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18/12/2019

Né sardine, né pesci in barile

L’istantanea migliore, a livello di analisi delle “sardine”, l’ha fornita probabilmente “La Stampa”, lo scorso 11 dicembre, vale a dire il giorno dopo la manifestazione di Torino. Il quotidiano padronale, infatti, accomunava la piazza torinese alla contemporanea iniziativa di Milano, in cui seicento sindaci accompagnavano la senatrice a vita Liliana Segre in una passeggiata in Galleria, insieme a migliaia di milanesi, per protestare contro la campagna di offese di cui, incredibilmente, era stata fatta oggetto una sopravvissuta ad Auschwitz. Le due piazze, in effetti, erano assolutamente speculari: promossa dal basso (Torino) e suggerita dall’alto (Milano) si incontravano le due facce dell’Italia “civica e civile”, nella tappa intermedia di un percorso che, nato poco più di un mese fa, avrebbe visto molte città italiane aderire ai flash-mob delle “sardine”.

E la sinistra di classe, e quelli come noi? Infastiditi, inorriditi, incuriositi, indifferenti: abbiamo manifestato, da un mese a questa parte, una gamma di atteggiamenti così vari da confermare l’inossidabile difficoltà a incontrarsi, oggi, nelle idee, prima ancora che nelle lotte e nelle vertenze. Ne deriva che la posizione di chi manifesti una lontananza totale – difficilmente eccepibile, peraltro – dalle sardine finisca quasi per essere giudicata come ‘rozza’, ‘elementare’ e ‘superficiale’, lontana – quel che è peggio – dalla necessaria complessità che caratterizza oggi la politica post-ideologica. Sgomberiamo il campo dagli equivoci: nessuna struttura della sinistra radicale rivendica una piena adesione al neonato movimento, né paiono esserci entusiasti endorsement da parte di intellettuali e testimonial di riferimento, a eccezione del compagno Erri De Luca, che avrà avuto i suoi buoni motivi. Al netto di ciò, non manifestare quantomeno interesse verso le occasionali piazze animate da pesciolini di carta e di cartone era considerato pari a rinunciare a un approccio che mischia Machiavelli e realpolitik e che oltraggia quel tempismo, quella capacità di stare con gli occhi aperti, quella propensione a cogliere l’attimo che dovrebbe caratterizzare ogni militante politico.

Sarà, ma noi vi leggiamo solo il tentativo, quantomeno teorico, di sostituire le nostre attuali difficoltà con la promessa di successi altrui, adottando la tattica del cuculo (entro nel nido e metto le mie uova al posto di quelle di chi il nido lo ha costruito), ma correndo il rischio di svolgere il ruolo dell’ancella. Provocando, peraltro, un duplice imbarazzo: nella padrona di casa (cioè nella piazza) e nell’ancella stessa. Qui non si tratta, giusto per citare un recente documento, di rivendicarsi “un mondo militante più sicuro dei propri valori che della realtà su cui poggia i piedi”, né di indugiare su come farsi notare di più, se arrivare in ritardo alla festa o non arrivare proprio: qui ci limitiamo a segnalare come alla festa non siamo stati invitati e neanche cercheremo di imbucarci. Perché quella festa non ci appartiene, per quanto altri convenuti possano essere nostri potenziali compagni di strada. Rivendichiamo, quindi, il diritto di essere altro rispetto alle sardine, senza per questo considerarle la causa delle nostre sconfitte o delle nostre mancate vittorie. Per una volta, non sono la soluzione, ma neanche parte del problema: rappresentano, invece, l’epifenomeno più attuale di un blocco sociale che è sempre esistito, in questo Paese, per quanto ultimamente a scartamento ridotto.

