Le “svolte storiche”, se non passano per sollevazioni, piazza e fiamme sulle barricate, appaiono come tali solo molto tempo dopo. Questo dovrebbe spiazzare gli “esteti” del cambiamento e indurli a ragionare sui “fondamentali” di una società capitalistica complessa. Ma c’è poco da sperare...
Stesso discorso per i policy maker nazionali, concentrati invece sul terribile dilemma “ci teniamo Giuseppe Conte o affidiamo tutto a Mario Draghi?”.
La svolta di cui parliamo è quella messa in atto dalla Federal Reserve statunitense, che ha abbandonato il riferimento al tasso di inflazione annuo al 2% come architrave della politica monetaria. La variazione sembra piccola (verrà tenuta d’occhio la “media” dei tassi di inflazione su più anni, peraltro non specificati, il che lascia un margine di discrezionalità decisamente ampio), ma rappresenta una rottura decisa con un pilastro del monetarismo neoliberista che domina da quasi 40 anni.
È la fine del “pensiero unico”, anche se pochi sembrano averlo capito. Ci vorrà tempo perché venga razionalizzato e si cominci a pensare, nelle accademie e nelle banche centrali, ad un paradigma alternativo. Ma “i mercati” hanno già colto la novità e stanno dunque premendo oggettivamente perché anche sul fronte europeo si prenda atto che quel mondo è finito.
Andiamo con ordine. I giornali specializzati registrano con qualche preoccupazione che il tasso di inflazione europeo si colloca, ad agosto, in “territorio negativo”: -0,2%. Di fatto, abbiamo il problema opposto, ossia la deflazione, come nel 2016. Ed è una pessima notizia per chi attende o lavora alla “ripresa”, perché se ci si attende che i prezzi calino, difficilmente si investe per produrre (quando la merce arriverà sul mercato si incasserà meno di quanto atteso, magari si andrà addirittura in perdita).
Come da oltre dieci anni a questa parte, lo sguardo va immediatamente alla Banca Centrale Europea, da cui ci si attende a questo punto la solita mossa: iniezioni di liquidità nel sistema finanziario, tramite acquisto di titoli di Stato o azionari.
Il problema è che questo tipo di intervento è già in atto, con i tassi di interesse a zero, e dunque l’unica possibilità è aumentare la portata dell’intervento: magari 500 miliardi di euro in più rispetto ai 1.350 già preventivati fino alla fine del 2021.
Problema ulteriore: questa politica monetaria già definita non convenzionale dal suo ideatore, Mario Draghi, non ha prodotto alcun effetto sull’inflazione, che in tutto il periodo è rimasta ben al di sotto dell’obbiettivo del 2%.
Come sintetizza su Milano Finanza Angelo De Mattia, ex direttore del Centro Studi della Banca d’Italia, “si tratta di un insuccesso evidente della politica monetaria, di cui si dovrebbe tenere conto allorché si effettuano consuntivi”.
Se una politica è fallita, ne serve un’altra. Ed anche rapidamente, perché la mossa della Fed sta producendo i suoi primi effetti sotto forma di svalutazione del dollaro e apprezzamento dell’euro. Il che, per le esportazioni continentali, è una prospettiva mortale. Specie se hai adottato da decenni un modello “mercantilista” orientato alle esportazioni a scapito della domanda – e dei salari – interna, cui vanno aggiunte le pesanti conseguenze negative della pandemia sugli scambi internazionali. Altro che “ripresa”, insomma...
La Bce è limitata non solo dalle politiche “inutili” seguite finora, ma anche e soprattutto dal proprio statuto fondativo. Che ne limita gli obbiettivi al solo “controllo dell’inflazione” (sotto, ma vicino al 2%). Mentre la Fed ha anche l’obbiettivo di controllare il tasso di disoccupazione.
La differenza di mandato è evidente: la Bce fa fatica a muoversi, deve continuamente forzare l’interpretazione della “stabilità monetaria” e far imbufalire la Germania, che guarda caso aveva imposto quel tipo di statuto copiandolo da quello di Bundesbank.
Dunque, prima o poi, tra immense resistenze (gli interessi dei Paesi membri che fin qui ci hanno guadagnato, i “frugali con i soldi degli altri”, e quelli che ci hanno rimesso sono poco conciliabili) bisognerà arrivare a una modifica statutaria del mandato della Bce ed anche, di conseguenza, della logica complessiva dei trattati istitutivi dell’Unione Europea.
Tutto ciò dentro una crisi di dimensioni colossali da cui nessuno sa come uscire (al di là delle chiacchiere di circostanza sul “tornare alla normalità” e “andrà tutto bene”).
Modificare la politica monetaria unica dell’Unione Europea implica necessariamente il metter mano anche alla politica economica e a quella di finanza pubblica. Che però, come si sa, rimangono figurativamente in carico ai governi nazionali sotto la supervisione della Commissione.
La quale agisce appunto sulla base di trattati scritti e sottoscritti seguendo la logica del pensiero unico neoliberista (in versione teutonica), oggi segnata da “evidente insuccesso”.
L’insuccesso più macroscopico viene segnalato da tempo: gli stimoli monetari (il quantitative easing) non si trasmettono all’economia reale. Salvano il sistema finanziario, ritirando titoli tossici o gravemente svalutati per sostituirli con “denaro fresco”, ma da lì non si trasformano in investimenti, prestiti a famiglie e imprese, ecc.
Peggio ancora, come abbiamo già scritto: si arma la mano di chi specula sul debito pubblico (di tutti gli Stati), costretti ad accollarsi nel frattempo i costi dei fallimenti del “privato”, quelli degli ammortizzatori sociali, ecc. Una pressione che dovrebbe indurre a tagliare tutte le spese non finalizzate alle aziende, privatizzando ogni patrimonio pubblico, smontando definitivamente welfare, pensioni, sanità, istruzione.
In cambio di niente, perché dai piani alti del sistema finanziario “non sgocciola nulla”.
Tutto questo non può tenere (“le cose si dissociano”), neanche al costo di trasformare l’Europa (non l’Unione Europea, che è solo un'”istituzione”) in un deserto attraversato da popolazioni di indigenti.
Bel rebus, per “politici” al di sotto di ogni rispetto.
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