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07/11/2019

Il ricatto dell’Ilva

Torna tragicamente agli onori della cronaca l’annosa vicenda dell’Ilva di Taranto. Gli attuali proprietari del sito pugliese – il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, un colosso del settore siderurgico che fattura oltre 70 miliardi di dollari l’anno – hanno annunciato di lasciare gli stabilimenti. Si tratta, per ora, dell’ultimo capitolo di una storia lunga e travagliata. Proviamo a fare un po’ di luce sulla vicenda e sugli interessi che girano attorno ad uno degli stabilimenti metallurgici più grandi d’Europa.

L’Ilva è essenzialmente due cose. È un sito industriale strategico che garantisce una produzione siderurgica di livello, favorendo in questo modo il tessuto produttivo locale e nazionale e occupando oltre 10 mila lavoratori. Ed è anche, ad oggi, una sorgente inesauribile di veleno, un veleno mortale, per i suoi lavoratori, per il territorio e la popolazione locale. La storia recente dell’Ilva vive di questa perenne tensione: da un lato l’opportunità di tenere in attività i forni continuando a garantire produzione e quindi occupazione, e dall’altro la necessità di contenere le emissioni tossiche che proprio quella produzione genera.

Ma non stiamo tutti sulla stessa barca, e il problema assume diverse connotazioni a seconda del punto di vista che adottiamo. I lavoratori e la popolazione di Taranto e dintorni sono stretti nella morsa di questa contraddizione: lo spegnimento dei forni sarebbe una tragedia sociale, per i posti di lavoro che si perderebbero e per l’impatto economico sul territorio, ma il loro continuo funzionamento allo stato attuale è una calamità sanitaria e ambientale che miete oltre 200 vittime ogni anno. I lavoratori dell’Ilva e la popolazione di Taranto si trovano quindi davanti due alternative devastanti: proseguire la produzione inquinante, o chiudere l’impianto. Un mortale aut-aut in cui la scelta è tra salute e ambiente da un lato e lavoro dall’altro. Si tratta, tuttavia, di una falsa scelta viziata all’origine che parte da variabili e scelte economiche date e immodificabili, che tuttavia immodificabili non sono affatto. Naturalmente l’unica ipotesi favorevole a lavoratori e comunità locale sarebbe quella di una totale riconversione del sito industriale, una trasformazione tecnologica capace di mantenere inalterata la capacità produttiva modificando i metodi di produzione, in modo da ridurre sensibilmente l’inquinamento. Si tratta di un’ipotesi perfettamente credibile dal mero punto di vista tecnologico e, in astratto (in un contesto economico diverso da quello vigente), pienamente percorribile dal punto di vista delle opzioni di politica industriale adottabili da uno Stato.

Il problema, come al solito, sono i soldi. Già, perché una simile operazione richiede ingenti investimenti iniziali (il Ministero dell’Ambiente ha parlato di 3 miliardi e mezzo di euro), costi tali da scoraggiare qualsiasi impresa privata dall’intraprendere la lunga strada della riconversione. Ecco chiarito come l’unica via percorribile per favorire la classe lavoratrice sarebbe la nazionalizzazione dell’Ilva accompagnata ad uno sforzo di politica industriale considerevole in termini di investimenti pubblici.

Conviene a questo punto fermarsi un attimo a riflettere. Se questo fosse l’unico piano del problema, l’unica dimensione entro cui inquadrare le vicende dell’Ilva di Taranto, staremmo qui a discutere di nazionalizzazioni, piani industriali, vincoli di spesa, investimenti, tecnologie green ed altre interessantissime questioni. Invece no: il dibattito sull’Ilva, che ci piaccia o no, è un altro. Da poche ore, ArcelorMittal ha dichiarato che intende rescindere il contratto che la lega all’impianto di Taranto. Le ragioni di questa scelta sono limpidamente enunciate dalla multinazionale stessa: le attuali condizioni impediscono di realizzare il progetto industriale che ArcelorMittal aveva in mente quando, con la benedizione dell’ex Ministro Calenda, ha prima ‘affittato’ e poi progressivamente acquistato lo stabilimento.

