i costi di acquisizione degli armamenti e potenziare le rispettive capacità militari, in un mondo sempre più competitivo e conflittuale.
Tali esigenze hanno portato primariamente alla formazione – tutt’oggi in fieri – di un «complesso militare-industriale» europeo sempre più integrato e capace di stabilire una propria divisione internazionale del lavoro.
Questo, a sua volta, è stato il punto di partenza per la lenta e faticosa costruzione di una politica degli armamenti dell’Unione Europea (definita «Europa della difesa»), con l’introduzione di importanti elementi di istituzionalizzazione e comunitarizzazione della cooperazione interstatale in questo settore, nel senso di un’espansione dei poteri delle istituzioni sovranazionali in materia, per quanto ancora circoscritti dal livello decisionale intergovernativo che mantiene l’ultima parola.
Infine, la crisi economica strutturale esplosa nel 2008 ha ulteriormente inasprito il quadro della competizione internazionale ed indebolito le capacità militari europee sotto il profilo finanziario, stimolando una rilevante accelerazione nella costruzione dell’«Europa della difesa», culminata nel 2016 con l’adozione dell’European Defence Action Plan, che introduce finanziamenti europei per gli Stati disposti a collaborare nella ricerca e sviluppo di nuovi armamenti, nonché l’esclusione delle spese militari dal Patto di Stabilità.
Un’inversione di tendenza epocale rispetto al passato, che vede la Ue promuovere vere e proprie politiche di «keynesismo militare», considerate vettori di crescita economica. (2)
Il primo capitolo tratterà i caratteri generali della ristrutturazione industriale a partire dalla fine della Guerra Fredda in Europa e Usa. Il secondo analizzerà l’integrazione sul lato dell’offerta e la formazione del «complesso militare-industriale» europeo. Il terzo, infine, si concentrerà sull’integrazione sul lato della domanda e sulle specifiche politiche adottate dagli Stati membri e dalle istituzioni Ue allo scopo di approfondire la collaborazione interstatale e superare la frammentazione dei mercati lungo linee nazionali (verso un European Defence Equipment Market pienamente integrato).
In particolare, si vedrà come la cooperazione interstatale in questo ambito sia stata progressivamente riassorbita nel quadro politico-istituzionale dell’Unione Europea, con i suoi peculiari dispositivi di governance sovranazionale e meccanismi di scomposizione e ricomposizione gerarchica degli interessi nazionali.
L’«europeizzazione» dell’industria militare, infatti, deve essere considerata come una fase avanzata dei processi di concentrazione e centralizzazione transnazionale del capitale, che ridefiniscono costantemente la divisione internazionale del lavoro all’interno della Ue, scomponendo l’unità dei mercati nazionali per poi reintegrarli in un sistema economico compiutamente europeo, nel quale si inasprisce la specializzazione produttiva e, quindi, le gerarchie tra nuovi centri e nuove periferie produttive lungo filiere del valore trasversali alle frontiere nazionali.
Se il carattere di classe di tale processo è evidente nelle pressioni per liquidare i diritti sociali passibili di ridurre l’intensità del lavoro, la sua natura imperialista si manifesta sia nei rapporti col mondo esterno sia nel Mercato Interno, dove la libera circolazione del capitale, in presenza di forti differenziali di produttività, permette di sfruttare i differenti saggi di profitto presenti nell’area, con una redistribuzione del valore prodotto dalla periferia (orientale e balcanica) e dalla semi-periferia (mediterranea) verso il centro (mitteleuropeo e carolingio). (3)
Ciò rende l’Unione Europea qualcosa di più di un processo di specializzazione economica internazionale e qualcosa di meno di un “super-Stato” sovranazionale.
L’Ue rappresenta, semmai, un dispositivo istituzionale di coordinamento politico ed economico necessariamente gerarchico, che assume la forma di un complesso sistema istituzionalizzato di mediazioni politiche e sociali, articolato su molteplici livelli: istituzioni sovranazionali, Stati-nazione, amministrazioni regionali, compagnie transnazionali, piccole e medie imprese e gruppi di pressione europei.
