19/12/2019
Il Congresso vota l’impeachment per Trump, ma non ci sarà
L’America – gli Stati Uniti – non sta messa affatto bene. E se sul piano economico è banalmente la Storia a imporre il suo passo (tra due anni la Cina la sorpasserà quanto a Pil annuo), sul piano sociale e politico la crisi è molto più seria.
Da stanotte il presidente “strano”, Donald Trump, è ufficialmente sotto impeachment. Il Congresso, equivalente della nostra Camera, ha votato entrambi i capi d’accusa: «abuso di potere» (230 a favore, 197 contro) e «ostruzione delle indagini del Congresso» (229 a 198).
L’episodio scatenante riguarda i rapporti tra Trump e il neo-presidente ucraino Zelenskij, cui avrebbe chiesto di far aprire un’indagine contro il figlio di Joe Biden – ex vicepresidente e candidato alla presidenza per il “partito democratico” – sbloccando contemporaneamente 400 milioni di aiuti a quel paese. La magistratura di Kiev non è mai arrivata a mettere in pratica la richiesta, ma l’effetto mediatico – cavalcato dalla propaganda trumpiana – c’è stato egualmente.
Inutile fare la cronaca del “dibattito”, caratterizzato da interventi di un minuto dei semplici deputati per lasciare spazio agli interventi dei big. Quel che importa è sapere che al Senato la maggioranza è repubblicana e fedele a Trump, dunque il voto – salvo sorprese – “salverà” il presidente e lo terrà al suo posto fino alla fine del mandato (20 gennaio 2021) e gli consentirà anche di correre per la rielezione.
Ed è la campagna per le presidenziali, dunque, ad essere attraversata dalla “decisione storica” del Congresso. Ma non è affatto certo che il voto sull’impeachment sarà in grado di cambiare l’opinione pubblica degli States.
Il clima politico, come in molte altre parti dell’Occidente, sembra assolutamente polarizzato, persino in un paese in cui la differenza reale tra democratici e repubblicani è più apparente che reale. Diritti civili a parte, sui cui la destra è come sempre più “neghittosa”, non si sono mai viste grandi contraddizioni sulle politiche economiche, sociali, fiscali. Basti ricordare che è stato il “democratico” Bill Clinton ad abolire il Glass-Stegall Act che dagli anni ‘30 (dopo la Grande Crisi) imponeva la separazione tra banche d’affari (investimenti e speculazione) e banche “normali” (raccolta risparmi e prestiti a famiglie/imprese).
È insomma saltato, in particolare con la presidenza Trump, quel “comune accordo nel rispetto delle regole costituzionali” che aveva sempre regolato i rapporti tra i due schieramenti. Al punto che persino “Dirty Dick”, ossia Richiard Nixon, scelse di dimettersi prima che il Congresso votasse sul suo impeachment, evitando l’onta di esser messo sul banco degli imputati. E questo nonostante fosse già stato salvato dal Senato (allora c’è una situazione assolutamente identica a quella attuale, con maggioranze diverse nelle due Camere).
Che Trump, invece, faccia l’esatto opposto sta ad indicare che il “patto costituente” non è più considerato valido, che si possono “strappare le regole” e magari neanche essere punito dal “tuo” elettorato.
Ma questo è il principio della guerra civile, ossia della cessazione del reciproco riconoscimento e la delegittimazione dell’avversario.
Come avevamo segnalato già al momento dell’elezione di Trump, il fatto stesso che il “meccanismo di selezione” non gli avesse impedito di essere infine candidato stava a significare una crisi serissima delle istituzioni yankee. Fin lì, infatti, i candidati “dirazzanti” rispetto agli equilibri storici dell’establisment erano stati “fermati” con le buone (bocciatura alle primarie) o le cattive (un colpo di pistola, come nel caso di Robert Kennedy).
Ma, a quanto pare, neanche gli Stati Uniti sono più quelli di una volta...
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