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29/12/2019

Il piano industriale del Governo per ArcelorMittal

Come volevasi dimostrare, una toppa peggiore del buco e Mittal se la ride.

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Nonostante sino ad oggi si sia parlato soltanto di linee guida, anche in occasione dell’ultimo incontro a Roma con i sindacati lo scorso 12 dicembre, il piano industriale del governo per l’ex Ilva di Taranto esiste e si chiama “Linee guida per un piano industriale sostenibile 2020-2023“, che abbiamo visionato in anteprima (grazie alle nostre fonti sempre affidabili) così come avvenne in precedenza per il nuovo piano industriale 2020-2024 presentato da ArcelorMittal lo scorso 4 dicembre a Roma ai sindacati e al governo.

Come sempre dunque proseguiamo sulla strada dell’analisi e della pubblicazione dei documenti, unica strada per comprendere quello che potrebbe accadere nel prossimo futuro ed avere così la possibilità di una valutazione e un’analisi chiara dell’operato della politica e di ArcelorMittal. Ed eventualmente avanzare le nostre critiche e i nostri dubbi. Oltre che eventuali proposte.

Gli obiettivi del piano industriale 2020-2023

L’obiettivo del piano industriale pensato dal governo, è quello di rendere lo “stabilimento di Taranto leader europeo nella produzione di acciaio ecosostenibile“. Per farlo, secondo i calcoli effettuati a Roma, serviranno 3,3 miliardi di euro di investimenti necessari, di cui 2,4 per riassetto stabilimento esistente e 0,9 per l’installazione di un impianto di preriduzione (come vedremo più avanti nel dettaglio).

Sempre secondo i calcoli che sono alla base di questo piano industriale, l’EBITDA del gruppo dovrebbe tornare positivo nel medio termine, il che dovrà garantire un’occupazione stabile attraverso il reintegro totale delle risorse operative (dei lavoratori) entro 2023. Sino ad allora le attuali risorse in cassa integrazione dovranno essere impiegate nelle operazioni di dismissione degli impianti che non saranno più utilizzati nel processo produttivo e nelle bonifiche delle aree dismesse (per ottenere da un lato la piena occupazione e dell’altro valorizzare appieno le competenze di ogni singolo lavoratore).

Da un punto di vista ambientale, si prospetta una riduzione delle emissioni di CO2 del 15%, del 40% per quanto riguarda diossina e benzo(a)pirene, che migliorerebbero i risultati attesi dall’attuazione di tutte le prescrizioni del DPCM 2017 (Piano Ambientale).

Investimenti in tecnologie sostenibili

Per quanto attiene la parte ambientale legata al processo produttivo, viene indicata nel piano una “profonda trasformazione del ciclo integrale (da cui deriveranno comunque 5,6 milioni di tonnellate d’acciaio annue)“: è previsto il rifacimento dell’altoforno 5, la chiusura definitiva di due altoforni, di 5 batterie di coke e di una linea di agglomerazione.

Il ciclo produttivo sarà implementato da due forni elettrici (EAF) che produrranno 2,6 milioni di tonnellate annue di acciaio.

Questo potrà avvenire, secondo il piano industriale del governo, attraverso l’installazione di due forni di riduzione per la produzione di preridotto. Il processo di riduzione è basato sull’utilizzo del gas naturale e non utilizza coke, ed è quindi a basso impatto ambientale. Il preridotto (DRI) è un semilavorato siderurgico contenente prevalentemente ferro metallico ottenuto a partire da minerale ferroso, e può essere utilizzato negli altoforni in sostituzione del minerale e allo scopo di consumare meno coke e nei forni elettrici al posto del rottame.

Il preridotto andrebbe ad alimentare i due forni elettrici che produrrebbero acciaio attraverso una tecnologia alternativa a quella a ciclo integrale. Nel forno elettrico il preridotto viene trasformato in acciaio utilizzando l’ossigeno per estrarre il carbonio presente nel DRI ad alte temperature generate con energia elettrica.

Nel piano industriale del governo viene chiarito che i due forni a gas per la produzione del preridotto, il cui costo è previsto intorno ai 900-950 milioni di euro, verrebbero installati all’esterno del perimetro di AM InvestCO Italy spa. Questo significa che l’intervento economico sarà a carico dello Stato, quasi certamente attraverso la creazione di quella new.co di cui da tempo si parla, dove potrebbe trovare spazio l’intervento di Invitalia o di Cassa Depositi e Prestiti (ammesso che si trovi la via giusta per evitare di sforare lo statuto di entrambi gli enti e incorrere in aiuti di Stato non consentiti dall’Ue).