Per chiarire quali siano questi ostacoli alla realizzazione del piano aziendale della multinazionale dobbiamo fare un passo indietro e ricordare brevemente come un gigante del settore si sia potuto avvicinare ad una situazione intricata come quella dell’Ilva di Taranto. Nel fare questo passo indietro, abbandoniamo il punto di vista dei lavoratori e del territorio, e proviamo ad adottare l’angolo visuale del capitale, il punto di vista del profitto. Riconsideriamo la nostra ipotesi di partenza: l’Ilva non si risolve solo in un’industria strategica per il Paese e in una centrale di morte per il territorio. L’impianto di Taranto è anche una terza cosa: è una straordinaria opportunità di profitto, ed è per questa terza ragione che la storia drammatica dell’Ilva non finisce mai, ma sopravvive in un perenne stato di eccezione che continua a sfornare acciaio e morte senza soluzione di continuità.

Quando ha deciso di rilevare l’Ilva, ArcelorMittal ha visto nell’impianto siderurgico pugliese un’occasione unica. Le travagliate vicende legislative e giudiziarie che hanno scandito la vita del sito di Taranto portando al suo commissariamento nel gennaio del 2015, avevano lasciato in eredità un piccolo tesoro: in sostanza, chi si accaparrava lo stabilimento – tramite gara pubblica – avrebbe goduto, in cambio di un vaghissimo ‘piano ambientale’ che non prevede alcun sensibile miglioramento dell’inquinamento prima del 2021 e nessun impegno concreto in termini di investimenti, di una particolare immunità penale. Si tratta di un vero e proprio ‘scudo’, introdotto con decreto legge nel 2015, che ha permesso prima ai commissari e poi agli acquirenti dell’azienda di non essere perseguiti legalmente durante la gestione del sito, e quindi evitare di essere accusati di reati quali quelli contestati ai vertici dell’Ilva nel 2012 (tra gli altri, disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, sversamento di sostanze pericolose, e inquinamento atmosferico). Ecco l’opportunità di profitto: trovarsi a gestire uno dei maggiori siti siderurgici d’Europa senza oneri immediati per la riconversione tecnologica e, di fatto, al di fuori di ogni regola sull’inquinamento e sulla sicurezza. Questo era il ‘piano aziendale’ del colosso mondiale ArcelorMittal che nel giugno del 2017 si aggiudicava il sito di Taranto: macinare acciaio in condizioni di assoluto vantaggio rispetto alla concorrenza, perché grazie allo scudo penale avrebbero portato avanti la produzione in uno stato di eccezione permanente capace di generare profitti sulla pelle dei lavoratori e dei tarantini senza, per questo, sostenere alcun costo di riconversione ambientale.

Ma nella primavera del 2019 accade qualcosa: i Cinque Stelle si svegliano dal letargo ed iniziano a spingere per l’abrogazione dello scudo penale. La vicenda approda quindi, nell’ottobre del 2019, alla Corte Costituzionale, che dichiara lo scudo incostituzionale. Non appena lo scudo penale viene messo in discussione, i vertici di ArcelorMittal vedono evaporare l’opportunità di profitto. Senza protezione, avrebbero dovuto portare avanti senza ritardi il piano ambientale, in modo da avviare una qualche riconversione tecnologica del sito, e avrebbero soprattutto dovuto rispondere di eventuali ulteriori danni alla salute e al territorio prodotti sotto la loro gestione. Con la rimozione dello scudo penale, viene meno lo stato di eccezione che rende l’Ilva un boccone appetitoso per la fame di profitto dei grandi attori del settore siderurgico a livello mondiale. L’Ilva, insomma, è un affare solo mentre avvelena lavoratori e ambiente – perché produce fuori dalle regole.

È così che il dilemma dell’Ilva resta tale, un rompicapo che non si può risolvere facendo contenti tutti. Lo può risolvere il capitale privato, se gli consentiamo di macinare profitti sui tumori e sulla distruzione di un territorio. E lo può risolvere lo Stato, se gli consentiamo di nazionalizzare un impianto industriale strategico per il Paese, e gli permettiamo di realizzare quegli investimenti necessari a trasformare una centrale di veleni in una moderna industria rispettosa dei lavoratori e dell’ambiente. Investimenti massicci che, naturalmente, ci porterebbero fuori da qualsiasi parametro fiscale previsto dall’Unione Europea. Il dilemma dell’Ilva, quel mortale aut-aut tra lavoro e ambiente appare irrisolvibile, allora, solo rimanendo all’interno della struttura istituzionale europea fatta di vincoli soffocanti che determinano la forzata dismissione del ruolo dello Stato nell’economia. Lo stesso dilemma svanisce e, fuori da quelle catene, l’antonimia lavoro-ambiente si dilegua.

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