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27/12/2019

Guerra, colonialismo, razzismo, autoritarismo ed austerity: la grande rimozione europea

La storia dei paesi europei dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni è costellata di orrori, tragedie e buchi neri e noi – proprio mentre è appena trascorso il cinquantennale della strage di piazza Fontana – ne sappiamo qualcosa.

Lungi dall’aver segnato una discontinuità rispetto a quella storia, l’Unione Europea, così come è stata concepita e strutturata, sembra incarnare e rendere ancora più oscuri/e complessi/e i vizi e le dinamiche della solita vecchia Europa.

Il lato oscuro della Francia

”Si des Arabes se promènent in a forét, le printemps i n’a rien ay voir. Ce ne peut étre que pour assassiner leurs contemporains” [1] scriveva, con ironia mista a dolore, Albert Camus nel maggio del 1947. Nella Francia del dopoguerra quelli che osserva lo scrittore sono “segni”: un titolo di giornale che suona già come condanna di un cittadino di origini arabe sospettato d’omicidio e che sottende il pregiudizio che se si è arabi e si passeggia per un bosco, la ragione non può essere la primavera.

Che cosa “segnalavano” per Camus quei segni? Segnalavano come si sta diffondendo la «malattia stupida e criminale» del razzismo. Ebbene, 14 anni dopo, il 17 ottobre del 1961, circa 30.000 persone sfilavano pacificamente per le vie di Parigi. I cortei, che avevano l’intenzione di raggiungere il centro della città, erano costituiti da donne, uomini e bambini; furono aggrediti dalla polizia a colpi di pistola e di armi da fuoco, vennero uccisi, gettati vivi nella Senna ed alcuni furono ritrovati impiccati nei boschi. I morti furono quasi 300 più alcune migliaia di feriti.

Quello fu, forse, il più grave massacro di lavoratori avvenuto in Europa nel secolo scorso. Perché quel massacro è così poco ricordato e/o dimenticato? La risposta è semplice: perché le vittime erano tutte algerine. Si trattava di immigrati, di gente proveniente da quella parte del mondo considerata come una civiltà inferiore alla “civiltà occidentale”. Quello stesso Occidente che, anche dopo la seconda guerra mondiale, ha continuato e continua ancora a seminare morte, distruzione e guerre ovunque nel mondo.

I valori della rivoluzione francese del 1789 sono ancora ritenuti, dai più, fondativi delle democrazie occidentali e dell’Europa moderna. Ma come possiamo non vedere che un conto è stata la Francia “dei lumi” e un altro è stata la Francia colonialista?

Come possiamo non vedere che le democrazie occidentali si trovano dentro la pancia le pancia le missioni militari in Iraq, in Afghanistan ed in tanti altri luoghi sotto l’egida di un’alleanza politica-militare aggressiva – la NATO – sempre meno compatta ma ancora attiva e costituente una minaccia terribile e potente per ogni paese libero o che aspiri ad essere tale?

Oggi la Francia ha rilanciato il suo progetto neocolonialista e le sue truppe sono presenti in molte parti del mondo, soprattutto nelle sue ex colonie, in cui interferisce pesantemente negli affari interni, rovesciando gli eventi e imponendo uomini di propria fiducia per appropriarsi delle risorse di quei paesi. E se la Libia è diventata un inferno, lo si deve anche e soprattutto alla politica estera aggressiva e neocoloniale della Francia che, in ciò, ha potuto avvalersi del decisivo intervento della NATO.

Non è bastato sapere che un secolo di dominio francese, solo in Algeria, causò un milione di morti.

La Spagna puzza ancora di franchismo

In Spagna, ad esempio, la puzza del franchismo è ancora fortissima. Il processo eminentemente politico al quale il tribunale supremo ha sottoposto gli indipendentisti catalani, le decine di aggressioni ai giornalisti di cui si è resa protagonista la polizia e l’uso indiscriminato delle pallottole di gomma, hanno spinto in un numero crescente di osservatori a denunciare la persistenza di vizi antichi nelle attuali istituzioni statali.