L’integrazione nel ciclo produttivo del preridotto e dei due forni elettrici, trasformerebbe il ciclo integrale attualmente in essere in un ciclo di tipo ibrido. Questo perché il piano del governo prevede che attraverso di essi si producano sì 2,6 milioni di tonnellate annue di acciaio (l’entrata in funzione è prevista tra l’inizio e la metà del 2022), ma nello stesso tempo i restanti 5,4 per arrivare ai famosi 8 milioni annui, sarebbero prodotte attraverso l’utilizzo dell’altoforno 4 (che produrrebbe 1,9 milioni Mt) e l’altoforno 5 (3,4 Mt), il più grande d’Europa, per cui è previsto il revamping e il rientro in funzione nella metà del 2021, la cui alimentazione vedrebbe in parte l’utilizzo di preridotto o pellet.

Questo ciclo ibrido prevede inoltre la dismissione finale di due altoforni (l’1 e il 2), della batteira di cokefazione 11 e di una linea dell’agglomerato. Il piano finale al 2023 prevede infatti la dismissione definitiva delle batterie 3-4, 5-6 e 11 dell’area cokeria, della linea E dell’agglomerato (anche se restasse in funzione la seconda linea, la D, sarebbero attivate a fasi alterne) e dell’acciaieria 1.

Inoltre, sempre secondo il piano industriale del governo, con 8 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte, tornerebbero a marciare il Treno Nastri 1, il Treno Nastri 2, il Treno Lamiere (dell’area laminazione a caldo), i Tubifici e il LAF (laminazione a freddo) e ci sarebbe acciaio sufficiente per far lavorare a regime gli impianti di Genova, Novi Ligure e Racconigi.

È chiaro però che per realizzare tutto questo, servirà acquistare gas ed energia dal mercato ad un costo economicamente conveniente. Non solo perché i due impianti che produrranno il preridotto saranno alimentati a gas (il che potrebbe anche portare a rispolverare l’idea di costruire un rigassificatore sul territorio tarantino: chi si ricorda la battaglia di diverse associazioni tra cui Peacelink e Legambiente contro la Gas Natural tra il 2004 e il 2007 che voleva costruire un rigassificatore alle spalle dell’Eni?), ma soprattutto perché per alimentare i due forni elettrici non basterà l’energia prodotta dalle centrali termoelettriche presenti oggi nel siderurgico, che attraverso il recupero dei gas d'altoforno alimentano l’area a caldo.

È chiaro quindi che in questa partita la Snam per il gas e la Saipem per l’energia potrebbero essere in qualche modo coinvolte.

Si balla sull’altoforno 2

Non sarà di certo un caso, ma nel piano industriale assume un ruolo particolare l’altoforno 2. Il suo utilizzo è previsto sino al 2021, mentre la sua dismissione è prevista nel 2022. Il piano industriale di ArcelorMittal invece ne prevede la dismissione nel 2023.

Come si ricorderà sarà discusso il 30 dicembre il ricorso dei commissari straordinari di Ilva in AS, contro l’ordinanza dello scorso 10 dicembre del giudice Francesco Maccagnano, che ha respinto l’istanza di proroga della facoltà d’usodell’altoforno 2 dello stabilimento ex Ilva, ora ArcelorMittal Italia di Taranto. Il ricorso è stato depositato il 17 dicembre mattina presso la cancelleria del tribunale del Riesame di Taranto.

Cosa accadrebbe in caso di stop anche da Riesame non è chiaro. Sia il governo che ArcelorMittal infatti ne prevedono l’utilizzo per almeno altri due anni. O confidano in una vittoria al Riesame dei legali di Ilva in Amministrazione Straordinaria, oppure si accetterà lo stop e si interverrà per effettuare i lavori previsti che però richiederanno almeno un anno di tempo: il tutto, peraltro, ad impianto fermo così come stabilito dall’ordinanza del giudice Maccagnano. La matassa è alquanto complessa.

