L’istantanea migliore, a livello di analisi delle “sardine”, l’ha
fornita probabilmente “La Stampa”, lo scorso 11 dicembre, vale a dire il
giorno dopo la manifestazione di Torino. Il quotidiano padronale,
infatti, accomunava la piazza torinese alla contemporanea iniziativa di
Milano, in cui seicento sindaci accompagnavano la senatrice a vita
Liliana Segre in una passeggiata in Galleria, insieme a migliaia di
milanesi, per protestare contro la campagna di offese di cui,
incredibilmente, era stata fatta oggetto una sopravvissuta ad Auschwitz.
Le due piazze, in effetti, erano assolutamente speculari: promossa dal
basso (Torino) e suggerita dall’alto (Milano) si incontravano le due
facce dell’Italia “civica e civile”, nella tappa intermedia di un
percorso che, nato poco più di un mese fa, avrebbe visto molte città
italiane aderire ai flash-mob delle “sardine”.
E la sinistra di classe, e quelli come noi? Infastiditi, inorriditi,
incuriositi, indifferenti: abbiamo manifestato, da un mese a questa
parte, una gamma di atteggiamenti così vari da confermare l’inossidabile
difficoltà a incontrarsi, oggi, nelle idee, prima ancora che nelle
lotte e nelle vertenze. Ne deriva che la posizione di chi manifesti una
lontananza totale – difficilmente eccepibile, peraltro – dalle sardine
finisca quasi per essere giudicata come ‘rozza’, ‘elementare’ e
‘superficiale’, lontana – quel che è peggio – dalla necessaria
complessità che caratterizza oggi la politica post-ideologica.
Sgomberiamo il campo dagli equivoci: nessuna struttura della sinistra
radicale rivendica una piena adesione al neonato movimento, né paiono
esserci entusiasti endorsement da parte di intellettuali e
testimonial di riferimento, a eccezione del compagno Erri De Luca, che
avrà avuto i suoi buoni motivi. Al netto di ciò, non manifestare
quantomeno interesse verso le occasionali piazze animate da pesciolini
di carta e di cartone era considerato pari a rinunciare a un approccio
che mischia Machiavelli e realpolitik e che oltraggia quel tempismo,
quella capacità di stare con gli occhi aperti, quella propensione a
cogliere l’attimo che dovrebbe caratterizzare ogni militante politico.
Sarà, ma noi vi leggiamo solo il tentativo, quantomeno teorico, di
sostituire le nostre attuali difficoltà con la promessa di successi
altrui, adottando la tattica del cuculo (entro nel nido e metto le mie
uova al posto di quelle di chi il nido lo ha costruito), ma correndo il
rischio di svolgere il ruolo dell’ancella. Provocando, peraltro, un
duplice imbarazzo: nella padrona di casa (cioè nella piazza) e
nell’ancella stessa. Qui non si tratta, giusto per citare un recente
documento, di rivendicarsi “un mondo militante più sicuro dei propri
valori che della realtà su cui poggia i piedi”, né di indugiare su come
farsi notare di più, se arrivare in ritardo alla festa o non arrivare
proprio: qui ci limitiamo a segnalare come alla festa non siamo stati
invitati e neanche cercheremo di imbucarci. Perché quella festa non ci
appartiene, per quanto altri convenuti possano essere nostri potenziali
compagni di strada. Rivendichiamo, quindi, il diritto di essere altro
rispetto alle sardine, senza per questo considerarle la causa delle
nostre sconfitte o delle nostre mancate vittorie. Per una volta, non
sono la soluzione, ma neanche parte del problema: rappresentano, invece,
l’epifenomeno più attuale di un blocco sociale che è sempre esistito,
in questo Paese, per quanto ultimamente a scartamento ridotto.