È il caso della deputata portoghese Joana Mortágua (del Bloco de Esquerda), che ha affermato: “Madrid rischia di rimanere dal lato sbagliato della storia. Sembra che la Spagna non abbia imparato niente né da mezzo secolo di dittatura, fondato su un ferreo spagnolismo, né dalla repressione violenta della realtà nazionale. Il castiglianismo, che fu l’arma dell’aristocrazia, ora è usato per servire gli interessi della élite economica in una Spagna unica diretta da Madrid”. Invece di essere messo al bando, il nazionalismo spagnolo viene oggi usato senza risparmio, anche al di fuori della sua area di provenienza. Secondo la deputata portoghese “È inevitabile scorgere in questo atteggiamento sia il fatto che la democrazia non ha imparato la lezione, sia l’avvicinamento del PSOE allo spagnolismo più reazionario, che ha sempre animato i partiti di destra. Comunque sia la questione, il governo spagnolo non può negare la sua deriva autoritaria.”[2]

Una violenza brutale di Stato che hanno subito per decenni anche gli indipendentisti baschi sottoposti in massa a terribili torture, esecuzioni stragiudiziali e carcerazioni durissime in esito a processi sommari o lunghe dentezioni “amministrative”.

La guerra alla ex Jugoslavia è stata uno spartiacque

La notte tra il 23 e il 24 marzo del 1999, la NATO diede avvio al primo dei 78 giorni di bombardamenti sull’allora Repubblica Federale di Jugoslava, a Belgrado, Serbia odierna. L’obiettivo politico-militare era lo smembramento della Jugoslavia, inserito in un piano più grande di generale frammentazione di quei territori che, dalla caduta del muro di Berlino in poi, si trovarono nella complicata condizione di essere quella ex-terra di mezzo tra i due blocchi protagonisti della Guerra fredda, e quindi preda di Usa, NATO e nascente Unione europea. Quei 78 giorni posero fine ad una guerra sanguinosa e fraticida tra popoli e persone che, fino alla fine degli anni ottanta, avevano convissuto pacificamente.

Per 78 giorni furono bombardate le città, le fabbriche come a Kraugujevac e Pancevo, i ponti sul Danubio, le ferrovie mentre transitavano i treni, con molti morti, feriti e profughi che nessuno ha voluto vedere. Una ben precisa cortina di silenzio coprì ciò che che è stato fatto alla fabbrica Zastava che produceva componenti per la FIAT e che fu ridotta ad un mucchio di macerie. Perché la zona dell’azienda è quella della città di Kragujevac – un tempo centro propulsivo dell’industria pesante jugoslava – che gli aerei della NATO, durante la guerra di aggressione, misero a ferro e fuoco e su cui scaricarono tonnellate di bombe.

La fabbrica Zastava venne distrutta: persero così la propria occupazione 38.000 operai, con ripercussioni sull’economia di almeno 100.000 persone. Inoltre, nei bombardamenti furono uccise circa 200 persone e furono distrutte almeno 800 abitazioni, tra case ed appartamenti; oltre alla Zastava furono ovviamente distrutte altre fabbriche, istituzioni culturali, scuole, presìdi sanitari ed altro.

La chiamano “esportazione della democrazia”. L’uranio impoverito contenuto nelle bombe e nei proiettili utilizzati dalla Nato durante i bombardamenti aerei contro la Federazione Jugoslava nella primavera del 1999 è stata la principale causa dell’impennata delle morti per cancro registrata nel sud della Serbia.

Gli Stati Uniti, con la promozione dell’UCK (sigla albanese delle forze indipendentiste kosovare) da organizzazione terroristica a paladini della libertà, diedero mano libera a questi ultimi di alzare la tensione nella regione e giustificare così l’intervento armato “umanitario” per mezzo della NATO. Il mancato accordo dei colloqui di Rambouillet, fu la trappola finale. Una proposta irricevibile per le Repubbliche rimaste federate in cui, tra le altre cose, si “chiedeva” a queste ultime la piena agibilità militare della Nato sul proprio territorio.

