Continua e si approfondisce la crisi economica in Libano. Duramente colpito dalle sanzioni imposte da USA, e petromonarchie del Golfo agli istituti economici sospettati di sovvenzionare o fare da tramite ai finanziamenti diretti a Hezbollah piuttosto che Iran e Siria, il paese dei cedri da mesi deve fare i conti con una scarsità di dollari, moneta di fatto circolante accanto a quella ufficiale, la lira. La quale si sta progressivamente svalutando, mentre il debito pubblico cresce sempre di più.
Il tutto va a gravare, si ricorda, su un sistema-paese di tipo “confessionale”, in cui il settore pubblico ed i servizi sono praticamente inesistenti e, per ottemperare ai bisogni primari, la gran parte della popolazione deve far ricorso ad enti assistenziali di tipo religioso, con tutta la corruzione che ne consegue, gestita dai vari capibastone cui tale sistema assistenziale fa riferimento. Costoro, infatti, si appropriano indebitamente del denaro pubblico, per lo più proveniente dai donatori stranieri (Francia e Arabia Saudita in testa).
Parallelamente si protrae lo stallo politico scaturito dalle dimissioni del Primo Ministro Saad Hariri lo scorso 29 ottobre a seguito delle proteste di massa scoppiate 13 giorni prima.
Tali mobilitazioni continuano tutt'ora, anche se con numeri inferiori e con dinamiche differenti rispetto ai primi giorni. Con il passare del tempo, infatti, mentre si sono fatti sempre più chiari i tentativi di alcuni partiti di cavalcare le proteste e le ingerenze esterne volte a danneggiare Hezbollah, alle grandi manifestazioni trasversali si sono sovrapposti scontri fra sostenitori dei partiti e fra questi ultimi e i manifestanti che a ondate successive occupano le strade principali, paralizzando, di fatto, il paese. Anche l’intervento della polizia si è fatto più frequente e duro.
Pertanto, anche all’interno del fronte della protesta, le iniziative si sono andate diversificando. Ad esempio, le ali comuniste e progressiste (organizzate, fra gli altri, dal Partito Comunista Libanese e dall’Organizzazione Popolare Nasseriana) privilegiano momenti di protesta contro le ingerenze straniere, azioni nei confronti delle banche, mobilitazioni studentesche e momenti seminariali pubblici.
Invece, le ali riconducibili ai partiti cristiani di estrema destra post-falangisti (Kataeb, Forze Libanesi) e alla vasta base sunnita in precedenza fedele ad Hariri, ora distaccatasi dal suo leader, sono più focalizzate sui blocchi stradali e nell’alimentare l’ostilità verso Hezbollah, chiedendone, talvolta, anche il disarmo.
Ovviamente, non s’intende, in tal modo, affermare che vi sono compartimenti stagni all’interno delle mobilitazioni; vi sono, ovviamente, diverse tendenze e tentativi di egemonia.
Ciò che accomuna tutti sono le parole d’ordine generali, le quali, a parte la rivendicazione chiara del superamento dell’attuale sistema politico-istituzionale basato sul confessionalismo, sono molto generiche, quindi declinabili in maniera molto differente. A mettere in atto il superamento degli attuali assetti, infatti, dovrebbe essere un “esecutivo tecnico transitorio” composto di personalità esterne a tutti i partiti, legittimate a traghettare il paese fuori dalla crisi economica e ad un nuovo sistema non confessionale governando per decreto, bypassando il Parlamento.
Com’è evidente, tale parola d’ordine può essere riempita dei contenuti più diversi ed è su quest’ambiguità di fondo che si sta giocando la partita per formare il nuovo governo. Infatti, nessuno dei partiti presenti in parlamento ormai la avversa più apertamente, tuttavia – com’è ovvio – essa legittima ciascuno a proporre dei “tecnici” afferenti alla propria area politico/confessionale di riferimento e additare quelli proposti dagli altri partiti come dei fantocci appena mascherati, quindi non super partes. Ed è proprio quanto sta avvenendo.
Dal 29 ottobre in poi, per la “poltrona” di Primo Ministro, per Costituzione appannaggio di un musulmano sunnita, si sono succedute diverse ipotesi. Inizialmente il Presidente della Repubblica Aoun (esponente di un partito cristiano maronita, appartenente alla coalizione a guida Hezbollah), fra i più bersagliati dalla protesta, sembrava orientato a conferire allo stesso Sa’ad Hariri l’incarico di formare un governo composto in parte da tecnici, in parte da politici di tutti i partiti, incassando, tuttavia, il ritiro quasi immediato del Primo Ministro uscente, che avrebbe perso qualsiasi sostegno nella propria base perché rifiutato dalla piazza.
Successivamente si è affacciata l’ipotesi Samir Khatib, padrone di una grande azienda di consulenza ingegneristica e architetturale, vicino ad Hariri. Anch’egli, tuttavia, si è ritirato rapidamente, probabilmente perché non ha ricevuto l’appoggio della massima autorità sunnita del paese, il Gran Muftì del Libano Shaykh Abdellatif Daryan, il quale, muovendosi nell’ombra per preservare il sistema confessionale e probabilmente “imbeccato” dall’Arabia Saudita, continuava a premere per Sa’ad Hariri.