Stiamo parlando di una borghesia progressista e riflessiva, dotata di
un buon capitale, volenterosa e democratica, almeno secondo le linee
della democrazia formale. Questo blocco sociale non da oggi ha
difficoltà a dialogare con il suo riferimento politico, quel Partito
democratico che ha ormai completato la transizione da compagine
socialdemocratica a partito liberale, persino con tendenze autoritarie
ed egotistiche in alcuni dei suoi esponenti, e continua a mandargli
messaggi, nella vana speranza di un suo rinsavimento. I Girotondi, il
Popolo viola, singoli iscritti o delegati – protagonisti negli ultimi
anni di accorati interventi in assemblee o congressi (e per questo
immediatamente celebrati con uno slot su Repubblicapuntoit) –
rappresentano l’album di famiglia delle sardine, con un grado di
vicinanza o di lontananza dal ceto politico piddino che dipendeva dal
contesto e dalla fase storica, ma che non poteva certo configurare come
‘nuovo’ il fenomeno in questione.
Le caratteristiche iniziali delle piazze ittiofile, del resto, non
mentivano: ceto medio studentesco e universitario, con buone capacità
relazionali, impegnato in lavori cognitivi o prossimo a esserlo (o
aspirante a esserlo in futuro), ben educato e multiculturalista, lontano
tanto dal becerume fascistoide, quanto dalla materialità delle
contraddizioni sociali. La spinta propulsiva, d’altronde, era etica,
quasi pre-politica, e l’aggancio con il reale era rappresentato
semplicemente dall’emergenzialità elettoralistica (esorcizzare il
rischio che Salvini si prendesse anche l’Emilia-Romagna): le nuvole del
Paradiso, quindi, e gli Inferi delle urne. Mancava, però, “il livello di
mezzo”, vale a dire la terra della dialettica politica. Dato che
Santori e gli altri “imprenditori di movimento” non sono, probabilmente,
stupidi, le sardine conoscono nel (breve) tempo un’evoluzione e una
progressiva raffinazione: il tema dell’inclusione dei migranti, ad
esempio, assolve alla duplice funzione di portare un mattoncino construens
a quello che fino a poco fa era solo un movimento di critica e di
inserirsi con coerenza nello spazio politico che si mira ad occupare (e
che è quello più sgombro di offerta, tra l’altro). Il cuore, però, batte
altrove, tanto che il sesto dei famosi punti diffusi dopo il 14
dicembre romano rimane un po’ appeso, quasi esogeno rispetto al corpus
del documento, che guarda invece alla comunicazione in tutta la sua
piena vigenza sovrastrutturale. Un piano ben articolato, valido in
entrata e in uscita, tutt’altro che disprezzabile, degno – anzi – di
essere studiato e preso ad esempio. Segue, in ordine cronologico e di
importanza, l’aspetto “vippaiolo”, rappresentato dalle adesioni e dagli endorsement
importanti, che non possono certo essere usati come arma contundente
per una critica politica: è responsabilità delle sardine, forse, se
Casapound – ormai ossessiva nella sua dimensione del ‘vengo anch’io!?!’ –
cerca attenzione come i bambini in crisi di affetto?
È vero, d’altro canto, che le entusiastiche partecipazioni ideali,
anche quando non richieste (soprattutto quando non richieste), sono
sempre traccia di una compatibilità di fondo. Prendiamo, ad esempio, il
caso di Saviano, che non perde neanche questa occasione, dalle colonne
di “Robinson la Repubblica”, per spiegare al mondo da che parte deve
girare: l’ex ammiratore del Pmli sente l’odore dei riflettori e si
precipita in piazza Duomo, esaltando “una piazza senza simboli e senza
bandiere, (…) che non appartiene a nessuno, anzi, che appartiene a chi
in quel momento c’è”. Da qui il collegamento, del tutto gratuito, tra
l’assenza di insegne politiche dentro il flash-mob e l’esistenza di un
soggetto politico “che non chiede voti e non promette nulla, ma solo
chiami a raccolta perché cambi, prima di tutto, la comunicazione
politica”. Agghiacciante, bisogna ammetterlo, soprattutto nell’equazione
tra l’anonimato della piazza e il suo impegno “disinteressato”. Per
cosa dovrebbe chiamare a raccolta una piazza senza identità? È
sufficiente condividere un luogo per poche ore, al fine di avere un
sistema di valori condiviso, per quanto declinato in maniera generica ed
elementare? Qual è, quindi, la differenza tra il flash-mob sardiniano e
il pubblico di un concerto (che pure avrà i suoi punti di riferimento
valoriali, corrispondenti a quelli diffusi dal cantante di turno), gli
spettatori di una squadra di calcio (che ha una storia, un percorso
pregresso, un modo di presentarsi agli avversari) oppure i fedeli
presenti all’udienza pubblica del papa, ogni mercoledì? Soprattutto,
qual è la differenza tra un gruppo di manifestanti restio a riconoscersi
in simboli politici (neanche in quelli più ecumenici e generalisti) e
una folla, cioè un non-gruppo destrutturato e pronto a muoversi secondo
stimoli imprevedibili ed estemporanei, come il contagio, l’emulazione,
il conformismo?
