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21/12/2019

“Razionalità della demarcazione”. Contributo al dibattito su scienza e guerra

di Flavio Del Santo – Università di Vienna

Ho seguito con grande attenzione il dibattito su scienza e guerra tra Angelo Baracca[1] e Vincenzo Brandi,[2] recentemente apparso su Contropiano.

Desidero iniziare raccogliendo l’appello di Angelo Baracca il quale, nella sua risposta a Brandi[3] affermava: “i miei allievi sarebbero i più indicati per dire se il mio Manuale Critico di Meccanica Statistica del 1979, impostato secondo questa concezione [storico-materialistica], riesca a fornire un’interpretazione del ricorso a metodi statistici più convincente dell’affermazione implicita che sono imposti dalla natura dei processi macroscopici.”

Poiché sono stato un allievo di Angelo Baracca quando egli era professore di fisica all’Università di Firenze, vorrei cogliere l’occasione per rispondere a questo commento e riaffermare alcune delle idee che sono al centro del presente dibattito, cercando però di contestualizzarle nel panorama contemporaneo.

Questo intervento non vuole essere una difesa delle posizioni di Baracca (che tuttavia tendo a condividere), ma cercherò piuttosto di mettere in luce come queste posizioni si siano evolute e diffuse dagli anni '70 ad oggi; sviluppi di cui probabilmente nessuno dei due autori è completamente al corrente. Al contempo, però, ritengo che alcune precisazioni di carattere generale debbano essere giustapposte al commento critico di Vincenzo Brandi, il quale sembra puntare nella direzione tradizionale di una scienza “oggettiva” e “neutrale”.

Una tradizione che fortunatamente sembra avere trovato, ed ancora trova, una vasta opposizione, ma purtroppo spesso al di fuori dei circoli degli scienziati. Infatti, per quanto non convenzionali e talvolta radicali (piuttosto che fondamentaliste), le impostazioni antiscientiste sostenute anche da Baracca sono nate è vero, come ci ricorda Brandi nel criticarle, nel contesto delle contestazioni degli anni '60 e '70, ma rappresentano anche un argomento di grande attualità e come tale necessitano di essere trattate.

Al contrario, Brandi si riferisce a queste come “vecchi equivoci e posizioni fondamentaliste” nonché posizioni divenute “la bibbia della parte più fondamentalista del movimento del ‘68”. Tuttavia, egli sembra essere all’oscuro non solo degli importanti sviluppi dell’ultimo decennio (di cui parlerò in seguito), ma anche del decorso di quella tradizione storico-filosofica (di cui anche Kuhn e gli altri filosofi statunitensi esplicitamente citati da Brandi furono promotori ma non iniziatori) che rifiuta di vedere la scienza come uno strumento conoscitivo unico, oggettivo ed esistente in maniera astratta al di là delle attività umane (società).

La statua allegorica La Natura si svela di fronte alla Scienza di Louis-Ernest Barrias (vedi foto) è portata solitamente ad esempio di tale concezione, la quale ha indubbiamente avuto un ruolo fondamentale nel prendere la distanza dal pensiero dogmatico pre-illuminista, ma che appare oggi (e ormai da decenni) quantomeno naïve.

A tal proposito, Baracca sostiene che la Scienza non è “un’attività meramente conoscitiva che indaga la Natura in sé, sempre immutabile: piuttosto l’Uomo sociale si rapporta ai fenomeni naturali con modalità mutevoli nei diversi contesti storici e sociali, i quali pongono finalità diverse, che richiedono metodi scientifici nuovi”.

Dal punto di vista storico, bisogna notare che già nel 1935 il medico e filosofo Ludwig Fleck (viennese, appartenete a una tradizione squisitamente mitteleuropea e chiaramente non statunitense) nel suo libro divenuto estremamente influente in anni più recenti, “Genesi e sviluppo di un fatto scientifico”, propone l’idea che la scienza altro non è che un’attività culturale e sociale.

Egli sviluppa infatti il concetto di “collettivo di pensiero” (Denkkollektiv), ovvero una comunità di persone che si scambiano mutualmente idee o che mantengono una interazione intellettuale”.[4] Quello che viene definito un “fatto” scientifico è quindi un accordo comune all’interno di uno o più collettivi di pensiero, che tuttavia possono essere incommensurabili (in pratica avere difficoltà comunicative fondamentali) e pertanto ciò che viene riconosciuto come un “fatto” non è più così inequivocabile.

È superfluo notare come Fleck sia stato un’influenza dominante sull’approccio di Kuhn alla storia e alla filosofia della scienza, ma è invece interessante prendere atto del fatto che Fleck sia oggi stato rivalutato al punto tale da essere considerato probabilmente la singola maggiore influenza nell’ascesa del nuovo settore di ricerca “Science and Technology Studies” o, in breve, STS.[5]

Questa nuova disciplina accademica (è solo da circa un decennio infatti che ha ricevuto legittimazione nelle maggiori università di tutto il mondo) studia il mutuo rapporto tra scienza-tecnologia e società-politica-cultura. È in tale contesto che la responsabilità sociale degli scienziati, che ovviamente ha come elemento centrale la responsabilità nello sviluppo di tecnologie belliche, ha avuto il maggior sviluppo in anni recenti.

