di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Il sultano atlantico
gioca su ogni tavolo di crisi. Qualcuno se lo crea da solo, qualcun
altro lo minaccia. A unire i tavoli è la guerra regionale, già
combattuta – come nel nord est siriano – o abbozzata come in Libia.
Ieri, mentre a Tripoli si combatteva e le milizie misuratine lanciavano lo stato di mobilitazione contro l’ennesima fase dell’offensiva del
generale cirenaico Haftar sulla capitale, il presidente turco Erdogan
incassava l’approvazione da parte della commissione parlamentare Esteri
dell’accordo di cooperazione militare con il Gna (il governo tripolino, inventato dall’Onu) siglato il 27 novembre a Istanbul con il premier Serraj.
Lo ha incassato con Serraj presente, di nuovo in visita a quello che è
di fatto oggi il suo sponsor più efficace. Sia in termini militari che
diplomatici: se con il memorandum Ankara si impegna a inviare
materiale e consulenze (cosa che con i droni già fa da tempo, violando
l’embargo libico), ora Erdogan promette anche truppe, in cambio del
controllo sullo specchio di mare tra Creta e Cipro.
Il cosiddetto «accordo di demarcazione» regalerebbe ad Ankara la
giurisdizione in acque che ospitano giacimenti di gas naturale tra i più
ricchi al mondo, da quelli ciprioti (su cui minaccia anche Israele: è
di domenica la notizia dell’allontanamento di una nave dell’Istituto di
Oceanografia israeliano da parte della marina turca nelle acque di
Cipro) e su quelli nordafricani.
Lo fa sfidando apertamente l’altro attore regionale della
crisi libica, l’Egitto, che sta sulla barricata opposta, con Haftar. E
sfida anche l’Italia, convinta da aspirazioni neocoloniali, più che
dalla vicinanza geografica, che la Libia sia doverosamente affar suo: oggi il ministro degli Esteri Di Maio dovrebbe volare a Bengasi per vedere il generale renegade perché,
come dicono in tanti, è tempo di mediare tra le due parti (fossero solo
due...) e uscire dal guado. Il probabile incontro è stato preparato nei
giorni scorsi dall’Aise, i servizi segreti italiani, già a Bengasi.
Insomma, ormai Haftar va rivalutato (questa sembra la visione
dell’Italia che teme di perdere il malloppo a favore della Francia)
sebbene da mesi stia stringendo d’assedio il governo voluto dall’Onu e riconosciuto come il solo legittimo dalla comunità internazionale, a partire da Roma.
Non sarà un caso che ieri le truppe di Haftar, l’autoproclamato
Esercito nazionale libico, descrivevano il presunto ferimento del
ministro degli Interni di Tripoli, Fathi Bashagha, come agguato dei
misuratini (e non loro), attentato poi smentito da Tripoli e dallo
stesso ministro che si è fatto vedere ieri mentre passava in rassegna le
truppe a Tripoli, riporta Agenzia Nova.
Identica narrazione, indirettamente, la dà il governo egiziano: «Il
governo a Tripoli – ha detto da Sharm el Sheik il presidente al-Sisi – è
ostaggio di milizie armate e terroriste». Non li nomina, ma nel mirino
di al-Sisi ci sono i Fratelli musulmani, considerati i veri reggenti
tripolini e riferimento politico dell’Akp di Erdogan e del Qatar,
l’altra potenza regionale alleata di Serraj che nei giorni scorsi, per
bocca dell’emiro Al Thani, ha detto di voler/poter intervenire «sul
piano economico e della sicurezza» al fianco di Tripoli.
Dall’interventismo turco in mezzo Vicino Oriente non poteva mancare
la stoccata al nemico-amico statunitense. Brucia ancora il
riconoscimento da parte della Camera Usa, il 31 ottobre, del genocidio
armeno. Ma bruciano di più la sospensione della vendita degli
F35 e le sanzioni che Washington ha paventato se Ankara proseguirà
nell’acquisto del sistema di difesa missilistico russo S-400.
E così domenica Erdogan ha pensato bene di minacciare gli Usa di «chiudere la base aerea di Incirlik
e la stazione radar di Kurecik, che ospitano i militari americani».
Nella seconda c’è la Nato, nella prima bombe atomiche Usa. Erdogan non
vede l’ora di metterci le mani: da Incirlik è partito un pezzo del
tentato golpe del 2016.
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