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22/07/2019

Bolsonaro “suave” e contro-rivoluzione in Ecuador: paradossi sudamericani (1°parte)


Jair Bolsonaro, dopo la sua ampia vittoria elettorale, sembra essersi emancipato dalla truculenza classica fatta di toni e pose minacciose.

Forse l’attentato che lo ha menomato gravemente prima del voto, ha contribuito a calmarlo, oppure una regia accorta lo sta indirizzando da dietro le quinte.

Sta di fatto che la nuova amministrazione segue una linea “morbida” incentrata sulla riforma previdenziale, tuttora sotto esame in Parlamento, con una timida apertura alle quote rosa.

Le pecche più grandi rimangono però intatte, antecedenti alla sua elezione: lo strapotere del Supremo Tribunale Federale (STF) i cui membri più autorevoli sono pressoché tutti coinvolti nella corruzione dei politici, e l’esasperato neoliberismo, che infierisce sulla questione indigena e ambientale.

Una tragedia duplice, in un contenitore unico.

Il nuovo presidente incassa comunque una vittoria storica: l’accordo commerciale tra Mercosul e Unione Europea, che dovrebbe portare al Brasile un incremento del PIL pari a 336 miliardi di reais in 16 anni, in cambio dell’impegno del Paese nel rispetto degli accordi di Parigi sull’emissione dei gas-serra. Un accordo ottenuto dopo un duro scontro tra Bolsonaro e Macron, aspramente contestato da Greenpeace, che prevede invece un peggioramento del quadro generale.

Una riforma controversa: cui prodest?

La riforma pensionistica è una sorta di Fornero brasileira con una variante “pentastellata” anti-vitalizi: si propone di adeguare il sistema previdenziale a un Paese che, sulla falsariga italiana, sta soffrendo di bassa natalità e maggiore aspettativa di vita degli anziani. E soprattutto, di uniformare le aliquote per il calcolo delle pensioni del lavoratore ordinario e del servitore dello Stato, a quelle dei militari, i quali adesso percepiscono, insieme a politici e magistrati, un tetto che varia dai 30.000 ai 60.000 reais annuali, equivalente a 6.880/13.760 euro (1 eur = 4,36 R$) mentre “gli altri” arrivano solamente a 3.600 R$ max.

Il limite dovrebbe essere fissato a 5.600 R$ (1.284 euro) per tutti, una somma esigua per privilegiati che vedrebbero dimezzate le loro pensioni d’oro almeno due volte! Ovviamente le resistenze a livello parlamentare, così come nella magistratura e nelle Forze Armate, sono feroci, mentre la maggior parte della popolazione sfila di contro in manifestazioni pro-governo.

Al momento è previsto un modesto ritocco del tetto a 5.800 R$, ma è parecchio probabile che le categorie “d’oro” spunteranno molto di più.

I nuovi parametri d’età sono: 60 anni per le pensioni del settore agricolo, insegnamento, e dei lavori usuranti. Per il resto, 62 per le donne e 65 per gli uomini, con un aumento graduale di 6 mesi per anno, a partire dal 2020.

Il versamento inferiore di contributi mensili rimane sotto i 5000 R$, con un extra di 400 R$ per i disabili. Vige al momento il divieto di accumulare il salario minimo alla pensione per morte, e soprattutto il trasferimento della pensione dei militari deceduti ai loro figli. Erano tutti salassi che gravavano per il 3% del PIB (producto interno bruto, il nostro PIL).

Proprio questi sono i punti-cardine che andrebbero difesi a tutti i costi. Ovviamente la potente lobby dei militari, da cui proviene Bolsonaro, farà di tutto per emendarli. Difatti, il vero fautore della riforma, non è lui, bensì Rodrigo Maia, il portavoce della Camera Bassa del Parlamento, il quale ha rotto l’immobilità del sistema previdenziale che durava da decenni.

