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12/01/2020

Hammamet, vent’anni dopo

Un periodo, qualche anno fa, mi ero appassionato a Bettino Craxi – evidentemente non avevo niente di meglio da fare.

Sul serio, ho passato diversi mesi a leggere libri su di lui, guardare documentari su di lui, ascoltare tutto quello che c’è su di lui sull’archivio di Radio Radicale.

La sua è chiaramente una figura epica: socialista vero, garibaldino, mezzo libertario, capace di litigare con Reagan e uscirne vincitore, filopalestinese, coltissimo (scriveva degli editoriali sull’Avanti e su Mondo Operaio che oggi non si trovano su nessun giornale), uno dei pochi a mantenere una posizione rispettabile sul rapimento di Aldo Moro e uno sguardo lucido su quelli che chiamiamo anni di piombo.

E sì, ha preso un sacco di tangenti, anche se è vero che rubava per il partito e non tanto per sé, ed è pure vero che in fondo rubavano tutti – qualcuno un po’ più degli altri, ad ogni modo.

Il suo vero problema, la causa storica della sua rovina, è che lui era un uomo del sistema, forse addirittura «il sistema» fatto persona, in un momento in cui il sistema stava crollando. Questo lo sapeva pure lui e l’ha persino ammesso, durante il suo esilio in Tunisia.

[E voi a questo punto direte: sì, ma tanti altri politici della prima repubblica si sono riciclati nella seconda e nella terza. È vero: si sono riciclati, ma di fatto hanno perso quasi tutto il potere che avevano prima, questo per Craxi sarebbe stato insopportabile: ce lo vedete Bettino a elemosinare un ministero o a farsi sconfiggere da un nulla come Scalfaro nelle votazioni per il Quirinale? Quella è roba da senzapalle democristiani. Vale il discorso di Batman: «Muori da eroe o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo»]

Un altro vero problema di Craxi fu di aver spalancato le porte del Partito Socialista a un mucchio di ladri veri e per nulla interessati a «rubare per la politica», dei farabutti fatti e finiti tipo Berlusconi, gente che aveva un culo da salvare e che solo a quello pensava, non a Saint-Simon, a Matteotti e a Turati. Queste persone oscurarono completamente tutta la frangia socialista autentica all’interno del partito – da Riccardo Lombardi in avanti – e hanno reso la parola «socialista» un insulto, in Italia.

Il pistarolo Marco Nozza, in un suo libro, racconta di quando incontrò Craxi nell’ascensore di un albergo ai margini di un rinfresco a cui il leader socialista non prese parte perché malato di gotta: «Caro Craxi – disse Nozza – se tutti i socialisti mangiassero come lei...».

E questa non è colpa della campagna di criminalizzazione ordita dal Pci (negli anni ‘80, comunque, furono i comunisti a cominciare la guerra, con la decisione di rompere le alleanze locali con il Psi, perdendo tante città importanti e condannando tutto il sistema a morte certa, cosa che sarebbe poi infatti avvenuta), ma è soprattutto demerito suo: Rino Formica parlava di partito ridotto a banda di «nani e ballerine», anche se poi concesse infine che «la politica è sangue e merda», come da suo intervento al congresso rusticano del Psi a Bari nel 1991, un evento che meriterebbe di essere raccontato come un film western.

Di più, negli ultimi anni di carriera, prima di farsi travolgere da Tangentopoli, Craxi si è reso protagonista di una serie di politiche antipopolari e inquietanti. Un tentativo opportunista di restare sulla cresta dell’onda: rimase affascinato dalla «tolleranza zero» di Rudy Giuliani sulla droga, tanto per dirne una poco nota ma, a mio parere, gravissima e sbagliatissima.

Ma l’opportunismo, si sa, alla lunga non paga. Soprattutto se nasci Bettino Craxi e sei destinato ad essere un personaggio pesante, non un figurante alla ricerca di un ruolo con un paio di battute nella storia.

E la sua fine è tutta qui: ubriaco di potere, pensò di poter vincere da solo contro tutti. E anche in questo Craxi è stato modernissimo.

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