A distanza di trent’anni dalla sanguinosa invasione statunitense, il
presidente Laurentino Cortizo ha dichiarato il 20 dicembre giorno di
lutto nazionale “per onorare tutti gli innocenti che persero la vita e
difesero l’integrità del nostro territorio”. È la prima volta che il
governo panamense adotta una tale decisione, venendo incontro a una
richiesta dell’Associazione dei familiari e amici delle vittime.
Un passo puramente simbolico: la bandiera nazionale è stata issata a
mezz’asta, ma su pressione del mondo imprenditoriale fabbriche e uffici
sono rimasti aperti. Si tratta comunque di una novità importante, che
segna la presidenza di Cortizo (Partido Revolucionario Democrático) eletto
nel maggio di quest’anno. Cortizo ha vinto le presidenziali con la
promessa di lottare contro povertà e disuguaglianze, di rivedere il
nefasto trattato di libero commercio con gli Usa che ha portato alla
rovina l’agricoltura del paese e di prendere le distanze dalla politica
estera di estrema destra delle amministrazioni precedenti.
Per tre decenni sugli avvenimenti del 20 dicembre 1989 è stato steso
un velo di silenzio. Nessuna commemorazione ufficiale, nessuna inchiesta
sull’accaduto. Solo nel 2016 – dopo innumerevoli sollecitazioni dei
familiari – è stata creata una commissione presieduta dal rettore
universitario Juan Planells e incaricata di ricostruire la verità
storica. Ma lo stesso Planells ammette che i lavori procedono a passo di
lumaca e del resto i fondi sono stati sempre erogati con il contagocce.
Intanto decine di corpi senza nome giacciono ancora nei cimiteri: le
prime esumazioni per identificarli avverranno soltanto in gennaio.
Giusta Causa. Così gli Stati Uniti ribattezzarono l’invasione,
effettuata con il pretesto di arrestare il generale Manuel Antonio
Noriega, accusato di narcotraffico e riciclaggio. 26.000 soldati
occuparono il paese mentre gli aerei bombardavano la capitale, in
particolare il popoloso quartiere di El Chorrillo, uccidendo centinaia,
forse migliaia di civili (il numero esatto non è mai stato determinato).
“Come si può distruggere un paese per catturare un solo uomo”: questo
il commento del documentario Invasión, diretto nel 2014 dal panamense Abner Benaim.
Allo sbarco dei marines
seguirono due anni di occupazione: come presidente venne imposto
l'imprenditore Guillermo Endara al quale – secondo Washington – era
stata sottratta la vittoria elettorale nel maggio 1989. Endara prestò
giuramento in una base militare statunitense.
I superstiti attendono ancora che gli Usa paghino i danni umani e
materiali di quell’azione. Nel 2017 la Commissione Interamericana per i
Diritti Umani aveva raccomandato al governo di Washington di “riparare
integralmente le violazioni ai diritti umani tanto nell’aspetto
materiale che in quello immateriale”. Le autorità statunitensi si sono
limitate a condannare quattro militari per l’assassinio di civili, ma
continuano a celebrare il “successo” dell’operazione.
Ma quale fu il vero motivo dell’invasione? La vicenda di Noriega
ricorda quella di Saddam, passato da grande alleato a nemico giurato
della Casa Bianca. Ex membro della Cia e giunto al potere nel 1983 con
l’aiuto statunitense, Noriega aveva preso sempre più le distanze da
Washington, che nel 1989 non lo considerava più funzionale ai proprii
interessi. Secondo alcuni storici, il generale si era rifiutato di
intervenire contro il governo sandinista del Nicaragua. Secondo un’altra
ipotesi, aveva respinto una revisione dei Trattati Torrijos-Carter del
1977, grazie ai quali il Canale sarebbe tornato sotto sovranità
panamense alla fine del 1999 (come poi avvenne).
Al di là delle ragioni congiunturali, l’invasione di Panama segna
l’avvio di una nuova fase della politica statunitense. Pochi giorni dopo
la caduta del Muro di Berlino, gli Stati Uniti sostituivano in America
Latina il pretesto della guerra contro il comunismo con quello della
guerra al traffico di droga.
Una
politica che all’epoca ricercava l’avallo degli alleati del continente.
Come si è appreso da documenti recentemente declassificati, all’alba
del 20 dicembre George Bush padre contattò tre presidenti
latinoamericani per avvertirli dell’inizio dell’invasione. Erano
l’argentino Carlos Menem, il messicano Carlos Salinas de Gortari e il
venezuelano Carlos Andrés Pérez. I tre Carlos erano di stretta
osservanza neoliberista e di incondizionata fedeltà a Washington: il
governo di Menem teorizzerà le “relazioni carnali” con gli Usa; quello
di Salinas firmerà il Nafta, il Trattato di Libero Commercio
dell’America del Nord; il secondo mandato di Pérez si era già
contraddistinto, nel febbraio di quell’anno, per il massacro di migliaia
di persone che protestavano contro l’aumento del costo della vita (il
cosiddetto caracazo). Al termine della loro presidenza, tutti e tre finiranno indagati per corruzione e Salinas anche per narcotraffico.
Quanto a Noriega, durante l’attacco riuscì a rifugiarsi nella
Nunziatura Apostolica del Vaticano, ma il 3 gennaio del 1990 si consegnò
ai militari statunitensi. Processato negli Usa, fu condannato a
quarant’anni di prigione, poi ridotti a 17 per buona condotta. Scontata
questa pena, nel 2010 venne estradato in Francia, dove gli vennero
inflitti sette anni per riciclaggio. Nel 2011 però fu rinviato in
patria, per rispondere di altre accuse riguardanti l’assassinio di
esponenti dell’opposizione. Morirà a Panama nel 2017.
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