di Michele Giorgio – il Manifesto
Brett Crozier è sceso
dalla USS Roosevelt tra gli applausi di centinaia di marinai. «Capitano
Crozier, Capitano Crozier» hanno scandito rivolgendosi all’ufficiale che
con largo anticipo aveva messo in guardia i comandi militari sui rischi
per l’intero equipaggio della portaerei dove poi si sono registrati
decine di casi positivi al coronavirus. Invece, giovedì Crozier è stato
messo alla porta dopo aver scritto una lettera, finita poi alla stampa,
in cui emerge che da tempo chiedeva aiuti immediati per la Roosevelt,
con grave imbarazzo per i suoi superiori insensibili, almeno
inizialmente, alla gravità della situazione. A nulla sono servite le
66mila firme su Change.org per reintegrare Crozier nel suo incarico. Il
Sottosegretario alla Marina Thomas Modly ha addossato ogni
responsabilità proprio al capitano che, a suo dire, non avrebbe tutelato
con professionalità la salute dei marinai.
L’infezione corre tra i militari statunitensi. E ogni giorno si segnalano nuovi positivi nella Marina fiore all’occhiello degli apparati bellici agli ordini di Donald Trump.
Sulle navi, dove i marinai dormono e lavorano insieme in spazi
ristretti, il virus si diffonde come un incendio. Eppure il presidente
americano, nonostante il pericolo del Covid-19, non intende allentare la
pressione che la Marina Usa esercita in alcune aree del mondo. A
cominciare dal Golfo dove la possibilità di un conflitto con l’Iran è
tornata a farsi concreta in questi ultimi giorni. E difficilmente
gli Usa seguiranno i paesi europei che, dimenticando le sanzioni, hanno
deciso di inviare a Tehran aiuti in un momento decisivo per la lotta al
virus che in Iran ha già fatto migliaia di morti. Qualche
segnale nella stessa direzione era stato lanciato nei giorni scorsi
anche dal segretario di stato Mike Pompeo ma poi non se ne è saputo più
niente. Quello che è certo al momento è che le squadre navali che si
alternano nelle operazioni nel Golfo, a breve distanza dalle coste
iraniane, sono di nuovo in stato di allerta.
Secondo la Casa Bianca, l’Iran e le milizie
sciite sue alleate starebbero pianificando un attacco in grande stile contro
le forze militari e il personale statunitense di stanza in Iraq.
«Se ciò accadrà, l’Iran pagherà un prezzo altissimo», ha avvertito
Trump che, riferiscono fonti irachene e Usa, ha dato ordine di
dispiegare batterie di missili Patriot intorno alle basi della
coalizione a guida americana che operano in Iraq e nella regione,
ufficialmente contro l’Isis. Una delle batterie è stata consegnata alla
base di Ain al Asad, nell’Iraq occidentale, colpita dall’attacco con missili balistici lanciato a gennaio dall’Iran in seguito all’assassinio del
generale dei Guardiani della rivoluzione iraniana Qasem Soleimani, in un
raid statunitense nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. Una seconda
batteria sarà dislocata a Erbil, nel Kurdistan iracheno, e altre due in
Kuwait. Nel frattempo a Washington si dicono convinti che dietro
l’uccisione a Istanbul, il 14 novembre 2019, del dissidente iraniano
Masoud Molavi Vardanjani si celi l’intelligence di Tehran. Per gli Usa
sarebbe un’altra «dimostrazione» dei crimini che commetterebbe l’Iran.
Tehran condanna il dispiegamento dei Patriot e accusa Trump di portare il Medio Oriente «al disastro» mentre infuria la pandemia di coronavirus.
Più di tutto respinge la tesi statunitense di essere dietro gli ultimi
attacchi con razzi delle milizie sciite contro basi e postazioni
americane in Iraq. Il motivo vero degli attacchi, spiegano gli iraniani,
è che la presenza degli Stati Uniti in Iraq è «contraria alla posizione
ufficiale del governo, del parlamento e del popolo iracheno».
Washington quindi deve «lasciare il paese».
Secondo il ministro
degli esteri, Mohammad Javad Zarif, l’Iran agisce solo per legittima
difesa e «non ha proxies, ma amici... Non lasciatevi ingannare di nuovo dai
soliti guerrafondai». Naturalmente l’Iran non è l’agenzia
umanitaria e pacifista che racconta Zarif. Tuttavia è arduo credere che
Tehran cerchi una guerra aperta con gli Usa mentre fatica a contenere
una epidemia gravissima che, tra le altre cose, ha causato il crollo del
prezzo del petrolio e penalizzato ulteriormente l’economia già colpita
dalle sanzioni Usa, aggravate anche di recente.
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