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28/12/2019

Contro la peste del “voto utile”

In questo disgraziato paese siamo sempre in tempo di elezioni, per qualsiasi livello istituzionale. E di conseguenza quella che viene comunemente chiamata “la politica” è ridotta a una campagna elettorale permanente in cui ogni discorso sensato, ogni bisogno sociale, ogni pensiero viene tritato in una sbobba indigeribile di frasi fatte che non significano nulla.

L’”offerta politica” – le liste per cui votare, certi che nulla di quanto promesso verrà mantenuto – sono apparentemente tante, ma alla fine si riducono a due raggruppamenti, visto che anche la presunta “anomalia” grillina si è andata dimostrando di assoluta inconsistenza.

Alla vigilia delle elezioni regionali in Emilia Romagna e in Calabria ci ritroviamo perciò esattamente come nei primi anni ‘90, quando ci veniva chiesto di dare un “voto utile” a battere il brubru del tempo, l’impresario milanese Silvio Berlusconi. Naturalmente per “fermare il fascismo”, perché se avesse vinto ce lo saremmo tenuti sul groppone “per un Ventennio” (con la maiuscola, per ricordare quello vero).

Come sappiamo, Berlusconi ce lo abbiamo ancora sui cabbasisi, qualche elezione l’ha vinta, qualcuna l’ha persa, il fascismo non è arrivato. La dialettica politica si è molto involgarita, i fascisti vecchi e nuovi (da “Frateli d’Italia” a CasaPound) sono stati sdoganati, ma sostanzialmente tenuti nell’angolo come minacce da tirar fuori all’occasione.

In fondo Berlusconi è stato defenestrato dall’Unione Europea, non dal “voto utile”, a fine 2011, dopo una lettera poco amichevole dei presidenti della Bce (l’uscente Trichet e il subentrante Mario Draghi) che indicavano il programma di “riforme” che anche l’Italia doveva mettere in atto.

Il Cavaliere si fece disciplinatamente da parte, garantendo anche i voti al governo di Mario Monti ed Elsa Fornero. Insieme al Pd, che intanto veniva scalato dal volto nuovo della massoneria toscana, scovato dal talent scout Denis Verdini (che di Berlusconi era stratega parlamentare).

Eppure il ritornello del “voto utile per fermare il fascismo” è continuato ad ogni elezione, sempre uguale. Ancora con Berlusconi vitale (elezioni del 2013), poi con il nuovo brubru milanese, il noto Matteo Salvini, dal 2018.

I risultati di questa campagna permanente per il “voto utile” non si possono definire esaltanti. Come Berlusconi, anche Salvini ha vinto più volte. Come Berlusconi, anche Salvini ha chinato il capo davanti ai diktat dell’Unione Europea. Al pari di Pd e Cinque Stelle, con in più soltanto la trovata di uscire dal governo prima di approvare ufficialmente la legge finanziaria e il trattato di riforma del MES (Meccanismo europeo di stabilità), cui aveva dato l’ok politico fin dalla fine del 2018.

Perché – diciamolo chiaro e forte – in questo paese svenduto non c’è alcun rischio di “ritorno del fascismo”. C’è infatti un dominio economico e politico assoluto che impone a qualsiasi governo, di qualsiasi presunta colorazione politica, un programma di austerità deciso in altre sedi. Palazzo Chigi è insomma una scatola vuota, senza “stanza dei bottoni”, tranne quello che serve a scatenare la polizia se qualcuno protesta appena un po’.

In effetti, questo dominio ha qualche fortissima somiglianza con i regimi non democratici, ma ci tiene a mantenere il simulacro delle “libertà formali” nel mentre sottrae a tutti i popoli del Vecchio Continente la prima delle libertà sostanziali: quella di poter decidere come usare le proprie risorse, la ricchezza prodotta, in quale misura e per quali scopi. In poche parole, di poter decidere quale “modello di società” costruire.

Messe così le cose, per qualsiasi forza politica “normale” si voti, quel voto è effettivamente inutile. Pd, Lega, Cinque Stelle, FdI, frattaglie varie, una volta al governo – nazionale o territoriale – applicano esattamente le stesse misure, contrattandole con la Commissione Europea. Possono variare i decimali di punto, il tasso di razzismo esplicito, la pesantezza del linguaggio politico. Non la sostanza delle “cose da fare”.

L’unico “voto utile”, di conseguenza, è quello che può servire a far crescere, affermare, radicare una forza politica radicalmente alternativa. Ossia una forza che si propone di costruire un altro modello di società, fondato su valori opposti al quelli del profitto e del Pil, fuori e contro il coro sguaiato dei servi dell’Unione Europea, in competizione tra loro come valvassini medioevali.

Ma anche se non si condivide del tutto questa visione della realtà, resta il fatto che quasi 30 anni di appelli al “voto utile” hanno ottenuto un solo risultato pratico: la scomparsa della “sinistra”.

Questo termine aveva sostituito quelli un po’ più definiti (comunisti, socialisti, ecc.), sull’onda del “crollo del Muro” e nella manifesta incapacità di elaborare le ragioni di una sconfitta storica. Sotto quella bandiera ci si poteva muovere in apparente libertà rispetto a categorie di analisi, valori ideali, obbiettivi politici, programmi sociali. Mescolando di tutto un po’, rigorosamente nella vaghezza più indeterminata. Fino al punto di scoprire di non avere più letteralmente nulla di originale da offrire sul “mercato politico”; ossia di esser rimasti senza consenso sociale.

Insomma, per “la sinistra”, quel voto “utile” ha avuto la stessa funzione della peste...

Il “voto utile”, del resto, è profondamente conservatore. Frutto della logica bipolare e della “convergenza al centro”, mascherata da “vocazione maggioritaria”, impone l’eliminazione delle “ali estreme”. O meglio: dell’alternativa di sistema. È come se dall’alto il Potere sentenziasse: “non avrai altro governo all’infuori di me”.

Chi accetta questa logica si sta già iscrivendo al Pd o alla Lega (è indifferente per quale dei due), perché riduce il suo ruolo a quello di portatore d’acqua verso il contenitore più grosso collocato nei pressi della linea di demarcazione tra due poli concorrenti. E l’elettore, che capisce facilmente il gioco, va direttamente a quel contenitore, per i motivi più vari (dalle esigenze clientelari alla “punizione” di chi lo ha deluso).

Perciò, arrivati al 2020, affacciandosi sulle regionali dell’Emilia Romagna (in Calabria non ci si è riusciti, per ora), l’unico voto che abbia un senso è quello a Potere al Popolo, con in testa la faccia pulita di Marta Collot.

Non vinceremo questa volta. Forse “non eleggeremo” (l’ansia mortale che ha annientato “la sinistra” dal 2008 in poi...). Ma già con lo sforzo fatto per raccogliere migliaia di firme si è iniziato a consolidare una comunità organizzata, una volontà di riscatto, una riscoperta di valori forti, una sperimentazione riuscita di come stare sul territorio e riaprire un dialogo da vicino con la “nostra gente”.

Sapendo che una vera alternativa di sistema non si improvvisa con una “pensata geniale”, con una semplice operazione di marketing.

Senza scimmia della sconfitta sul collo, sapendo che ci vorrà tempo e suole e cervello e tanta serietà.

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