A Maia, si deve anche il temporaneo congelamento del decreto di liberalizzazione delle armi da fuoco, uno dei cavalli di battaglia del neo presidente, e il freno al piano anti-crimine voluto dal nuovo ministro di Giustizia Sergio Moro – l’ex magistrato che ha messo al fresco i prominenti politici protagonisti della corruzione brasiliana – giudicato troppo persecutorio nei confronti degli indagati.

Maia appartiene comunque a uno dei partiti più corrotti dell’arco parlamentare, (PMDB, i democratici) è stato anche indagato nell’inchiesta Lava Jato, però grazie al suo ruolo parlamentare, è tutelato dalla Corte Suprema, di cui ci occuperemo a breve. Tuttavia la sua equidistanza tra governo e opposizione, ha consentito questo inizio promettente.

Lex super lex

La casta più potente in Brasile alberga in Corte: STF non è solamente il massimo organo giudiziario, bensì il vertice istituzionale che sovrasta il Parlamento e si arroga il diritto di giudicare i politici che rivestono incarichi federali, sottraendoli agli strali del tribunale ordinario.

Tutela costoro sotto le ali del Foro Privilegiado, procedura che garantisce un’immunità totale fino al giudizio del Tribunale Supremo, il quale ha un suo ministro della Giustizia, svincolato da quello del governo.

Quest’incarico è ricoperto da Luiz Fux, ebreo di origine romena.

Rispettato anche da Sergio Moro, il giudice-fustigatore dell’inchiesta Lava Jato che ha travolto e arrestato Lula da Silva, Michel Temer, Eduardo Cunha, Antonio Palocci e tante altre figure minori del panorama istituzionale brasileiro.

Artefici, con la complicità di multinazionali e imprese statali – quali Odebrecht e Petrobras – della profonda corruzione che ha distrutto il PT, Partido dos Trabalhadores di Lula e Dilma Rousseff. Eppure, era stata proprio quest’ultima a spendersi per fare eleggere Fux al ruolo che riveste tuttora, con il supporto del super indagato José Dirceu, capo di gabinetto sotto Lula: la mente dietro lo scandalo Mensalão, che aveva creato una schema di corruzione dei deputati, i quali, foraggiati da una bustarella mensile di 30.000 R$, votavano costantemente a favore delle leggi proposte dal PT.

STF fu riconoscente: i giudici Toffoli e Lewandowski coprirono Dirceu, finché non fu proprio Fux a mollarlo, quando la patata era ormai troppo bollente nelle sue mani.

Tuttavia, i due sono riusciti a fargli avere uno sconto di pena, che ha ridotto a 7 anni il suo attuale stato di detenzione.

Gilmar Mendes, parte anch’egli del ministero Giustizia STF, è forse il magistrato più coinvolto nella copertura dei corrotti, ma finora è sempre riuscito a farla franca. Le sue perle: sottrazione di fondi dall’ufficio del Procuratore Generale per finanziare la sua scuola di legge, garanzia di habeas corpus al finanziere Dantas, arrestato dalla PF (polizia federale) che fu costretta a rilasciarlo, e soprattutto il reintegro al seggio di senatore di Aécio Neves, l’ex leader socialdemocratico indagato per corruzione attiva e riciclaggio di denaro – indagine supportata da intercettazioni e testimonianze – che rientrò così nello scudo parlamentare garantito dal Foro. Il cellulare di Neves rivelò agli inquirenti ben 33 messaggi WhatsApp intercorsi con Mendes, ma, essendo criptati, la PF non riuscì a decifrarli. 

Ciononostante, la mannaia giudiziaria si è finalmente abbattuta di recente anche sul collo di questo padrino che sembrava intoccabile: il tribunale federale ha messo sotto processo Neves per corruzione e intralcio all’Operazione Lava Jato. Neves è fuori dal Foro Privilegiado che tutela i parlamentari, per decisione di STF, poiché all’epoca dei fatti era ancora senatore, mentre ora è solamente un deputato federale. Il tribunale ha anche disposto il blocco dei beni del politico, per un importo di 1,7 milioni R$.