Stiamo parlando di una borghesia progressista e riflessiva, dotata di un buon capitale, volenterosa e democratica, almeno secondo le linee della democrazia formale. Questo blocco sociale non da oggi ha difficoltà a dialogare con il suo riferimento politico, quel Partito democratico che ha ormai completato la transizione da compagine socialdemocratica a partito liberale, persino con tendenze autoritarie ed egotistiche in alcuni dei suoi esponenti, e continua a mandargli messaggi, nella vana speranza di un suo rinsavimento. I Girotondi, il Popolo viola, singoli iscritti o delegati – protagonisti negli ultimi anni di accorati interventi in assemblee o congressi (e per questo immediatamente celebrati con uno slot su Repubblicapuntoit) – rappresentano l’album di famiglia delle sardine, con un grado di vicinanza o di lontananza dal ceto politico piddino che dipendeva dal contesto e dalla fase storica, ma che non poteva certo configurare come ‘nuovo’ il fenomeno in questione.

Le caratteristiche iniziali delle piazze ittiofile, del resto, non mentivano: ceto medio studentesco e universitario, con buone capacità relazionali, impegnato in lavori cognitivi o prossimo a esserlo (o aspirante a esserlo in futuro), ben educato e multiculturalista, lontano tanto dal becerume fascistoide, quanto dalla materialità delle contraddizioni sociali. La spinta propulsiva, d’altronde, era etica, quasi pre-politica, e l’aggancio con il reale era rappresentato semplicemente dall’emergenzialità elettoralistica (esorcizzare il rischio che Salvini si prendesse anche l’Emilia-Romagna): le nuvole del Paradiso, quindi, e gli Inferi delle urne. Mancava, però, “il livello di mezzo”, vale a dire la terra della dialettica politica. Dato che Santori e gli altri “imprenditori di movimento” non sono, probabilmente, stupidi, le sardine conoscono nel (breve) tempo un’evoluzione e una progressiva raffinazione: il tema dell’inclusione dei migranti, ad esempio, assolve alla duplice funzione di portare un mattoncino construens a quello che fino a poco fa era solo un movimento di critica e di inserirsi con coerenza nello spazio politico che si mira ad occupare (e che è quello più sgombro di offerta, tra l’altro). Il cuore, però, batte altrove, tanto che il sesto dei famosi punti diffusi dopo il 14 dicembre romano rimane un po’ appeso, quasi esogeno rispetto al corpus del documento, che guarda invece alla comunicazione in tutta la sua piena vigenza sovrastrutturale. Un piano ben articolato, valido in entrata e in uscita, tutt’altro che disprezzabile, degno – anzi – di essere studiato e preso ad esempio. Segue, in ordine cronologico e di importanza, l’aspetto “vippaiolo”, rappresentato dalle adesioni e dagli endorsement importanti, che non possono certo essere usati come arma contundente per una critica politica: è responsabilità delle sardine, forse, se Casapound – ormai ossessiva nella sua dimensione del ‘vengo anch’io!?!’ – cerca attenzione come i bambini in crisi di affetto?

È vero, d’altro canto, che le entusiastiche partecipazioni ideali, anche quando non richieste (soprattutto quando non richieste), sono sempre traccia di una compatibilità di fondo. Prendiamo, ad esempio, il caso di Saviano, che non perde neanche questa occasione, dalle colonne di “Robinson la Repubblica”, per spiegare al mondo da che parte deve girare: l’ex ammiratore del Pmli sente l’odore dei riflettori e si precipita in piazza Duomo, esaltando “una piazza senza simboli e senza bandiere, (…) che non appartiene a nessuno, anzi, che appartiene a chi in quel momento c’è”. Da qui il collegamento, del tutto gratuito, tra l’assenza di insegne politiche dentro il flash-mob e l’esistenza di un soggetto politico “che non chiede voti e non promette nulla, ma solo chiami a raccolta perché cambi, prima di tutto, la comunicazione politica”. Agghiacciante, bisogna ammetterlo, soprattutto nell’equazione tra l’anonimato della piazza e il suo impegno “disinteressato”. Per cosa dovrebbe chiamare a raccolta una piazza senza identità? È sufficiente condividere un luogo per poche ore, al fine di avere un sistema di valori condiviso, per quanto declinato in maniera generica ed elementare? Qual è, quindi, la differenza tra il flash-mob sardiniano e il pubblico di un concerto (che pure avrà i suoi punti di riferimento valoriali, corrispondenti a quelli diffusi dal cantante di turno), gli spettatori di una squadra di calcio (che ha una storia, un percorso pregresso, un modo di presentarsi agli avversari) oppure i fedeli presenti all’udienza pubblica del papa, ogni mercoledì? Soprattutto, qual è la differenza tra un gruppo di manifestanti restio a riconoscersi in simboli politici (neanche in quelli più ecumenici e generalisti) e una folla, cioè un non-gruppo destrutturato e pronto a muoversi secondo stimoli imprevedibili ed estemporanei, come il contagio, l’emulazione, il conformismo?