Nel 2014, gli uomini dell’UCK, che governano in Kossovo con metodi apertamente mafiosi, sono stati accusati dal Tribunale Penale Internazionale di crimini contro l’umanità e di pulizia etnica.

Peraltro, quel marzo del 1999 registrò, per noi italiani, un salto di qualità importante: il neo governo capeggiato da D’Alema, sostenuto tra gli altri dal PdCI di Cossutta, certificò la sudditanza della “sinistra” italiana alla NATO e all’aggressione armata all’ex Jugoslavia. Sulla stessa linea si schierarono Cgil, Cisl e Uil ed il mondo dell’”associazionismo”.

Tutti insieme si allinearono con la «dolorosa necessità» menzionata dall’allora segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, di quell’attacco militare. Tra le altre cose, i dati finanziari della “Missione Arcobaleno” – una missione umanitaria del valore di 32 miliardi di lire messa in piedi dal governo – rendono di sicuro più chiaro le ragioni profonde di un tale posizionamento.

“Per me la Jugoslavia era l’Europa [...] La Jugoslavia, per quanto frammentata sia potuta essere, era il modello per l’Europa del futuro. Non l’Europa come è adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con la sua zona di libero scambio, ma un posto in cui nazionalità diverse vivono mischiate l’una con l’altra, soprattutto come facevano i giovani in Jugoslavia, anche dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia l’Europa, per come io la vorrei. Pertanto, in me l’immagine dell’Europa è stata distrutta dalla distruzione della Jugoslavia“.

Così scrisse Peter Handke all’indomani dei bombardamenti sulla Serbia e, per quelle parole, divenne un “reietto” subendo un ostracismo quasi trentennale da parte dell’intera comunità culturale ed accademica europea ed occidentale.

L’aggressione e i bombardamenti contro la Federazione Jugoslava (quella tra Serbia e Montenegro), furono l’ultima guerra del XX Secolo e la “prima guerra in Europa” alla vigilia del nuovo secolo. Non fu responsabilità solo degli Stati Uniti, perché tutte le maggiori potenze europee (Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia) presero parte attivamente all’aggressione attraverso una risoluzione della NATO che aveva aggirato ogni eventuale ostacolo da parte dell’ONU.

“Quell’aggressione porta la responsabilità di quello che fu definito “l’Ulivo mondiale”, infatti i capi di stato dell’epoca erano tutti dell’area liberal e socialdemocratica: Clinton, Schroeder, Jospin, Blair e D’Alema. Per la nascente Unione Europea, l’aggressione alla Jugoslavia fu una sorta di “guerra costituente” nella quale le potenze europee – Germania e Francia soprattutto – non intesero lasciare tutto lo spazio di manovra agli Stati Uniti per una guerra sostanzialmente alla periferia dell’Europa. In questo senso l’aggressione alla Jugoslavia diventerà uno spartiacque tra un prima e un dopo nelle relazioni transatlantiche (la cui crisi diventerà più leggibile quattro anni dopo con lo smarcamento di Francia e Germania dall’invasione Usa dell’Iraq). I bombardamenti su Belgrado e le altre città serbe (tra cui i ponti sul Danubio, lo stabilimento della Zastava di Kragujevac presidiato dagli operai, il petrolchimico di Pancevo che inquinò per anni tutta la regione), furono preceduti e seguiti da una imponente – e umiliante per molti giornalisti onesti – campagna mediatica volta a demonizzare la Serbia e la popolazione serba, a far credere all’opinione pubblica mondiale che i Serbi stessero ponendo in atto, scientemente e con premeditazione, un tentativo di genocidio ai danni della popolazione kosovara di etnia albanese.”[3]

Come non ricordare la coraggiosa diretta Tv di Michele Santoro dai ponti di Belgrado, dove la popolazione si affollava offrendosi come bersaglio per impedire che venissero bombardati dagli aerei e dai missili della Nato? Oppure le isolate corrispondenze Rai di Ennio Remondino? I cartelli e le spillette indossate dai civili serbi riproducevano l’immagine del “Target”, il bersaglio, che divenne ben presto il simbolo di chi si opponeva alla guerra.

