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30/12/2019

Trent’anni fa, il sangue di Panama

A distanza di trent’anni dalla sanguinosa invasione statunitense, il presidente Laurentino Cortizo ha dichiarato il 20 dicembre giorno di lutto nazionale “per onorare tutti gli innocenti che persero la vita e difesero l’integrità del nostro territorio”. È la prima volta che il governo panamense adotta una tale decisione, venendo incontro a una richiesta dell’Associazione dei familiari e amici delle vittime.

Un passo puramente simbolico: la bandiera nazionale è stata issata a mezz’asta, ma su pressione del mondo imprenditoriale fabbriche e uffici sono rimasti aperti. Si tratta comunque di una novità importante, che segna la presidenza di Cortizo (Partido Revolucionario Democrático) eletto nel maggio di quest’anno. Cortizo ha vinto le presidenziali con la promessa di lottare contro povertà e disuguaglianze, di rivedere il nefasto trattato di libero commercio con gli Usa che ha portato alla rovina l’agricoltura del paese e di prendere le distanze dalla politica estera di estrema destra delle amministrazioni precedenti.

Per tre decenni sugli avvenimenti del 20 dicembre 1989 è stato steso un velo di silenzio. Nessuna commemorazione ufficiale, nessuna inchiesta sull’accaduto. Solo nel 2016 – dopo innumerevoli sollecitazioni dei familiari – è stata creata una commissione presieduta dal rettore universitario Juan Planells e incaricata di ricostruire la verità storica. Ma lo stesso Planells ammette che i lavori procedono a passo di lumaca e del resto i fondi sono stati sempre erogati con il contagocce. Intanto decine di corpi senza nome giacciono ancora nei cimiteri: le prime esumazioni per identificarli avverranno soltanto in gennaio.

Giusta Causa. Così gli Stati Uniti ribattezzarono l’invasione, effettuata con il pretesto di arrestare il generale Manuel Antonio Noriega, accusato di narcotraffico e riciclaggio. 26.000 soldati occuparono il paese mentre gli aerei bombardavano la capitale, in particolare il popoloso quartiere di El Chorrillo, uccidendo centinaia, forse migliaia di civili (il numero esatto non è mai stato determinato). “Come si può distruggere un paese per catturare un solo uomo”: questo il commento del documentario Invasión, diretto nel 2014 dal panamense Abner Benaim.

Allo sbarco dei marines seguirono due anni di occupazione: come presidente venne imposto l'imprenditore Guillermo Endara al quale – secondo Washington – era stata sottratta la vittoria elettorale nel maggio 1989. Endara prestò giuramento in una base militare statunitense.
I superstiti attendono ancora che gli Usa paghino i danni umani e materiali di quell’azione. Nel 2017 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani aveva raccomandato al governo di Washington di “riparare integralmente le violazioni ai diritti umani tanto nell’aspetto materiale che in quello immateriale”. Le autorità statunitensi si sono limitate a condannare quattro militari per l’assassinio di civili, ma continuano a celebrare il “successo” dell’operazione.

Ma quale fu il vero motivo dell’invasione? La vicenda di Noriega ricorda quella di Saddam, passato da grande alleato a nemico giurato della Casa Bianca. Ex membro della Cia e giunto al potere nel 1983 con l’aiuto statunitense, Noriega aveva preso sempre più le distanze da Washington, che nel 1989 non lo considerava più funzionale ai proprii interessi. Secondo alcuni storici, il generale si era rifiutato di intervenire contro il governo sandinista del Nicaragua. Secondo un’altra ipotesi, aveva respinto una revisione dei Trattati Torrijos-Carter del 1977, grazie ai quali il Canale sarebbe tornato sotto sovranità panamense alla fine del 1999 (come poi avvenne).

Al di là delle ragioni congiunturali, l’invasione di Panama segna l’avvio di una nuova fase della politica statunitense. Pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, gli Stati Uniti sostituivano in America Latina il pretesto della guerra contro il comunismo con quello della guerra al traffico di droga.

Una politica che all’epoca ricercava l’avallo degli alleati del continente. Come si è appreso da documenti recentemente declassificati, all’alba del 20 dicembre George Bush padre contattò tre presidenti latinoamericani per avvertirli dell’inizio dell’invasione. Erano l’argentino Carlos Menem, il messicano Carlos Salinas de Gortari e il venezuelano Carlos Andrés Pérez. I tre Carlos erano di stretta osservanza neoliberista e di incondizionata fedeltà a Washington: il governo di Menem teorizzerà le “relazioni carnali” con gli Usa; quello di Salinas firmerà il Nafta, il Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord; il secondo mandato di Pérez si era già contraddistinto, nel febbraio di quell’anno, per il massacro di migliaia di persone che protestavano contro l’aumento del costo della vita (il cosiddetto caracazo). Al termine della loro presidenza, tutti e tre finiranno indagati per corruzione e Salinas anche per narcotraffico.

Quanto a Noriega, durante l’attacco riuscì a rifugiarsi nella Nunziatura Apostolica del Vaticano, ma il 3 gennaio del 1990 si consegnò ai militari statunitensi. Processato negli Usa, fu condannato a quarant’anni di prigione, poi ridotti a 17 per buona condotta. Scontata questa pena, nel 2010 venne estradato in Francia, dove gli vennero inflitti sette anni per riciclaggio. Nel 2011 però fu rinviato in patria, per rispondere di altre accuse riguardanti l’assassinio di esponenti dell’opposizione. Morirà a Panama nel 2017.

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