Con questo non si vuole certo negare la presenza di contraddizioni tra i vari capitalismi nazionali o tra questi e le frazioni monopolistiche del capitale europeo. Piuttosto, si intende sostenere che ogni antagonismo tra “interessi nazionali” deve essere risolto nel quadro della “dominanza” del capitale transnazionale europeo; il che significa che ogni altra formazione capitalistica nazionale opera in un rapporto di dipendenza organica dal capitale europeo all’interno dei processi di internazionalizzazione: «Alla base di tali complessi processi, troviamo da una parte gli interessi dell’impresa capitalista, dall’altra, gli sforzi degli Stati-nazione finalizzati alla salvaguardia delle condizioni di riproduzione di questi capitali, in congiunzione con la specifica posizione gerarchica di ciascun paese all’interno dell’Unione europea».(4)
Sebbene l’«Europa della difesa» sia indubbiamente funzionale al consolidamento di un «polo imperialista europeo» autonomo anche in termini militari, va chiarito che la prospettiva attuale non è quella di creare un “esercito europeo” integrato.
Le accelerazioni in corso riguardano la produzione di armamenti da un punto di vista soprattutto di competitività industriale e coincidono solo parzialmente con un più ampio progetto strategico. Lo sviluppo comune di capacità militari (allo scopo di migliorare l’efficienza produttiva e la profittabilità) non ne implica un uso altrettanto comune: restano gli Stati membri a determinare le modalità di utilizzo delle proprie Forze Armate (in un contesto di ampie divergenze di interessi strategici e geopolitici nazionali). (5)
Analogamente, l’«Europa della difesa» non si pone immediatamente in conflitto con la Nato, ma in complementarità, pur rafforzando oggettivamente il potere degli europei in seno all’alleanza. Ciò nonostante, non si può escludere che, in futuro, la gerarchizzazione implicita nei processi di concentrazione europea del capitale militare-industriale non costringa gli Stati anche ad una maggiore convergenza politico-militare.
Il “Documento di riflessione sul futuro della difesa europea” delinea tre possibili scenari futuri, che spaziano da una semplice cooperazione circoscritta ad una Ue concepita come «stratega unitario», in cui le Forze Armate statali sono «disponibili permanentemente per un dispiegamento rapido a nome dell’Unione» e lo sviluppo di capacità militari viene finanziato congiuntamente. La situazione attuale si attesta, per ora, sullo scenario intermedio, basato sullo sviluppo congiunto delle sole «capacità essenziali», intese come “bene comune” di tutti gli Stati membri.
Note:
(1) Non solo, infatti, l’UE si presenta come un attore politico tutt’altro che coerente sulla scena internazionale ma, alla prova dei fatti, anche la capacità di proiezione militare dei suoi Stati membri oltre i propri confini si è dimostrata alquanto deludente, soprattutto se paragonata alla potenza dell’alleato statunitense. L’influenza dell’Ue nel mondo si è manifestata, piuttosto, come imperialismo economico verso i paesi post-comunisti est-europei e nella dimensione del soft power, esercitato dagli Stati o singolarmente – spesso in reciproca competizione – o da aggregazioni a geometria variabile costruite a seconda delle convergenze di interessi di volta in volta definite.
(2) Secondo uno studio promosso dalla stessa Ue, le industrie militari dei Paesi europei prese produrrebbero per ogni euro investito un ritorno di 1,6 euro in termini di occupazione specializzata, ricerca, tecnologia ed esportazioni.
(3) Cfr. Carchedi B. – Carchedi G., “Contradictions of European integration”, in Capital & Class, Vol. 23, Issue 1, 1999, pp. 119-153; Carchedi G., For another Europe: a class analysis of European economic integration, Verso, 2001.
(4) Cfr. Sakellaropoulos S., “On the Class Character of the European Communities/European Union: A Marxist Approach”, in Science & Society, Vol. 81, Issue 2, 2017, pp. 220-247.
(5) Non esiste una dottrina strategica comune, mentre gli Stati agiscono militarmente in ambito Nato piuttosto che mediante le forze multinazionali europee già costituite (finora attivate per interventi specifici e circoscritti).
Fonte
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