La strage di Odessa del maggio 2014: un massacro impunito

Il 2 maggio di 5 anni fa si consumava uno dei più efferati e sanguinosi delitti della storia recente eppure nessun telegiornale ne parla o ricorda questa data. Perché? Il massacro avvenuto nella Camera del Lavoro di Odessa, in Ucraina fu il prologo al colpo di stato preparato e finanziato da potenze straniere e consumatosi in piazza Maidan a Kiev.

Un presidio permanente si svolgeva da giorni ad Odessa ed in questa importante città, strategica per le potenze organizzatrici della rivolta colorata, doveva essere spenta nel sangue ogni scintilla di ribellione. Fu così che gli ucraini inviarono le milizie naziste mascherate da tifosi di calcio, approfittando di una partita che si sarebbe svolta in quel giorno. Ma nessuno di quelli andò allo stadio. Si recarono invece, organizzate in bande armate e preparate al massacro di ogni resistente alla Casa dei sindacati. Attaccarono dapprima i manifestanti pacifici, li fecero a pezzi con le spranghe di ferro e innumerevoli furono i ricoveri per ferite anche gravi.

Gruppi organizzati portavano le bottiglie molotov per costringere i gruppi più riottosi a ritirarsi, e li fecero arretrare fino alla piazza antistante la Casa dei sindacati. Qui si svolse la tragedia. Alcune tv locali filmarono i capi dei nazisti ucraini che sparavano contro i resistenti al golpe asserragliati dentro la casa dei sindacati, che pensavano di aver trovato scampo al suo interno ma finirono invece in trappola.

Squadre di assassini penetrarono all’interno dell’edificio, uccidendo tutti coloro che vi si trovavano dentro a mano a mano che li incrociavano. Furono trovati corpi di donne denudati, corpi semicarbonizzati, corpi abusati in maniera oscena ed indicibile, una barbarie infinita e terribile.

Tutta la macabra operazione fu coperta con il lancio continuo di bombe molotov all’ingresso per cancellare con il fuoco quel che era stato appena compiuto e per bloccare chiunque tentasse di abbandonare l’edificio. Alcune immagini mostrano come chi tentasse di uscirne per il fuoco ed il fumo veniva poi pestato a morte. Altri furono colpiti dal fuoco dei cecchini appena si affacciavano alle finestre.

La versione ufficiale parlò di 48 morti ma il conteggio ufficiale non rese mai conto delle denunce di scomparsa che si accumularono, fino ad ipotizzare un numero di molto superiore alle 100 vittime. Nessun processo è mai arrivato a stabilire una responsabilità per quanto accaduto, come per i cecchini di piazza Maidan, i golpisti non cercarono mai i colpevoli di quelle stragi, per evitare di autoaccusarsi. Se cercate su Wikipedia non trovate informazioni complete al riguardo, se non due righe mal scritte e che ricalcano la versione delle autorità bollando il tutto come scontro tra tifoserie ed incidente dovuto al fumo dell’incendio.

Ai notiziari della RAI si parlò di un “incidente” ad Odessa nonostante già si contassero decine di morti e mentre le tv presenti trasmettevano in diretta le immagini dalla piazza, le fiamme, le urla, gli spari, e la furia assassina dei nazionalisti ucraini. Fu un “pogrom”, un massacro, programmato, preordinato, e portato a compimento con spietata determinazione. Il silenzio alternato a racconti inverosimili fu il modo in cui i media occidentali trattarono quell’orrore.

