Non era sembrato vero a molti di noi ritrovarsi ad amare la musica di Leonard Cohen,
quando dopo otto anni d’oblio discografico, che sembravano averne
relegato la grandezza a un intoccabile passato d’artista, era apparso
come un'epifania un disco intenso e ispirato come “Old Ideas”.
Ad onor del vero, neppure il prevedibile “Ten New Songs” e lo sfarzoso
intimismo di “Dear Heather” erano riusciti a intaccarne il mito, ma
nessuno immaginava che l’artista canadese potesse marchiare a fuoco
anche l’affollato terzo millennio.
“Old Ideas” è stato a tutti
gli effetti un disco premonitore di una rinascita creativa: il tono
lezioso delle ultime prove era scomparso, la forza della parola e del
suono era di nuovo al centro della poetica di Cohen. Un’energia
spirituale che non è stata né sminuita né intaccata neppure dalle
sonorità più confortevoli e corpose del pregevole “Popular Problems”.
Il futuro era ancora l’orizzonte verso il quale Cohen volgeva lo
sguardo, pieno d’amore per una vita che gli stava sfuggendo dalle mani,
ma che non gli impediva di stilare un prezioso testamento spirituale (“You Want It Darker”),
ultimo/non-ultimo capitolo di un autore poco avvezzo a mettere la
parola fine alla sua lunga e quasi biblica produzione discografica.
I
titoli di coda che scorrevano sulle note di “String Reprise/Treaty”
non avevano esaurito del tutto il dialogo di Cohen con il pubblico, era
un addio in parte canonico, romantico, sofferto, ma era facile
intravedere dietro quelle note uno spiraglio, una speranza, un ultimo
colpo da maestro.
Spetta dunque a “Thanks For The Dance” la perfetta
chiusura del cerchio, è un po’ come se il corpo di Cohen non avesse
conosciuto il livor mortis, il cuore pur fermo ancora pompa sangue, e qualche lacrima, ma anche una sottile lieve speranza.
Non
importa se alcune tracce erano già state parte di altri progetti,
questo non è il canto del cigno, ma la storia di un brutto anatroccolo.
È un Cohen schietto e inaspettatamente felice quello che recita “Ho
sempre lavorato stabilmente, non l'ho mai chiamata arte. Ho messo
insieme la mia merda, ho incontrato Cristo e letto Marx”, mentre
scorrono le note di un piccolo capolavoro (“Happens To The Heart”), che
da solo giustificherebbe l’esistenza di questo album postumo, messo
insieme dal figlio del cantautore scomparso tre anni fa, con l’aiuto di
numerosi musicisti, tra i quali Daniel Lanois, Jennifer Warnes, Javier Mas, Patrick Leonard e Beck.
Ancora
una volta lo stupore prevale sulla ragione, la musica e la parola di
Cohen abbattono di nuovo la Torre di Babele, l’universalità dell’arte si
manifesta con romantico pudore, a volte sospesa a poche note che
dialogano con il cantato/recitato di “It's Torn”, o trascinata dal passo
di danza intonato a più voci (Jennifer Warnes, Leslie Feist), il cui fascino evoca le piovose calde note avvolte nel "famoso impermeabile blu".
Lievemente didascalico, il flavour
latino (ad opera dei due chitarristi Carlos de Jacoba e Javier Mas) di
“The Night Of Santiago” regala uno dei momenti più leggiadri dell’album,
mentre Patrick Watson inietta un po’ del suo estatico pathos nella trascinante “The Hills”.
Gli
arrangiamenti sono quasi sempre intensi eppur rarefatti, spesso vicini a
quella sublimazione sonora che spetta solo alla parola, vera
protagonista di questo prezioso imprevisto, forza motrice di intense
narrazioni che corrispondono a titoli poco altisonanti (“The Goal”,
“Puppets”, “Listen To The Hummingbird”), che conducono l’ascoltatore
verso la fine del sogno, delle illusioni ma anche del dolore.
È quasi un invito a celebrare una resurrezione virtuale, per metà pagana e
per metà biblica, un’ulteriore provocazione intellettuale di uno dei
più grandi poeti dei nostri tempi, cantore delle umane debolezze e virtù
mancate, un poeta innamorato del silenzio e del suo assordante fragore:
"Ascolta il colibrì, ci implora di trovare la bellezza in Dio e nelle
farfalle. Non ascoltare me".
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