Facile additare i modi di aggregazione salviniani (i proclami “di
pancia” e le foto con la Nutella, per la serie ‘un pugno e una
carezza’), ma quelli “sardiniani” sono poi così diversi? Certo, i
contenuti dei secondi nascono per contrapporsi a quelli dei primi, ma
quali sono i confini e quale ne è la profondità? Saviano conclude
compiaciuto: “Così accade che scendi in piazza per metterci la faccia,
non per nascondere la tua dietro quella di qualcun altro, ma perché il
tuo volto, accanto a quello di chi ti è vicino, sia visibile”. Ma se non
scendi in piazza dichiarando quale sia la tua appartenenza ideale e la
tua identità politica ti limiti a fare una passeggiata stanziale: dato
che non tutti hanno la visibilità di Saviano, fare un flash-mob senza
insegne vuol dire scegliere un comodo anonimato, che è esattamente
l’opposto di “metterci la faccia”. Oppure pensiamo che accostare due
facce anonime (due come seimila o ventimila) produca politica di per sé,
in una specie di autopoiesi? Qui non si tratta di auspicare una specie
di appello scolastico di sigle di partiti e organizzazioni, meglio se
comuniste: altre piazze e altre manifestazioni (su Contropiano si ricordava un’altra San Giovanni, esattamente nove anni prima del sabato
pomeriggio romano delle sardine) hanno posposto bandiere e striscioni
all’immanenza della pratica, ma si trattava di una scelta tattica,
coerente con l’opzione della violenza come strumento politico.
Qui, invece, la proibizione di vessilli identitari sottintende come
l’Italia “civica e civile” debba essere grigia e muta, magari desiderosa
– come da narrazione corrente – di più politica e non di meno politica.
Sicuramente intenta, però, a rimestare su quale tipo di politica da
esprimere e implementare, con la tentazione dell’ultimo decennio che
timidamente comincia ad affacciarsi anche nel banco (di pesci):
“immettere nuovi contenuti nella sinistra”. Una frase imparentata con
l’altra (“superare la distinzione destra/sinistra”), che puntualmente ha
lasciato il paese in mano a Salvini, abile – lui sì – a capire che
bisogna focalizzarsi sui contenuti, piuttosto che sugli appellativi.
Tanto da aver fatto cose di destra e di estrema destra senza averle
chiamate con il loro nome. Poi, però, andiamo a scrutare, tra il
lastricato delle piazze delle sardine, e qualche bandiera spicca: è
dell’Unione europea ed è ammessa perché non è partitica. “Legittima
difesa costituzionale”? “Attivazione politica”? “Esigenza di riscatto”?
Sarà, però emerge soprattutto il ruolo di agit-prop (anzi: ‘agit-pop’)
mediaticamente spendibile di uno spirito europeista fiaccato dai fatti
elettorali e sociali. Solo Saviano fa finta di non capirlo: “Essere un
movimento di piazza non offre soluzioni alla diminuzione degli
investimenti pubblici nel Mezzogiorno, inferiori del 20 per cento
rispetto agli impegni che l’Italia ha preso con l’Unione europea”.
Quando, però, il suddetto movimento di piazza appoggia la predazione
europea, ogni lamentela come quella suesposta diventa un semplice
esercizio di stile oppure la conferma di come un certo salvinismo
comunicativo (in base al quale ‘dico, mi contraddico, poi ti maledico’)
abbia attecchito un po’ dappertutto. Quel che è certo, comunque, è che
“la necessità di contendere l’esercizio del conflitto a Salvini” – come
suggerito da Infoaut – non vedrà nelle sardine agguerriti concorrenti.
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