I golpisti ucraini godevano del pieno sostegno dell l’Unione Europea e degli USA, pertanto andava difesa un’immagine che tenesse lontana la realtà delle bande di assassini nazisti, di criminali al governo, di stragi commesse, di giornalisti e esponenti politici massacrati di botte od eliminati fisicamente, come di lì a poco sarebbe accaduto anche al nostro connazionale, il coraggioso e bravo Andrea Rocchelli, fotografo e giornalista, ucciso dagli stessi nazisti ucraini il 24 dello stesso mese di maggio, assieme al suo interprete Andrei Mironov.

Il 2 maggio di quest’anno ricorreva il quinto tragico anniversario della strage alla Casa dei sindacati di Odessa. Il 28 aprile 2019 neonazisti e veterani nazisti ucraini hanno celebrato a L’vov il 75° anniversario della formazione della divisione SS “Galizia”. Il truce rituale si è svolto con l’intervento dell’orchestra militare di stato e di rappresentanti ufficiali, a testimoniare come, su questo versante, i “cambiamenti” da un Presidente all’altro non riguardino la natura dello Stato golpista ucraino.

Il leader del gruppo terroristico-nazionalista “C14”, Evgenij Karas, da sempre braccio armato del (a questo punto, ex) Presidente golpista Petro Porošenko, ha farneticato che quanto commesso cinque anni fa a Odessa sia stato “il trionfo della vita e del bene”. Questa è l’Ucraina della “democrazia europeista” così cara anche agli italici demoindivisivi. Per quella strage nazista: nessun colpevole, nessun mandante, secondo la magistratura golpista di Kiev.

Anche il nuovo presidente ucraino, Vladimir Zelenskij, che di Kolomojskij è la pedina e che ha promesso di consegnare alla giustizia i responsabili delle sconfitte di Ilovajsk e Debaltsevo, non ha detto una parola su autori e mandanti della moderna “Katyn” nazista, quella di Odessa. E anche in Occidente nessuno ha mai scritto “Je suis Odessa”. Nessun “democratico”, di quelli che declamano la “democrazia assoluta”, senza distinzioni di classe e di epoca e nessuno di loro ha mai tremato stringendo la mano ai golpisti ucraini, mandanti ed esecutori diretti della strage di Odessa. [4]

L’11 luglio 2017 il Consiglio Europeo ha adottato una decisione relativa alla conclusione, a nome dell’UE, dell’”accordo di associazione con l’Ucraina”. Si è trattato della fase finale del processo di ratifica, che ha consentito la piena attuazione dell’accordo a partire dal 1º settembre 2017.

L’accordo, nei suoi enunciati principali, “promuove l’approfondimento dei legami politici; il rafforzamento dei collegamenti economici; il rispetto dei valori comuni”(!). Ma la sostanza dell’accordo sta nella sua parte economica ed è nell’istituzione della ” zona di libero scambio globale e approfondita (DCFTA). I negoziati con l’Ucraina erano stati avviati nel 2007.

I primi capitoli politici sono stati firmati nel marzo 2014, esattamente un mese dopo il golpe. Dopo le elezioni presidenziali in Ucraina, i capitoli rimanenti sono stati firmati il 27 giugno 2014, a margine del Consiglio europeo. Parti importanti dell’accordo erano già applicate in via provvisoria dal 1º settembre 2014, ovvero, 7 mesi dall’avvento del governo golpista riconosciuto dalle potenze occidentali.

L’Unione Europea era ben consapevole che a quel governo partecipavano diversi membri di organizzazioni esplicitamente naziste. [5]

La Grecia, un paese distrutto

E poi c’è la Grecia che è lì a testimoniare di quale sostanza sia fatta questa Unione Europea. Per padre Ioannis Patsis, vice presidente di Caritas Grecia e direttore di Caritas Atene, la Grecia di oggi è un po’ come “la vedova del Vangelo che, nella sua miseria, dona al Tempio tutto quanto aveva. I due spiccioli necessari per vivere”.