I suoi ex protettori sono ben contenti di essersi scaricati una gatta da pelare che avrebbe rischiato di ferirli a sangue nel lungo termine.

Per Lula intanto, continua a non esserci tregua: dopo la condanna per il triplex che lo ha condotto nel carcere di Curitiba, in un solo giorno gli sono state negate ben due richieste di habeas corpus.

Non basta: la somma del risarcimento fissato per i reati precedenti, è stata elevata a 78 milioni di R$. Tutti i beni dell’ex presidente sono già sotto sequestro. Dias Toffoli, attuale presidente STF, così come Lewandowski e Mendes, sono tutti sotto impeachment per illeciti e abusi d’ufficio.

Non sembrano preoccuparsene troppo, e a ragione: loro sono la lex super lex.

Note: A proposito di Lula, continua imperterrita la querelle tra innocentisti e colpevolisti riguardo alle rivelazioni del giornalista americano Greenwald, ex corrispondente CNN dal Brasile, portate alla luce dal sito Intercept Brasil.

Il giornalista accusa l’attuale ministro di Giustizia Moro, di accanimento giudiziario nei confronti dell’ex presidente, per aver cercato di orientare il procuratore Dallagnol a emettere una sentenza di condanna il più rapidamente possibile, aldilà della fondatezza degli elementi probatori, ai tempi che era giudice istruttore a capo dell’inchiesta Lava Jato.

A suffragio di tali accuse, Intercept ha messo a disposizione dei media una serie di registrazioni che pongono in risalto i serrati colloqui tra i due magistrati, tra l’altro amici di vecchia data, e altri colleghi.

Ho acquisito uno stralcio dell’inchiesta, in cui compaiono gli audio in questione.

Ascoltandoli e traducendo le didascalie dell’articolo, non ho rilevato finora riscontro certo a tali accuse.

Nelle conversazioni intercettate, risalta piuttosto la raccomandazione di Moro rivolta alla Procura, di mettere a conoscenza della stampa la solidità conclamata delle prove, proprio per tacitare la campagna denigratoria contro la magistratura che la difesa di Lula stava conducendo con animosità sui media nazionali ed esteri. Senza addentrarmi in opinioni personali, offro il link del pezzo con i file audio alla vostra valutazione.

Non è poi così difficile interpretare il senso delle conversazioni in portoghese, estrapolate dai nastri e riportate sugli scritti.

L’ombra lunga di The Donald

L”ineffabile Dias Toffoli ha ora un nuovo protégé: Flavio, la pecora nera di casa Bolsonaro, non nel senso politico, bensì strettamente penale.

Difatti, il primogenito del presidente è sotto inchiesta per drenaggio di denaro pubblico attraverso assunzioni fittizie e transazioni immobiliari sospette. Manovre che secondo le accuse, gli avrebbero fruttato un guadagno illecito di circa 3 Mil di R$. Adesso però le indagini basate sui dati trasferiti dal fisco e dal Consiglio di controllo delle Attività finanziarie (Coaf) senza previa autorizzazione giudiziaria, sono state sospese proprio dietro ordine di Toffoli, per cui, almeno per il momento, Flavio la scampa.

Come se non bastasse, la grana più grossa a papà si appresta a darla l’altro gioiello di famiglia, Eduardo, che è a tutti gli effetti in pole position per l’ambita poltrona di ambasciatore del Brasile a Washington.

Un ruolo che rinsalderebbe oltremodo i rapporti tra la presidenza e Donald Trump, ma porrebbe a serio rischio la fama d’integrità che ha consentito a Bolsonaro di sbaragliare i suoi avversari, proprio adesso che da poco è stato approvato un decreto di fonte governativa contro il nepotismo.

E l’opposizione, supportata da una larga parte della stampa che conta, lo ha già messo sulla graticola.