Facile additare i modi di aggregazione salviniani (i proclami “di pancia” e le foto con la Nutella, per la serie ‘un pugno e una carezza’), ma quelli “sardiniani” sono poi così diversi? Certo, i contenuti dei secondi nascono per contrapporsi a quelli dei primi, ma quali sono i confini e quale ne è la profondità? Saviano conclude compiaciuto: “Così accade che scendi in piazza per metterci la faccia, non per nascondere la tua dietro quella di qualcun altro, ma perché il tuo volto, accanto a quello di chi ti è vicino, sia visibile”. Ma se non scendi in piazza dichiarando quale sia la tua appartenenza ideale e la tua identità politica ti limiti a fare una passeggiata stanziale: dato che non tutti hanno la visibilità di Saviano, fare un flash-mob senza insegne vuol dire scegliere un comodo anonimato, che è esattamente l’opposto di “metterci la faccia”. Oppure pensiamo che accostare due facce anonime (due come seimila o ventimila) produca politica di per sé, in una specie di autopoiesi? Qui non si tratta di auspicare una specie di appello scolastico di sigle di partiti e organizzazioni, meglio se comuniste: altre piazze e altre manifestazioni (su Contropiano si ricordava un’altra San Giovanni, esattamente nove anni prima del sabato pomeriggio romano delle sardine) hanno posposto bandiere e striscioni all’immanenza della pratica, ma si trattava di una scelta tattica, coerente con l’opzione della violenza come strumento politico.

Qui, invece, la proibizione di vessilli identitari sottintende come l’Italia “civica e civile” debba essere grigia e muta, magari desiderosa – come da narrazione corrente – di più politica e non di meno politica. Sicuramente intenta, però, a rimestare su quale tipo di politica da esprimere e implementare, con la tentazione dell’ultimo decennio che timidamente comincia ad affacciarsi anche nel banco (di pesci): “immettere nuovi contenuti nella sinistra”. Una frase imparentata con l’altra (“superare la distinzione destra/sinistra”), che puntualmente ha lasciato il paese in mano a Salvini, abile – lui sì – a capire che bisogna focalizzarsi sui contenuti, piuttosto che sugli appellativi. Tanto da aver fatto cose di destra e di estrema destra senza averle chiamate con il loro nome. Poi, però, andiamo a scrutare, tra il lastricato delle piazze delle sardine, e qualche bandiera spicca: è dell’Unione europea ed è ammessa perché non è partitica. “Legittima difesa costituzionale”? “Attivazione politica”? “Esigenza di riscatto”? Sarà, però emerge soprattutto il ruolo di agit-prop (anzi: ‘agit-pop’) mediaticamente spendibile di uno spirito europeista fiaccato dai fatti elettorali e sociali. Solo Saviano fa finta di non capirlo: “Essere un movimento di piazza non offre soluzioni alla diminuzione degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, inferiori del 20 per cento rispetto agli impegni che l’Italia ha preso con l’Unione europea”. Quando, però, il suddetto movimento di piazza appoggia la predazione europea, ogni lamentela come quella suesposta diventa un semplice esercizio di stile oppure la conferma di come un certo salvinismo comunicativo (in base al quale ‘dico, mi contraddico, poi ti maledico’) abbia attecchito un po’ dappertutto. Quel che è certo, comunque, è che “la necessità di contendere l’esercizio del conflitto a Salvini” – come suggerito da Infoaut – non vedrà nelle sardine agguerriti concorrenti.

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