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26/12/2019

Libia, il nostro passo d’addio all’ex colonia

di Alberto Negri - Il Manifesto

La pace e la guerra in Libia la decidono forse Erdogan e Putin non certo il caro leader del Movimento Cinquestelle e ministro degli Esteri Di Maio oggi a Tripoli (e forse poi a Bengasi) per quello che potrebbe diventare una sorta di nostro passo d’addio all’ex colonia, diventata poi «posto sicuro» dove respingere la disperazione dei profughi. Un addio. Ripasseremo quando le cose si saranno «sistemate». Visite di cortesia, visto che il generale Haftar, nemico del governo di Al Sarraj, invoca l’«ora zero» per la capitale in un clima bellico dove il rumore della retorica è pari almeno a quello delle armi.

Nel 2011 – allora Di Maio era un ventenne – la Nato obbligò l’Italia, con l’approvazione del presidente della repubblica a bombardare Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo. Oggi l’Alleanza appare impotente di fronte alla prova di forza tra il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu e sostenuto da Turchia, Qatar e Italia, e le truppe del generale Khalifa Haftar, appoggiato da mercenari russi, Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita.

L’Italia conta sempre meno ma anche il fronte occidentale appare in attesa degli eventi come se sperasse che a risolvere la questione, come in Siria, siano ancora Erdogan e Putin, anche qui uno di fronte all’altro.

A Tripoli le operazioni ormai fanno capo a Erdogan pronto, in caso di disfatta imminente, a inviare truppe in Libia. In poche parole la Turchia comanda in quello che era un tempo il nostro cortile di casa.

Questo è il risultato dell’azione anti-Colonnello voluta nel 2011 dalla Francia, seguita da Gran Bretagna e Usa, per sostenere i ribelli di Bengasi. Un mese dopo era la stessa Nato a prendere il comando dei raid inglobando anche gli italiani che avrebbero fatto meglio ad astenersi, come fece la Germania. Non abbiamo difeso realmente i nostri interessi e bombardando Gheddafi abbiamo perso credibilità sulla Sponda Sud.

Passati otto anni, Tripoli è in mano alla Turchia mentre Putin tenta di manovrare Haftar, alleato però assai meno disciplinato e accorto di Assad. È accaduto quanto già successo in Siria quando il ritiro americano ha lasciato via libera alla Turchia contro i curdi del Rojava mentre nel Nord della Siria la Russia è subentrata nella «fascia di sicurezza» insieme all’esercito di Damasco.

La decisione di Trump, presa senza consultare gli alleati, ha avuto ripercussioni tremende sui curdi ma anche sulla stessa Alleanza. Ha mandato un messaggio preciso a Erdogan e Putin: decidete voi su quanto accade nel Mediterraneo.

Non solo ha consegnato la Siria e la Libia a Mosca e Ankara ma la Turchia di Erdogan, membro storico dell’Alleanza, continua a ricattarla, come ha fatto acquistando dai russi le batterie anti-missile S-400. E ora, dopo la risoluzione del Senato americano di condanna del genocidio armeno, Ankara ha minacciato per ritorsione di chiudere alcune basi Nato in Turchia, compresa Incirlik, decisiva nei raid contro l’Isis ma che Erdogan ha concesso soltanto dopo avere ottenuto dagli Usa la garanzia di trattare come terroristi anche i curdi del Rojava che hanno perso 10mila combattenti nella lotta al Califfato. Un capolavoro di sanguinoso e inutile cinismo.

Gli Usa e la Nato restano ancora sotto l’estorsione di Ankara. La Turchia ha costretto Tripoli, ormai alle corde, a firmare un memorandum neo-ottomano – la Libia era sotto quell’Impero – per lo sfruttamento del gas offshore a Cipro greca nella «zona esclusiva», scontrandosi direttamente con gli interessi di Grecia, Israele, Italia, Francia e Usa. Senza dimenticare che Erdogan continua a ricattare l’Europa sui profughi – nonostante abbia ricevuto da Bruxelles 6 miliardi di euro – e sul ritorno dei foreign fighters, i jihadisti di provenienza europea.

Questo è il quadro della situazione provocato in buona parte dall’opportunismo e dagli errori della Francia e degli Stati Uniti che in Libia hanno oscillato tra il sostegno ad Haftar, nemico dell’Isis, e quello a Tripoli dove sono presenti Fratelli Musulmani e jihadisti, molto più amici di Erdogan che nostri, ma avversati da Egitto, Emirati e sauditi, clienti primari degli armamenti occidentali e russi. Ecco perché si oscilla.

In questa partita l’Italia, che con la caduta di Gheddafi ha subito la peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale, si distingue per la sua magistrale insipienza. E per arroganza: per anni i nostri governi hanno ripetuto che «nessuno meglio di noi è informato su quanto accade in Libia». È così abbiamo visto succedersi premier e ministri che vagheggiavano di «cabine di regia» promesse da Washington ma che nessuno ci voleva dare davvero. In realtà non sapevano dove andare a parare. L’Italia è così finita in mano a strateghi da strapazzo di quella che una volta veniva definita una «media potenza». Certo, ma di cartone.

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