A novembre, torna a salire leggermente l’occupazione nel paese, +41 mila nuove unità rispetto al mese precedente, merito soprattutto degli over50 e della classe tra i 25 e i 34 anni di età, aumenti peraltro quasi tutti appannaggio della componente femminile (+35 mila) rispetto a quella maschile, pressoché stabile.
A destare preoccupazione però sono soprattutto:
i) il calo tendenziale (anno su anno) del tasso di occupazione della fascia mediana della popolazione, 35-49 anni, quella più difficilmente ricollocabile per questioni di età (e dunque di formazione su nuovi ambiti) e di specializzazione acquisita (che rende più difficile accettare anche un eventuale contratto “al ribasso”, di per sé deprecabile);
ii) l’assenza di turnover tra giovani e anziani nel mercato del lavoro, fotografata dall’aumento del numero di occupati tra gli over50 (perché si va sempre più tardi in pensione, purtroppo anche con gravi conseguenze) e il tasso di disoccupazione dei giovanissimi, quelli con meno 25 anni eligibili per una posizione lavorativa, stabile al 28,6%, cifra che colloca l’Italia all’ultimo posto nei paesi dell’Eurozona.
Nota positiva è invece l’aumento sia congiunturale che tendenziale dei dipendenti permanenti rispetto a quelli a termine (a cui va aggiunto il calo degli autonomi). Tuttavia, qui giocano un ruolo fondamentale, da una parte, la precarizzazione generale del campo del Lavoro innescata dal Jobs Act e dal contratto a tutele crescenti (che di fatto mette in soffitta il concetto di “stabilità” come asse portante del rapporto lavorativo), e, dall’altra, i massicci bonus messi a disposizione dei “datori di lavoro” per stimolare l’occupazione, spesso sotto forma di sgravi o esoneri dei contributi da versare al lavoratore, o alla lavoratrice.
Se l’occupazione non ride (siamo sempre nelle retrovie nel confronto con tutta l’Ue, con i più alti tassi di “scoraggiati” e “inattivi”, ossia coloro che per un motivo o per l’altro hanno perso le speranze di trovare un lavoro e hanno perciò smesso perfino di cercalo, con gravissime conseguenze per questi soggetti sulle possibilità di integrazione e sviluppo sociale tout court), la produzione industriale piange, facendo registrare, a dispetto di un leggerissimo rimbalzo positivo dello 0,1% sul mese precedente, una flessione dello 0,7% nel trimestre settembre-novembre e di 0,6 punti percentuali su novembre dello scorso anno (calo tendenziale), confermando dunque il trend della deindustrializzazione che da tempo caratterizza il nostro paese (male manifattura per il nono mese consecutivo, tessile e, in maniera minore, beni intermedi e strumentali) con conseguenze pesanti in termini di diseguaglianze e destino del sistema-Italia, soprattutto per le fasce più in difficoltà della popolazione.
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