Dal 20 agosto 2018 la Grecia è uscita ufficialmente dal “programma di aiuti europeo”, avviato a maggio del 2010 ma è ancora dentro un tunnel nerissimo. Con oltre 288 miliardi di euro da restituire alla Troika (BCE, FMI e UE) non si può certo dire che la Grecia sia fuori da una crisi di cui non si vede la fine.

La Grecia odierna, dopo la “cura” che le è stata imposta dalla UE ci appare come un paese distrutto: non ha più industrie, il settore edilizio è fermo, le imprese chiudono, gli investimenti sono un miraggio, sanità e scuole sono al collasso. Sempre più gente non si cura per mancanza di soldi ed è aumentata la mortalità infantile. Non ci sono soldi e non c’è lavoro. A ciò si aggiunge la presenza di tantissimi rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Siria, Pakistan, Afghanistan, Africa, Albania e, adesso, anche dalla Turchia (negli ultimi tre anni sono arrivati in Grecia migliaia di turchi che hanno richiesto asilo politico).

Non basta. Ad aggravare la situazione è l’età avanzata della popolazione. Oggi arrivare a percepire la pensione è miracolo e, in ogni caso, si tratta di assegni poverissimi dopo i 14 tagli(!) che hanno subito nel giro di pochi anni.

Conclusione? “Oggi in Grecia è molto difficile vivere, devi pregare e sperare di avere forza e salute per affrontare questa situazione”. La Grecia oggi è l’estrema periferia dell’UE e il vice presidente di Caritas Grecia non nasconde la sua rabbia per questo. “Non dovevamo entrare nell’Euro. Non ne avevamo le capacità e le possibilità. La vita sembra fermarsi come dimostrano il netto calo dei matrimoni e delle nascite e l’aumento delle morti”[6].

Secondo stime della Banca centrale di Grecia mezzo milione di ellenici, quasi tutti ben istruiti, sono emigrati all’estero con famiglie al seguito. Dal 2008 ad oggi il PIL greco ha fatto registrare un meno 28% e solo lo scorso anno è tornato a crescere ma molto al di sotto delle previsioni. Resta grave la disoccupazione ed il debito è salito al 190% del PIL per effetto dei prestiti ricevuti dalla Troika e dei prestiti delle banche oggi sommerse da rate non pagate. E così anche il boom del turismo – con 30 milioni di presenze nel 2018 – rischia di rivelarsi un brodino caldo.

Ma perché la Grecia è stata ridotta così? Perché altri paesi europei stanno seguendo la stessa direzione? Perché l’Italia continua al applicare ininterrottamente dal 2011 leggi finanziarie improntate all’austerity più dura a prescindere dai cambi di governo? Eppure a settembre gli stessi esperti della UE (European Fiscal Board) hanno ammesso il fallimento delle politiche di austerity dato che hanno prodotto solo recessione ora anche in Germania.

Un nuovo olocausto, ai confini dell’Europa

Ed in ultimo, ma non per ultimo, il tacito rinnovo degli accordi italo-libici del 2017, voluti e firmati da Unione Europea, Gentiloni e Minniti, (principali criminalizzatori delle ONG del mare) che sancirono la complicità italiana con le torture ed i lager libici e di cui si hanno, da tempo, inconfutabili evidenze e prove sostenute dall’ONU.

Se ad est l’Unione Europa versa miliardi di euro ad Erdogan perché trasferisca i profughi siriani nell’ex Rojava – dal quale sta cacciando il popolo Curdo a suon di bombe vendutegli da fabbriche europee ed italiane con il placet della NATO – obbligandoli, sotto la minaccia di essere torturati o uccisi, a sottoscrivere una “autodichiarazione di volontà a voler tornare in Siria”, a sud la UE paga altrettanto lautamente il capomafia Bijia ed Al Serraji perché impediscano i soccorsi nel loro tratto di mare e trattengano i profughi africani nei lager in cui vengono torturati, stuprati e tenuti come ostaggio per estorcere alle povere famiglie di provenienza qualche centinaio di dollari o euro.