Quasi forzato a restare in campo, quest’ultimo ha provato ad accelerare per un governo composto esclusivamente da tecnici (tranne sé stesso) ricevendo, però, il veto della maggioranza parlamentare costituita da Hezbollah e dai suoi alleati dell’”Alleanza 8 marzo”, con la motivazione che si sarebbe trattato di un esecutivo di fatto monocolore mascherato da tecnico.
A questo punto, il 18 dicembre avviene una svolta abbastanza inattesa. In risposta al precedente tentativo di forzatura in coincidenza con l’arrivo a Beirut di un alto funzionario dell’Amministrazione USA, il Presidente della Repubblica e quasi tutta l’Alleanza 8 Marzo, utilizzando la maggioranza dei seggi e raccattando qualche altro voto di esponenti sunniti, hanno imposto il conferimento dell’incarico ad Hassan Diab.
Un uomo con un profilo sia politico che tecnico, in quanto ha alle spalle 3 anni di esperienza politica come Ministro dell’Istruzione, ruolo ricoperto tra il 2011 e il 2014; mentre attualmente, così come prima della parentesi ministeriale, lavora come professore di Ingegneria Informatica presso l’Università Americana di Beirut, teoricamente un ambiente tutt’altro che vicino ad Hezbollah, regista della sua investitura.
Tuttavia, per i partiti del blocco Hariri (“Alleanza 14 marzo”) non si tratta di un tecnico al di sopra delle parti, bensì di un esponente espressione diretta del movimento di resistenza sciita, pertanto gli hanno negato l’appoggio, nonostante il suo atteggiamento immediatamente conciliatorio. Appoggio che, al momento, manca anche da parte dell’establishment religioso sunnita, dai suoi padrini sauditi e dal “donatore” francese.
In particolare, Parigi già sta facendo filtrare, attraverso ambienti giornalistici “di area”, che non corrisponderà più il prestito di 11 miliardi di dollari promesso lo scorso aprile, subordinato all’attuazione di alcune riforme (quelle che hanno portato le piazze a riempirsi). Nel caso di una eccessiva centralità di Hezbollah, anzi, potrebbero seguire sanzioni ulteriori e isolamento internazionale. Il che, in assenza di improbabili svolte rivoluzionarie nell’esercizio del potere, si tradurrebbe in tracollo ulteriore dell’economia del paese e possibilità di guerra civile.
D’altra parte, evitare eccessive sanzioni e isolamento è stato proprio il motivo che ha spinto negli anni scorsi l’ala politica di Hezbollah ad accontentarsi di un ruolo tutto sommato secondario all’interno dell’esecutivo, lasciando alla coalizione rivale, sostenuta da Arabia Saudita, USA e UE, i ruoli di maggiore importanza, nonostante quest’ultima, dopo le ultime elezioni fosse divenuta minoranza in parlamento.
Pertanto, bisogna verificare se la mossa d’imporre a maggioranza il conferimento dell’incarico per la formazione di un nuovo governo sia conseguenza di una svolta politica reale attuata da Nasrallah e soci oppure una semplice scelta tattica dettata dalla necessità contingente di dare una dimostrazione di forza, di fronte ai tentativi ripetuti di utilizzare le mobilitazioni di massa per operare un colpo di mano nei confronti del movimento di resistenza sciita.
Fatto sta che, al momento, l’impresa di Hassan Diab di mettere assieme un esecutivo che abbia, poi, la forza di essere operativo appare veramente in salita.
Sul fronte delle piazze infatti, nonostante le parole concilianti da parte del Primo Ministro designato (“Datemi una possibilità”, “non si ritornerà indietro al 17 ottobre”, “Sento che quello che voi avete detto rappresenta me e tutti coloro che vogliono creare uno stato di legge e giustizia in Libano. I nostri sforzi si concentreranno interamente su come fermare il collasso e su come riportare la fiducia”, sono alcune delle frasi pronunciate più spesso), si è verificata una risposta di rifiuto generalizzato da parte di tutte le anime della protesta, in quanto anch’egli “parte del sistema”. A Beirut sono ricomparsi blocchi stradali e accampate, non smobilitati nemmeno durante le festività cristiane in corso.
Anche per il Partito Comunista Libanese, la designazione di Diab è da respingere in quanto frutto delle solite modalità pattizie ed escludenti rispetto alle istanze popolari con le quali operano le due coalizioni fin qui al potere; ed anche perché non corroborata da nessuna svolta economica rispetto alle riforme imposte dalla Francia e dagli altri “donatori”. Ovviamente, resta fermo il punto che i comunisti rifiutano parole d’ordine quali l’isolamento o il disarmo di Hezbollah, in quanto quest’ultimo costituisce di fatto un movimento di resistenza armata contro l’imperialismo, con cui fare fronte in caso di aggressioni esterne da parte di Israele o altri.
Da parte sua, l’Organizzazione Popolare Nasseriana, pur essendosi presentata alle elezioni all’interno dell’Alleanza 8 marzo, ha scelto, con il suo unico parlamentare, di non votare comunque la designazione di Hassan Diab, in quanto non risponde alle istanze delle piazze.
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