Tra poche settimane, oltre alle elezioni in alcune regioni, si dovrà votare anche sul referendum costituzionale confermativo della legge che riduce il numero dei parlamentari.
Diciamo subito che noi voteremo, e invitiamo a votare, un NO chiaro e tondo. Ma quello che va evidenziato è il contesto e la partita politica non dichiarata intorno a questa scadenza.
È doveroso sottolineare come il tema del referendum – la riduzione del numero dei parlamentari – era uno dei punti del progetto golpista dei primi anni '80, noto come Piano di Rinascita Democratica accreditato alla loggia P2 di Licio Gelli.
In realtà tutti quei punti sono stati poi realizzati negli anni da un blocco politico trasversale – che ha attraversato governi di centro-destra e centro-sinistra – e che ha smantellato contestualmente parti significative della Costituzione e dei diritti dei lavoratori per imporre un assetto di governance esplicitamente antipopolare e reazionaria.
La riduzione dei parlamentari era uno degli ultimi tasselli da riempire. Insomma, non proprio un dettaglio da trascurare.
Che il M5S abbia impugnato come una clava il tema della riduzione del numero dei parlamentari, la dice lunga sul come il blocco reazionario non si sia mai posto problemi di bandiera, ma abbia invece puntato all’obiettivo utilizzando tutte le forze che si rendevano disponibili a perseguirlo.
Il carattere strumentale e deviante della lotta contro “la casta” – eredità velenosa dell’operazione Tangentopoli e di tutta la retorica sulla “seconda repubblica”– si desume dalla semplice constatazione che i costi della politica potevano essere ridotti riducendo le retribuzioni dei parlamentari e non il loro numero.
Il fatto che “siano troppi” è una semplificazione per allocchi, al di sotto di una battuta da bar.
Abbiamo sempre sostenuto che la rappresentanza più è ampia meglio è per l’ossigenazione democratica di un paese. Non costituisce un problema, ma riflette la dimensione della molteplicità degli interessi sociali che esistono e confliggono tra loro dentro una società. Vero è che questa dimensione negli anni è venuta via via scomparendo nelle istituzioni rappresentative, ormai diventate passacarte di decisioni prese altrove, a Bruxelles e Francoforte soprattutto, sistematicamente conformi agli interessi delle banche, delle grandi imprese e delle loro lobby.
Del resto, va ricordato che questo tentativo era già stato fatto dal governo Renzi con il referendum sull’abolizione del Senato. L’accento toscano e lo svolazzare di grembiulini già allora incombeva sul senso di quella operazione, sconfitta clamorosamente nel dicembre 2016.
Quella notte eravamo sotto Palazzo Chigi a chiedere le immediate dimissioni di Renzi. Non eravamo in tanti quanto avremmo dovuto essere, perché nella “sinistra” da troppo tempo si è persa l’energia e la capacità di affrontare le battaglie difficili, e dunque anche quella di presagire e poi salutare una vittoria.
Ma questo referendum si sta rivelando ancora più controverso. La legge che riduce il numero dei parlamentari è stata votata da tutti i partiti e dal 97% di chi siede alla Camera e al Senato. Nessuno, per ipocrisia, voleva dare l’impressione di difendere la poltrona.
Sulla carta lo schieramento per il Si alla conferma della legge è schiacciante, i sondaggi iniziali lo davano all’80%, con lo schieramento per il NO ridotto ad alcuni costituzionalisti, ai residui della sinistra extraparlamentare e poco altro.
Ma poi sono iniziate le grandi manovre, tipiche del peggior politicismo.
Le ultime sono quelle che vengono emergendo dentro il Pd e la Lega – ma anche in Forza Italia e Sinistra Italiana – che prima votano a favore della legge e alla vigilia del referendum vedono manifestarsi distinguo, maldipancia, cambiamenti di posizioni da tuffo carpiato con triplo avvitamento (come direbbe Gaber).
Insomma – al contrario di quanto scrisse Franco Fortini – in alcuni partiti “dov’era il Sì, adesso si affaccia il No”. Difficile credere ad una fulminazione. Più realistico vederci un cinico tentativo di sfruttare l’esito del referendum per mettere da parte il governo Conte e prepararne la successione con una coalizione “tutti dentro”, a parte qualche disperso.
Una vittoria risicata o non plebiscitaria del SI consentirebbe di dire che il patto di maggioranza che regge l’esecutivo è andato in frantumi, che il Paese non si riconosce più in questo assetto. In compenso l’approvazione della legge costituzionale che riduce i parlamentari costringerebbe a varare una nuova legge elettorale, preparata da una complicata operazione di ridisegno della base territoriale dei seggi, sia per il Senato sia per la Camera.
Impresa dai tempi non brevi, che porta dritto fino al “semestre bianco” che precede l’elezione del Presidente della Repubblica (da luglio 2021 a febbraio 2022).
In pratica la legislatura resterebbe in piedi fino alla fine del suo mandato (marzo 2023), ma potrebbe intanto cambiare l’inquilino di Palazzo Chigi. Non più Conte, ma una sorta di “commissario politico” in nome dell’unità nazionale.
O meglio un commissario con piena capacità e libertà di gestire i miliardi dei finanziamenti europei per ristrutturare il modello sociale italiano, allocando quei fondi dove la borghesia continentale e l’Unione Europea vogliono (imprese, grandi opere, etc.). Certo non dove richiederebbero le esigenze sociali, devastate prima da anni di austerity e poi dall’emergenza Covid-19.
Inutile dire che questo commissario dovrebbe essere uno già allenato per questo lavoro. Anzi, uno con il brevetto da pilota automatico: Mario Draghi, insomma.
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