La crisi finanziaria del 2008, che ha investito tutto l’occidente, ha
segnato un punto di svolta del nostro paese che potrebbe essere un punto
di non ritorno. Dal 1995 ad oggi il PIL italiano è cresciuto ogni anno
(in media) un punto in meno di quello dell’Eurozona: questo mostra che
il problema dell’economia italiana risale a prima dell’ingresso
nell’euro. Tuttavia, dopo il 2008 la differenza con gli altri paesi
europei, a cominciare dalla Germania, è cresciuta in maniera costante e
inesorabile. Cosa è successo nel 2008?
Il 2008 è l’anno in cui è stata varata l’infausta legge 13/2008 con un
taglio di 1,5 miliardi al fondo di finanziamento dell’università che ha
comportato una contrazione del 20% del sistema nazionale universitario e
della ricerca. L’Italia dal 2008 in poi è stata tra i pochi paesi a
tagliare risorse in istruzione.
Questo taglio è andato di pari passo con una crisi economica che ancora
perdura così come il nostro paese persiste come fanalino di coda in
Europa per la spesa in istruzione rispetto alla spesa pubblica (o al
PIL). Nel periodo tra il 2008 e il 2014 l’Italia l’ha tagliato il 21%
della spesa universitaria mentre la Germania l’ha aumentata del 23% e la
Francia, che pure non naviga in buone acque, del 4%. (La variazione per
il Regno Unito è dovuta alla crescita delle tasse universitarie a 9000
sterline/anno a causa dei tagli effettuati dal governo Cameron).
Le cause del declino italiano non sono né la crisi del 2008 né
l’introduzione dell’euro ma una serie di fattori che andranno analizzati
in dettaglio in separata sede: tuttavia nel 2008 il nostro paese ha
alzato bandiera bianca ed il disimpegno nella spesa in istruzione ne è
la cartina di tornasole.
Il ministro (ora dimissionario) Lorenzo Fioramonti
ha provato a invertire questa tendenza in maniera netta, chiedendo 2
miliardi di euro per la scuola ed uno per l’università: i primi sono
arrivati mentre per l’università non c’è nulla. Fioramonti ha lamentato
che sarebbe servito più coraggio da parte del Governo per garantire
quella “linea di galleggiamento” finanziaria in un ambito così cruciale
come l’università e la ricerche: se non si capisce bene da dove
sarebbero venute le risorse è anche vero che i salvataggi delle banche
(per esempio) hanno sempre un canale preferenziale.
Tuttavia, l’entità del finanziamento è
solo uno dei punti attaccati dal governo Berlusconi (legge Gelmini) e
consolidati dai governi successivi. Ci sono altri due aspetti
ugualmente importanti in cui avremmo apprezzato uno sforzo da parte del
Governo e che invece sono stati del tutto sottovalutati.
Da una parte la modalità di
distribuzione del finanziamento e dall’altra l’indipendenza
dell’università e della ricerca dall’ingerenza politica. Su entrambi
questi temi non abbiamo visto segnali apprezzabili, quasi che ormai si
dia per scontato l’impianto che è stato costruito dal ministro Gelmini e
da quelli successivi. Tutta la politica distributiva, realizzata
principalmente da ANVUR dietro le parole “meritocrazia” e “valutazione”,
è improntata all’effetto San Matteo: “perché a chiunque ha sarà dato e
vivrà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”
(Vangelo di Matteo 25, 29).
Per fare un esempio di questo effetto è sufficiente ricordare
che tra il 2012 e il 2019 il turn-over al Politecnico di Milano è stato
del 121% (cioè i docenti sono aumentati), alla Statale del 77%, mentre è
stato del 47% alla Sapienza e del 44% a Tor Vergata. Queste differenze
si sono verificate perché il turn-over di ciascun ateneo è definito da
un complesso e oscuro algoritmo finanziario, che rapporta il costo dei
docenti in servizio alle entrate delle università. Ma le entrate
dipendono da quanto sono abbienti le famiglie degli studenti, a Milano e
a Roma, e da quanto sia possibile tassarle. Più docenti significa più
corsi: maggiori possibilità di attrarre studenti e quindi di incassare
ancor più. Questo
tipo di politica distributiva sta dando luogo a una desertificazione di
intere aree geografiche (il meridione e le isole) ma anche di diversi
settori disciplinari.
L’altro aspetto riguarda l’indipendenza
della ricerca dal potere politico. Il Governo Renzi nel 2016 provò a
mettere le mani sulle nomine dei professori attraverso le contestate “Cattedre Natta”.
Nella Legge di bilancio, il Governo ha previsto la creazione di una
nuova Agenzia Nazionale della Ricerca il cui Presidente è scelto e
nominato direttamente dal Presidente del Consiglio e ben 5 membri su 8
del direttivo sono sotto il controllo politico diretto del governo
poiché nominati da vari ministri. Si tratta di una ingerenza allarmante che non ha uguali al mondo.
Il quadro generale rimane però quello di
comprendere quale sia il ruolo della formazione nello sviluppo
economico: alla fine la sottovalutazione politica della ricerca ha
questa radice ed è qui che si nasconde il rospo. In
genere, però, nel dibattito pubblico (o forse, sarebbe meglio dire,
nella propaganda di regime) il problema della mancata crescita è
spostato addossando la responsabilità alla formazione, scuola o
università che sia, con l’idea che nello stato in cui si trova non sia
capace di formare al mondo del lavoro.
Da questo approccio discendono linearmente la valutazione (Anvur,
Invalsi), l’alternanza scuola-lavoro e le altre riforme dell’istruzione
cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni. Da questo approccio segue
dunque una involuzione programmata del sistema dell’istruzione che si
dovrebbe adeguare a un sistema imprenditoriale (il mondo del lavoro) che
richiede sempre meno personale con alta formazione. In questo schema la
ricerca perde non solo la sua centralità ed anche il suo senso stesso:
come disse Silvio Berlusconi “perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo”?
D’altra parte la presenza di un’attività
di ricerca che sia di livello internazionale, è una condizione
necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo economico. Il sistema
formativo deve creare delle conoscenze e delle capacità che
rappresentano il potenziale indispensabile per poi riuscire a innovare
(a 360 gradi!) e a dare così impulso al sistema economico. Tuttavia,
queste capacità, se non sono inserite in un sistema imprenditoriale e
industriale adeguato, non possono di per sé generare sviluppo economico.
Il problema del nostro paese è quello di essere il fanalino di coda
nella quota di occupati nei settori ad alta conoscenza, cioè quei
settori ad alta intensità tecnologica che rendono possibile lo sviluppo
di beni che più difficilmente sono prodotti anche da altri paesi. Così
come l’Italia “eccelle” nell’occupare la penultima posizione per quanto
riguarda la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese. Il problema è
dunque capire come realmente si realizza il nesso tra formazione,
sviluppo scientifico, tecnologico e economico al di là delle favole
ideologiche che ci vengono raccontate da qualche decennio e che,
chiaramente, non funzionano.
Istruzione e sviluppo economico sono due
facce della stessa medaglia: questa dovrebbe essere la questione
cruciale, il rospo, da mettere al centro dell’agenda politica, che
separa due visioni economiche e sociali completamente diverse e che
invece continua ad essere assente.
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