Per quanto non possa fare a meno che rammaricarmi del fatto che la legittimazione di STS come una disciplina autonoma non abbia forse avuto un impatto tangibile sulla forma mentis degli “scienziati praticanti”, è innegabile che questo settore abbia mantenuto vivi ed espanso in maniera sistematica i venti di protesta contro la neutralità della scienza sviluppatesi nel post ’68.

Circa lo stato dell’arte sugli studi della responsabilità degli scienziati, un eccellente ricerca recentemente condotta da Cecilie Glerup e Maja Horst (attraverso l’analisi di centinaia di articoli presi dalla letteratura scientifica) identifica diversi tipi di “razionalità politiche”, ovvero diverse sensibilità verso la responsabilità degli scienziati.[6] Ivi gli autori fanno riferimento al filosofo francese Michel Foucault, sostenendo che in epoca moderna si sia giunti ad “una ‘problematizzazione’ della attuale amministrazione interna della scienza attraverso norme professionali [...] In questo caso, ciò che è l’oggetto di indagine [...] è l’abilità della scienza di autogovernarsi responsabilmente”.

Questo studio fornisce un interessante spunto di riflessione al presente dibattito su scienza e guerra, poiché cattura tra le sue diverse sensibilità (quattro in tutto) le razionalità politiche sostenute rispettivamente da Baracca e Brandi. La razionalità politica che sembra ritrarre meglio le posizioni critiche di quest’ultimo è quella che gli autori dello studio identificano come “razionalità della demarcazione”. Essa esprime una chiara separazione (normativa) tra la scienza e il resto delle attività sociali e politiche. Secondo le parole degli autori, “la scienza è una professione onorevole, ma sfortunatamente è sempre più tormentata da frodi e cattiva condotta che minacciano la sua capacità di fare del bene per ‘il popolo’”.

Purtroppo, questa sembra essere non solo la visione che tradizionalmente gli scienziati avevano del proprio lavoro, ma ancora la più diffusa tra i professionisti fino ad oggi. Se questa razionalità potesse essere riassunta in una parola, essa sarebbe “neutralità” della scienza.

A tal proposito, un tacito presupposto di questa razionalità è che una conduzione “corretta” (secondo determinati standard concordati) della scienza faccia sempre bene al “popolo”. E se a volte le persone abusano dei risultati scientifici, ad es. per costruire tecnologie dannose per le altre persone, questo è già al di fuori dei confini della scienza e dovrebbe riguardare i politici che sono tenuti a normare tali condotte.

In diretta contrapposizione, ed in linea invece con l’analisi di Baracca, si configura la seconda sensibilità identificata da Glerup e Horst come “razionalità della riflessività”. Secondo questo punto di vista, “ciò che manca agli scienziati per essere socialmente responsabili è una sorta di autocoscienza o consapevolezza o capacità di prevedere le conseguenze della propria pratica”. Sebbene questa da sola non sia forse sufficiente, la consapevolezza sembra essere un presupposto necessario per una scienza più socialmente responsabile.

L’argomentazione a favore di questa opinione è la stessa che sta alla base del fatto che una popolazione informata (o consapevole) è una condizione preliminare per qualsiasi forma di democrazia. Le persone devono essere informate in modo critico (ad esempio, attraverso l’educazione nelle scuole e un sistema di stampa libera) per apprezzare la cosa pubblica ed essere liberi di scegliere il proprio ruolo nella società. Una mancanza di consapevolezza depriva una presunta democrazia di qualsiasi effettiva partecipazione del popolo. Allo stesso modo, uno scienziato a cui siano forniti i mezzi necessari per essere autocritico nei confronti del proprio lavoro e della sua relazione con la società, sarà molto più propenso ad assumersi le proprie responsabilità.

Per quanto riguarda le soluzioni concrete che possono condurre verso una “razionalità della riflessività”, due sembrano essere gli elementi centrali: (i) un’analisi storico-critica e (ii) un cambiamento sostanziale nell’educazione dei nuovi scienziati.

Per quanto riguarda il primo punto, è della massima importanza notare che una conoscenza della storia della scienza, in particolare della storia del proprio “collettivo di pensiero”, è indispensabile per comprendere la responsabilità sociale di una determinata disciplina a posteriori. Ciò consente di individuare regolarità e di comprendere scelte specifiche nel loro contesto sociale e politico, permettendo così di prevedere gli effetti della ricerca futura. Ed è a questo punto che non posso fare a meno di lodare l’impostazione storico-critica nella didattica immaginata da Baracca ed altri scienziati “attivisti” della sua generazione per l’insegnamento della scienza (fisica in particolare).

