Ultimi aggiornamenti sul fronte ILVA:
dopo un tira e molla di un paio di mesi, con dure prese di posizione di
ambo le parti coinvolte, lo Stato italiano – nelle persone dei
commissari straordinari dell’ex ILVA – e Arcelor Mittal sono giunte ad
un accordo, nel miglior interesse dell’economia italiana, dell’ambiente,
dell’occupazione e dei lavoratori. Senza dimenticare ovviamente le
giuste necessità di capitalisti coraggiosi che si assumono il rischio di
fare impresa in Italia.
O almeno, a leggere superficialmente le notizie, questa sembra essere la premessa di un prossimo lieto fine.
Grattando la sottile patina di ipocrisia che avvolge questo tipo di narrazioni, tuttavia, la storia appare molto differente.
A seguito dell’ignobile ricatto di Arcelor Mittal, lo Stato si dimostra
pronto, ancora una volta, ad accomodare le richieste dello sciacallo di
turno, acconsentendo alla messa a punto di un “nuovo piano
industriale”. La controparte, rappresentata dalla multinazionale
dell’acciaio, mette subito in chiaro che non potrà garantire gli attuali
livelli occupazionali e si limita a promettere che farà il possibile
per continuare nella produzione. Il nuovo accordo, inoltre, “prevede
investimenti in tecnologia verde da realizzarsi anche attraverso una
nuova società finanziata da investitori pubblici e privati”, mentre lo
Stato si farà carico di cercare di minimizzare l’impatto in termini di
perdita di posti di lavoro. Tradotto in parole povere: Arcelor Mittal
ottiene una rinegoziazione, in termini ancora più vantaggiosi, degli
accordi presi con lo Stato per ottenere la cessione degli impianti ex
Ilva. Lo Stato, da parte sua, si impegna a cercare di evitare che la
produzione di acciaio a Taranto sia una macchina di morte e che una
terra già martoriata da disoccupazione e deindustrializzazione non
riceva il definitivo colpo di grazia attraverso la perdita di un numero
eccessivo di posti di lavoro. Un caso di scuola
di come funziona l’interazione tra pubblico e privato ai tempi del
neoliberismo: il primo si sobbarca oneri e rogne, il secondo ne trae i
benefici, fino a quando non si presenta altrove una migliore opzione per
fare profitto in tempi rapidi.
È davvero questo l’unico esito possibile?
È davvero questa l’unica maniera per evitare che Taranto si trasformi
in un deserto post-industriale? Per provare a rispondere a queste
domande, può essere utile farsene una ulteriore: è possibile conciliare
la difesa dell’occupazione, la tutela dell’ambiente e della salute dei
cittadini e la ricerca del profitto sfrenato? Quello che gli ultimi anni
ci hanno insegnato è che la risposta all’ultima domanda è NO. La
risposta delle autorità pubbliche, evidentemente consapevoli di ciò, è
consistita e consiste nel cercare di mitigare gli effetti più deleteri
di questo infame trilemma, provando a sostenere a fondo perduto parte
dei costi sociali e ambientali, nella speranza o nell’illusione che il
privato faccia il resto.
Alla luce di questo, possiamo tornare
alle prime due domande. Partendo dal presupposto che è compito di uno
Stato farsi carico di combattere disoccupazione, inquinamento e morti da
lavoro – avendo notato che fare il lavoro sporco per conto dell’impresa
privata di turno ha come soli effetti quelli di provare a richiudere un
recinto con i buoi già in fuga e aumentare la ricattabilità dello Stato
– la strada che rimane è al contempo semplice e complessa e passa per una gestione pienamente pubblica
dell’ex ILVA. Arcelor Mittal, a partire dal 1 novembre 2018 e per un
totale di 18 mesi, ha in affitto gli impianti siderurgici tarantini.
L’impegno era, al termine dei 18 mesi, di procedere con l’acquisto
definitivo. Le ultime settimane hanno visto la multinazionale
indoeuropea esprimere a più riprese l’intenzione di lasciare lo
stabilimento di Taranto, per il cui utilizzo sta corrispondendo un
affitto allo Stato italiano. Già, perché lo Stato italiano ne detiene la
proprietà a seguito della confisca operata nei confronti dei Riva, i
precedenti proprietari. L’azienda sarebbe, quindi, di fatto già
pubblica: quello che occorre, ora, è nazionalizzare l’ILVA, ossia
mettere in mano pubblica anche la produzione di acciaio, con lo Stato
che si faccia carico di investire per la riqualificazione dello
stabilimento e che intraprenda una gestione pubblica della produzione.
Mantenerla pubblica rappresenta l’unica
via d’uscita accettabile dall’impossibile trinità salute-lavoro-profitto
privato, buttando a mare l’ultimo elemento e perseguendo in maniera
congiunta i primi due.