Gli scenari sull’occupazione

Per quanto riguarda invece l’occupazione, il piano del governo prevede che entro il 2023 ci sarà il reintegro di 2.400 unità lavorative (tra cui dovrebbero far parte i 1.600 lavoratori attualmente in cig e rimasti nel perimetro di Ilva in Amministrazione Straordinaria). Sino ad allora però è necessario ottenere l’autorizzazione del ministero del Lavoro per la cassa integrazione e soprattutto è necessario un provvedimento legislativo ad hoc per legare la durata della cig al piano industriale (le attuali norme prevedono durata massima di 2 anni).

Inoltre è previsto un intervento per l’integrazione al 70% della retribuzione per i cassaintegrati di ArcelorMittal Italia. A Taranto dallo scorso luglio sono in cig 1.273 lavoratori, anche se il picco massimo utilizzato sino ad ora è stato pari ad 850 unità.

Anche in questo caso dunque non è chiaro il panorama entro il quale ci si muove. Ma secondo le stime che circolano in queste settimane, si parla di un numero di esuberi tra i 1.500 e 1.800, che comunque dovrebbero rientrare a piano ultimato.

Gli obiettivi di mercato

Secondo il governo “ci sono le condizioni oggettive per recuperare un ruolo di leadership” si legge nel piano. Le direttrici su cui ci si muove sono queste: rilancio della produzione a 8 milioni di tonnellate; mantenimento di tutto il portafoglio prodotti; profittabilità nel medio periodo; reintegro di tutto l’organico; riduzione del 50% di emissioni inquinanti.

Il governo vuole far tornare “l’Italia ad essere il secondo produttore di acciaio in Europa, di cui l’ILVA è storicamente leader (10% quota di mercato nel 2012)“. Nel piano si legge che “la domanda di acciai piani è prevista in crescita in Italia ed Europa ed è fondamentale per alimentare la filiera industriale italiana (costruzioni, meccanica, auto, …)”. “Con questo piano Taranto recupera la posizione di leadership e si posiziona come uno dei primi esempi del Green New Deal in un settore centrale alla competitività del sistema industriale italiano. Il tutto attraverso un impatto significativo sulla decarbonizzazione della filiera industriale europea”.

Chi mette i soldi? Il ruolo delle banche

La domanda può sembrare banale ma non lo è. Il piano del governo prevede investimenti pari a 3,3 miliardi di euro, di cui almeno 1 miliardo sarà a carico dello Stato. È chiaro che né Invitalia né Cassa Depositi e Prestiti, qualora saranno della partita, potranno coprire un investimento del genere.

Così, secondo fonti vicine al dossier, tornerebbero in auge le banche. ArcelorMittal potrebbe ottenere un piccolo sconto sul prezzo di acquisto degli impianti, scendendo da 1,8 a 1,5 miliardi di euro. Somma che andrebbe a coprire i rimborsi dei crediti vantati dallo Stato e dalle banche, che convertirebbero le somme ottenute entrambi in quota capitale.

Ilva in amministrazione straordinaria, stando a quanto reso noto a suo tempo dalla Centrale rischi della Banca d’Italia, avrebbe un’esposizione di 1,723 miliardi di euro di utilizzato contro 578 milioni di accordato: la procedura ha ereditato una posizione “sconfinata” di 1,2 miliardi. In particolare sono le linee “a scadenza” (di solito i prestiti-tipo oppure la liquidità di cassa a tempo determinato) a influire maggiormente con uno sconfinato di 796 milioni. Dati riportati ultimamente anche dal ‘il Messaggero‘.

Partendo da questo quadro, il progetto dovrebbe prevedere che Stato e banche convertano le linee in pre deduzione, cioè quelle che godono di una priorità nel rimborso. Le banche erogarono due prestiti: uno di 250 milioni di euro nel 2014 all’ex gestione Riva commissariata, ed uno di 400 milioni di euro nel 2015 all’amministrazione straordinaria con la garanzia dello Stato.

I 400 milioni sono i finanziamenti che lo Stato, avendoli garantito, potrebbe convertire. Le banche avanzerebbero somme con corsia prioritaria di restituzione pari a 280 milioni, divisi fra Intesa Sp (180 milioni), Unicredit (60 milioni), Banco Bpm (40 milioni). Dunque si procederebbe ad un aumento di capitale di 400 milioni a favore di Cdp o Invitalia per una quota capitale di AM InvestCO Italy pari al 18,2%. Balla però un altro 20% che potrebbe essere appannaggio delle stesse banche come garanzia o di società come Snam e Saipem. Con la maggioranza che resterebbe comunque nelle mani di ArcelorMittal pari al 60% delle quote.

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