Apprendere ad esempio che l’impostazione della scienza moderna (chimica e fisica nello specifico) sia stata plasmata sotto la spinta economico-politica dell’ascesa del sistema capitalistico durante la seconda rivoluzione industriale è una conoscenza indispensabile alla comprensione dei rapporti tra scienza moderna e società. Allo stesso tempo, gli scienziati dovrebbero essere educati con corsi specificamente dedicati su etica, STS, metodo scientifico e storia e filosofia della scienza.

Da un lustro vivo e lavoro in Austria dove tali corsi stanno lentamente, e forse un poco timidamente, entrando a far parte dei curricula dei corsi di laurea in fisica (come cosiddette materie “soft skills”), ma in Italia sembra che l’accademia sia rimasta cristallizzata con un’impostazione strettamente conservatrice che non solo non promuove ma addirittura scoraggia attivamente attività didattiche di questo genere, ovvero atte allo sviluppo di una coscienza critica riguardo al rapporto tra l’operato degli scienziati e la società.

Come iniziative concrete, è inoltre necessario ricordare la recentissima ascesa alla ribalta del concetto di “Ricerca ed Innovazione Responsabili” (Responsible Research and Innovation, RRI) che sta avendo un ruolo fondamentale nelle politiche di gestione delle scienze in Europa e negli USA.[7] In particolare, questo concetto cerca di integrare nella pratica scientifica quattro elementi principali: “anticipazione” (cercare di prevedere le conseguenze del proprio operato); “inclusione di terzi” (inteso come dialogo con coloro che potenzialmente beneficeranno o soffriranno dell’operato della scienza); “riflessività” (nell’accezione già discussa); e “reattività” (da parte di chi traduce le proposte scientifiche in applicazioni o chi norma tale pratica).

A questo punto è doveroso notare che tutte le iniziative moderne qui discusse hanno come bersaglio principale la sensibilizzazione degli scienziati verso le proprie responsabilità sociali, intese però come effetti collaterali del proprio operato. Un discorso tutto differente va riservato all’impiego volontario di scienziati in progetti finanziati e promossi da organizzazioni militari o industrie private coinvolte in sviluppi di tecnologie militari. Bisogna ammettere che tale tematica sembra avere una trattazione marginale nel sempre più vasto programma degli “Science and Technologies Studies”.

Tuttavia, una sensibilizzazione del tipo espresso dalla “razionalità della riflessività” sicuramente può portare grandi vantaggi per far sì che gli scienziati si impegnino sempre più in azioni concrete, boicottando attivamente il proprio coinvolgimento nell’industria bellica. A tal proposito, è interessante notare che nel mondo germanofono si stanno diffondendo sempre più le “clausole civili” (Zivilklausel), ovvero contratti vincolanti che le università si autoimpongono e che vietano il coinvolgimento dei propri ricercatori in progetti militari.[8]

Vorrei concludere queste considerazioni tornando sulla tematica delle diverse sensibilità riguardo a quello che la scienza rappresenta e cosa essa può fare per le persone. La conclusione sembra essere che è possibile, ma non dovuto, che i prodotti della “buona scienza” siano un bene per la società.

Ma questo non significa che gli scienziati siano tenuti a ignorare la società, piuttosto l’opposto. La scienza è meravigliosa perché è parte della nostra cultura, ma come tale deve essere trattata, con i suoi limiti, le sue contraddizioni e i suoi potenziali pericoli, che condivide con il resto delle attività umane. Un “buon” scienziato dovrebbe essere messo nelle condizioni di vedere questi aspetti critici fin dai tempi della propria istruzione e non essere cresciuto nell’utopia dogmatica che il rigore della disciplina scientifica lo autorizzi a non pensare a sé stesso come parte della società qualora egli entri in un laboratorio.

Note:

[1] Baracca, A. 22019. Scienza e Guerra, Contropiano: http://contropiano.org/news/scienza-news/2019/12/06/scienza-e-guerra-0121609#sdfootnote2anc

[2] Brandi, V. Scienza e Guerra. 2019. Sul dibattito aperto da Angelo Baracca. Contropiano: http://contropiano.org/news/scienza-news/2019/12/11/scienza-e-guerra-sul-dibattito-aperto-aperto-da-angelo-baracca-0121853

[3] Baracca, A. 2019. Scienza e guarra. Prosegue la discussione. Contropiano: http://contropiano.org/news/politica-news/2019/12/17/scienza-e-guerra-prosegue-la-discussione-0122043

[4] Fleck, L., 1983. Genesi e sviluppo di un fatto scientifico. Il Mulino, Bologna.

[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Science_and_technology_studies

[6] Glerup, C., and Horst. M. 2014. Mapping ‘social responsibility’ in science. Journal of Responsible Innovation 1(1): 31-50.

[7] Koops, B.J., Oosterlaken, I., Romijn, H., Swierstra, T. and Van Den Hoven, J., 2015. Responsible Innovation 2. Springer.

[8] https://de.wikipedia.org/wiki/Zivilklausel La prima Università ad adottare tale iniziativa fu quella di Brema nel 1986. Oggi clausole civili sono in vigore in molte università tedesche e in alcune giapponesi, mentre l’università di Vienna ed altre università austriache stanno cercando di introdurla nei prossimi anni.

Fonte

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