A poco a poco, si stanno, così, ricreando le condizioni di un vero e proprio nuovo olocausto che, man mano che gli effetti del cambiamento climatico si estenderanno, rischia di assumere proporzioni fini qui inimmaginabili.

Peraltro, a marzo di quest’anno la UE aveva ridotto la già discutibile Operazione “Sophia” abbandonando migranti e rifugiati nelle mani della famigerata Guardia costiera libica.

“[…] Dopo aver usato ogni pretesto a loro disposizione per precludere il Mediterraneo alle navi di soccorso delle ONG e avendo già interrotto diversi mesi fa le loro operazioni di soccorso, i governi dell’Unione europea stanno ora togliendo le proprie navi in modo che nessuno possa salvare le vite di uomini, donne e bambini in pericolo“.

Così commentava Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International sull’immigrazione, all’indomani della ratifica del 27 marzo 2019 da parte dei governi dell’Unione europea, della decisione di sospendere le attività di pattugliamento nel Mediterraneo previste dalla missione militare “Sophia” lasciando mano libera ai libici mentre già si impediva il soccorso in mare alle ONG.

Certo, i Salvini, gli Orban ed i Kazynski hanno costruito sul fenomeno delle migrazioni la propria narrazione propagandistica dell’“invasione” e della “sostituzione etnica” (e gli funziona benissimo) per alimentare la guerra tra poveri sfruttando un format ben collaudato nel corso del novecento. Ma quelli che sono ora al governo della UE stanno continuando a girarsi dall’altra parte e pagano altri per fare il lavoro sporco ammantandosi, tuttavia, di un tanto vago quanto ipocrita umanitarismo.

La guerra in casa

L’Unione Europea è in un delicato passaggio di fase dovuto alla competizione inter-imperialistica che da un lato la costringe ad intensificare la propria politica neo-coloniale – in special modo in Maghreb e nell'Africa sub-sahariana – e dall’altro è costretta a proseguire nelle politiche di austerity, producendo una torsione autoritaria che se appare evidente solo quando viene sfidata da un movimento sociale di rottura nel Continente, è un dato strutturale e quotidiano per i movimenti politici e sociali che si muovono sulla “Sponda Sud”.

In questo contesto “la guerra” come paradigma della politica sta divenendo sempre più il cuore della proiezione di potenza della UE, così come la messa in campo di una macchina militare all’altezza una sua priorità. Ma l’ostilità, e non la cooperazione, sembra essere allo stesso modo il nesso con cui le oligarchie continentali vorrebbero che si relazionassero i popoli delle due sponde del Mediterraneo, allineandosi con le strategie di governance che fanno della guerra dei “penultimi” contro “gli ultimi” il perno della possibilità di perpetuare l’attuale sistema, e che hanno nel “patriottismo europeo” il più marcio dei suoi frutti ideologici.

Per l’Unione Europea democrazia e diritti umani sono valori negoziabili

La costruzione dell’Unione Europea è una creazione delle élite politiche, economiche e finanziarie continentali per dar vita a un mercato unico sovranazionale con il fine di creare uno spazio economico continentale per favorire un sistema politico capace di fare competere le proprie imprese con quelle delle altre grandi potenze. Ma per far questo la UE ha sottratto competenze sovrane ai Parlamenti consegnandoli nelle mani di un’oligarchia formata da governi, Commissione di Bruxelles, Banca centrale di Francoforte.

Con il Fiscal Compact, il Patto Fiscale, con il Trattato del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), con il pareggio di bilancio introdotto in Costituzione, Bruxelles ha imposto le politiche di austerità che hanno deregolamentato e liberalizzato il mercato del lavoro, privatizzato sanità e servizi pubblici, aziendalizzato scuola e Università per renderle funzionali ai bisogni di formazione delle imprese capitalistiche, tagliato le pensioni e innalzato l’età pensionabile, semplificato le procedure amministrative e giudiziarie per favorire la competitività delle imprese private; hanno dato garanzie e sostegni finanziari alle banche mentre hanno tagliato i finanziamenti ai Comuni che hanno tagliato a loro volta i servizi al cittadino.