The Donald, dal canto suo, si frega le mani: con l’Argentina di Mauricio Macri, il Brasile di Bolsonaro e la Colombia di Iván Duque subentrato a Santos, Trump si è assicurato l’appoggio dell’ABC sud-americano, le tre nazioni più grandi, e ciò ha contribuito al ritorno del suo ghigno abituale, dopo lo smacco venezuelano subìto a causa della bufala Guaido’, per il quale Cuba è stata punita duramente con la recrudescenza dell’embargo, non avendo voluto abbandonare al suo destino lo storico alleato.

Non basta: il voltafaccia di Lenin Moreno alla Revolución Ciudadana, rischia di far cadere anche l’Ecuador di nuovo nelle braccia USA, che prima di Correa stringevano senza troppi riguardi la piccola nazione andina, ricca però di petrolio e materie prime, oggi sfruttate in larga parte dalla Repubblica Popolare Cinese. La quale, dopo il devastante terremoto del 2016, ha incrementato il suo credito nei confronti del governo locale con prestiti e anticipi di royalties.

Ho viaggiato e lavorato come corrispondente stampa free-lance in Ecuador dal 2014 al 2017, collaborando con le agenzie governative nel monitoraggio degli aiuti alle comunità terremotate. Perciò tale prospettiva incute tristezza, se ripenso agli anni di Rafael Correa, che riuscì ad abbassare il tasso di povertà del Paese con i soldi ricavati dalle risorse naturali, andando a prenderli anche laddove ce ne sono sempre troppi per pochi: le banche e le cartelle esattoriali dei ricchi. Al New Deal ecuadoriano, sono servite le tasse di successione sui grandi capitali, e i contributi obbligatori da parte del settore finanziario al Bono de Desarrollo Humano, soprattutto a favore delle pensioni di cittadini a basso reddito, che riguardano circa due milioni di ecuadoriani.

Tali prelievi venivano riscossi attraverso una tassazione sui servizi venduti alla clientela, come prestiti, mutui e acquisto di strumenti finanziari.

Il tutto corredato da una nuova legge che garantiva la trasparenza bancaria, la rintracciabilità di depositi sospetti, e il passaggio degli acconti d’imposta da 0.2% a 3%. La reazione degli istituti di credito, convogliata inizialmente nella candidatura del banchiere Guillermo Lasso (il quale perse le elezioni di aprile 2017 per un soffio, le stesse che videro prevalere Lenin Moreno) ha finito poi per orientare la politica di Moreno su binari neo-liberisti, minacciando i pilastri del welfare – sotto Correa il più solido in America Latina – che contemplava la sanità gratuita per tutti, stranieri compresi.

Il ceto medio ecuadoriano, nato e consolidato proprio grazie a lui, ha favorito il corso attuale, che minaccia a breve di ritorcersi loro contro, a favore di una nuova oligarchia economica. Correa, trasferito in Belgio dopo la fine del suo ultimo mandato, è stato inquisito lo scorso anno dalla Procura di Quito (la capitale) con l’accusa di aver fatto sequestrare un suo oppositore politico, tal Fernando Balda, riparato in Colombia durante il suo governo.

E proprio Moreno, ha sostenuto tale imputazione, avallato dal partito Alianza Pais, chiedendo l’estradizione del suo predecessore. Una successiva indagine dell’Interpol ha poi scagionato Correa. Dal 2007, anno del suo insediamento, al 2016, il tasso di povertà in Ecuador è calato dal 36,7% al 22,5%. Con Moreno invece, l’adeguamento del salario básico (minimo) 2018 fu più che dimezzato, da 25 a 11 USD mensili. Quest’anno è sceso a 8 dollari. Uno sputo in faccia, a fronte di un costo della vita che in pochi anni è lievitato dal 30% al 50% sui beni primari.

È abitudine per gli ecuadoriani che vogliano rinnovare la mobilia o comprare sanitari, passare il confine e andare a fare acquisti in Colombia, dove tale merce costa circa la metà. Le manifestazioni popolari dell’estate 2018 che scossero il Paese, causando numerosi arresti, espressero una solidarietà tardiva verso l’ex leader.

La prospettiva che la restaurazione in atto riporti indietro l’orologio della storia sociale del Paese, è quanto mai attuale.

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