Che cosa impedisce, concretamente, questa
opzione? Un primo livello di obiezioni, quello più superficiale e
imbevuto di ideologia, pone la questione in termini pseudo-tecnici: lo
Stato non sarebbe mai capace di gestire un’impresa in un settore
complesso e in continua evoluzione quale l’acciaio: nazionalizzarla
sarebbe, pertanto, solo un costo per i contribuenti. Il sedicente nemico dei mercati
Salvini è forse colui che, proprio per ricordarci il suo ruolo di
difensore degli interessi di padroni e padroncini (altro che nemico!), esprime in maniera più banale e grossolana l’argomento.
Argomento che si declina anche come: perché lo Stato dovrebbe riuscire
dove non sono riusciti imprenditori privati? È il ‘mercato’ che ha
stabilito che 10.000 dipendenti nel tarantino sono troppi! Il ‘mercato’
ha anche stabilito che il settore dell’acciaio, in Italia, ha fatto
profitti per 5 miliardi di euro nel 2018 e che continuare a produrre a Taranto garantirebbe a ILVA 500 milioni di dollari aggiuntivi di margine operativo lordo
(un indicatore di redditività che non tiene conto degli interessi,
delle imposte, del deprezzamento e ammortamento dei beni). Tra profitti e
lavoro, l’impresa privata sceglierà sempre i primi. Un’impresa pubblica
può invece assumersi l’obiettivo di produrre senza fare né profitti (né
perdite), facendo pagare a questi ultimi l’onere di garantire salari
dignitosi e la difesa dei posti di lavoro.
Veniamo così a ciò che davvero
rappresenta un ostacolo apparentemente insormontabile ad una gestione
pubblica dell’ex ILVA. In termini di normativa europea, in linea di
principio, nessuna discriminazione viene fatta tra gestione privata e gestione pubblica di un’impresa,
purché l’impresa pubblica sia acquistata e gestita come un operatore
privato. Già l’ultimo cavillo rappresenta un primo ostacolo, ma il vero
impedimento è rappresentato, ancora una volta, dall’austerità imposta dai vincoli europei
alla gestione dei bilanci pubblici. I costi stimati per un primo ciclo
di investimenti volti a riconvertire la produzione in senso più
compatibile con l’ambiente sono pari a 1.1 miliardi di euro, mentre mantenere gli attuali livelli occupazionali costerebbe 1.2 miliardi. Si tratta di un ammontare di risorse che nessun privato è disponibile a sostenere, come Arcelor Mittal ci ha dimostrato stracciando gli accordi presi con l’allora ministro Calenda.
Si tratta di risorse che, invece, uno
Stato, fuori dalla necessità di conseguire profitti di breve periodo,
potrebbe spendere senza alcun problema di natura economica, creando un
circolo virtuoso di crescita, sviluppo ambientalmente sostenibile,
maggiore occupazione, maggiori redditi e rafforzamento di un settore
strategico con tutti i vantaggi economici legati al vastissimo indotto
che ne andrebbe a beneficiare.
Ma cosa sono le vite di decine di
migliaia di lavoratori e la salute di centinaia di migliaia di cittadini
di fronte al rispetto dei vincoli europei? Ancora una volta, la
risposta ce la dà Salvini, il già capitano e finto baluardo contro l’austerità
imposta da Bruxelles. Nell’opporsi alla nazionalizzazione di ILVA,
sintetizza infatti in una frase quanto il mito della scarsità delle
risorse – scarsità che non è una necessità economica ma una decisione
politica imposta e concretizzata nei vincoli europei – sia pervasivo e
rappresenti la perfetta via d’uscita per continuare a servire gli
interessi di chi ha già tutto: “ma dove li prendi i soldi”?
Il problema, tanto per cambiare,
è di natura eminentemente politica. Vincoli politici mascherati da
vincoli economici impongono la primazia del capitale privato sulla
tutela degli interessi pubblici, garantendo a giganti quali Arcelor
Mittal una posizione di assoluto privilegio in qualsiasi negoziazione
con le autorità pubbliche. È una storia vecchia quanto il capitalismo,
una storia che ormai si sviluppa in automatico, sui binari ciechi
dell’austerità, fino al prossimo schianto. Nazionalizzare l’ex ILVA
risolverebbe immediatamente tutti i problemi? Ovviamente no. Rappresenta
però l’unica maniera in cui il problema diventa affrontabile,
l’unica maniera in cui si possa provare a mettere in discussione il
ricatto tra lavoro e salute, l’unica maniera per non avere come sola
opzione quella di trattare vicende come quella che martoria Taranto come
catastrofi naturali, di fronte alle quali ci si può solo disperare a
tragedia avvenuta.
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