Quando ci si lamenta dell’assenza di un’Europa politica e di un’Europa sociale e dei diritti, si evoca una questione di fondo che viene tanto continuamente evocata quanto ignorata: quella che abbiamo davanti è un’Europa senz’anima che si occupa solo di banche, finanza, capitali e troppo poco di esseri umani.

L’Unione Europea ha costruito una retorica su sé stessa che si basa sull’idea che solo all’interno di quella costruzione sia possibile mantenere pace e stabilità tra le nazioni che vi fanno parte onde evitare che si ripetano tragedie come le due guerre mondiali oltre che sull’idea che essa stessa sia l’infallibile garante dei diritti umani e della democrazia. Oggi sappiamo che questa narrazione non ha retto alla prova dei fatti.

Tanti, troppi buchi. Perché la UE chiede conto da anni al Venezuela e poi dichiara il proprio appoggio ai golpisti massacratori di indios boliviani nonché quello al pinochettista Pinheira? Come mai la UE invece di chiedere la fine dei bombardamenti in Yemen che stanno causando una delle più grandi catastrofi umanitarie del dopoguerra, riempie i Sauditi di bombe ed armi devastanti? E come mai la UE non chiede conto al regime di Al Sisi delle continue sparizioni di oppositori, giornalisti ed avvocati? Per queste ed altre domande simili troverete una sola risposta: “business as usual“ (affari, come al solito).

Quando si parla di Europa, di Unione Europea e di nuovi razzismi, ci si dovrebbe interrogare anche su tutte queste inquietanti rimozioni. La Germania sembra abbia fatto più di altri, al suo interno, i conti con il proprio terribile recente passato ma alcune sviste sono ancora lì e certo è ancora vivo il ricordo di Stammheim. Gli altri paesi europei, invece, si dimenano da svariati decenni intorno alle crisi delle proprie fragili democrazie in preda a revanscismi e ad improvvise torsioni autoritarie occultando i capitoli più neri del proprio passato che poi continuamente riemerge in varie forme e modi.

Se è vero, come scrisse Giorgio Agamben che “[. ..] quasi nessuno dei princìpi etici che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi ha retto alla prova decisiva, quella di una Ethica more Auschwitz demonstrata” [7] è altrettanto vero che l’Europa ha già tradito il giuramento “mai più Auschwitz” dal momento in cui l’Unione Europea, da anni, risponde al fenomeno delle migrazioni con politiche che sollecitano, supportano e finanziano attività di respingimento e di segregazione aberranti e disumane fino alla creazione di un nuovo mostruoso, gigantesco universo concentrazionario ai suoi confini marini e terrestri.

Dall’oblio, dalla mistificazione e dalla manipolazione della storia non può venire fuori nulla di buono e questo dovrebbero capirlo pure quelli che stanno a Bruxelles e Francoforte. Ma soprattutto dovremmo iniziare a capirlo noi.

Note:

[1] Albert Camus, La contagione, in Acteuelles, Ecrits politiques, Paris, Gallimard, 1977

[2] Andrea Quaranta, Spagna, la puzza del franchismo, da Catalunya senza articolo/Contropiano del 23/10/2019

[3] Sergio Cararo, Noi non dimentichiamo nulla. Venti anni fa le bombe della Nato sulla Jugoslavia, Contropiano del 23/03/2019

[4] Fabrizio Poggi, Cinque anni fa la strage di Odessa, Contropiano del 03/05/2019

[5] Thierry Meyssan, chi sono i nazisti nel governo ucraino? Voltairenet.org del 03/04/2014

[6] Daniele Rocchi, Crisi in Grecia: p. Patsis (Caritas), “aiutateci! Da soli non ce la facciamo più a dare aiuto ” , da Agensir del 13/12/2018

[7] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone. Homo sacer di Giorgio Agamben, ed. Bollati Boringhieri, 1998

Fonte

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