Dott. Domenico Moro, Lei è autore del libro Eurosovranità o democrazia? Perché uscire dall’euro è necessario edito da Meltemi. L’euro, nato per costituire una tappa sul cammino dell’integrazione europea, ha finito per catalizzare su di sé il malcontento popolare per una crisi infinita: cos’è oggi l’euro?
L’euro è un elemento fondamentale dell’integrazione europea, anche se non tutti i Paesi dell’Ue ne fanno parte. Direi che oggi l’euro rappresenta l’architrave dell’intera costruzione europea. Quindi, è più corretto chiederci che cosa è oggi l’integrazione europea e in che modo l’euro agisce all’interno di essa. L’integrazione europea avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per avvicinare i diversi Stati. In realtà, si è prodotta, anziché una convergenza, una divergenza sempre maggiore tra Stati, in particolare tra la Germania e Paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia e, direi, anche la Francia, che, sebbene mantenga un profilo politico e diplomatico di grande potenza, è, dal punto di vista economico, in seria difficoltà. Ma il divario non è aumentato soltanto tra Paesi, anche all’interno dei singoli Paesi sono aumentate le divergenze, i divari tra ricchi e poveri. L’euro è una delle cause maggiori di questi processi di divergenza, essendo un fattore sia di riduzione del welfare sia di deflazione salariale. Infatti, il sistema dell’euro, essendo un sistema di cambi fissi, non permette le svalutazioni competitive che consentono di recuperare competitività sul mercato internazionale, spingendo così gli Stati più in difficoltà a usare la riduzione del costo del lavoro e dei salari come principale leva competitiva. Ma l’euro non è soltanto un progetto economico, bensì è soprattutto un progetto politico. L’euro è lo strumento per limitare la possibilità della maggioranza dei cittadini, in particolare dei lavoratori, di incidere sulle decisioni delle istituzioni statali, e per favorire le élite economiche, in particolare lo strato superiore del capitale, quello maggiormente internazionalizzato. In sostanza è un fattore di limitazione della sovranità popolare e democratica.
In che modo l’euro limita la sovranità democratica e popolare?
Innanzi tutto bisogna chiarire il concetto di sovranità, che peraltro è ampiamente analizzato nel suo divenire storico nel mio libro. Un’autorità è sovrana quando non c’è alcun potere al di sopra di essa. In particolare, uno Stato è sovrano nel senso che la sua legge non riconosce altre leggi che abbiano valore superiore. In uno Stato democratico la sovranità è del popolo che la esercita attraverso le elezioni e il Parlamento. Così prescrive la nostra Costituzione. Con l’integrazione e con l’euro tale sovranità popolare è inficiata e ridotta, perché alcune importanti funzioni dello Stato, come la moneta e il bilancio pubblico, sono delegate a organismi sovranazionali europei, come il Consiglio europeo, la Banca centrale europea, e la Commissione europea, i cui componenti, fra l’altro, non sono eletti ma nominati. In particolare, i trattati europei esercitano un controllo sul bilancio pubblico dei singoli stati, con l’inserimento dell’obbligo di pareggio di bilancio in Costituzione, e stabilendo dei “vincoli esterni”, cioè dei limiti al deficit pubblico, che non può superare il 3% del Pil, e al debito pubblico, che non può superare il 60% del Pil. Inoltre, gli Stati che hanno un debito superiore al 60% sono obbligati a ridurre il proprio debito per la quota eccedente in un arco di tempo di venti anni, realizzando ogni anno dei surplus primari elevati, cioè una eccedenza delle entrate sulle spese, al netto delle spese per gli interessi. Questo ovviamente comprime decisamente la possibilità di spesa e con essa l’autonomia decisionale dei parlamenti. L’euro è sostanzialmente un modo per bypassare i parlamenti nazionali e realizzare quella che alcuni anni fa si chiamava governabilità, cioè la capacità degli esecutivi, dei governi di agire a prescindere dal controllo e delle istanze espresse dal Parlamento. Di fatto, la Ue è un organismo intergovernativo, dove prevalgono gli esecutivi. Infatti, l’organismo europeo più importante è il Consiglio europeo – composto dai capi di governo della Ue – cui sono demandate le decisioni più importanti, di indirizzo generale della Ue e di nomina dei membri della Commissione europea e della Banca centrale europea (Bce). I trattati sono strettamente legati all’esistenza di una valuta unica per Paesi economicamente e socialmente molto diversi tra loro. Proprio la mancanza di autonomia valutaria è il maggiore impedimento alla definizione di politiche economiche e sociali autonome e calibrate sulle necessità del singolo Paese. Infatti, mancando il ruolo di prestatore di ultima istanza, rappresentato normalmente dalla Banca centrale, si perde la possibilità di finanziare direttamente il debito pubblico, e quindi la spesa pubblica, con l’emissione di liquidità. Nel mio libro descrivo il processo storico e le motivazioni politiche che hanno portato all’euro. La classe dirigente italiana degli ultimi decenni, sin dalla fine degli anni ’70, ha visto l’integrazione europea, e l’euro in particolare, come lo strumento per imporre delle scelte di politica economica e sociale che difficilmente sarebbero potute passare senza “vincoli esterni”. A questo proposito sono significative le parole di Guido Carli, che è stato governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975 e ministro del Tesoro dal 1989 al 1992: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento.”
Quali sono i limiti dell’Europa attuale?
L’integrazione europea e l’intera architettura dell’euro presentano un limite fondamentale. Questo risiede nell’irrigidimento dell’azione dello Stato rispetto al ciclo economico, ossia all’alternarsi, tipico dell’economia capitalistica, di fasi espansive e fasi recessive e rispetto agli shock esterni, ossia alle crisi che hanno origine all’esterno dell’area euro, come è stato nel caso della crisi del 2008, importata dagli Usa, e ora con la crisi del Covid-19. I vincoli esterni e l’indisponibilità di una Banca centrale che ricoprisse il ruolo di prestatore di ultima istanza hanno reso molto più difficile intervenire nella crisi del 2008. Anzi, l’introduzione del Fiscal compact nel 2012, che ha reso più rigidi i vincoli europei, ha finito per aggravare la crisi, deprimendo ancora di più la crescita del prodotto interno lordo. A distanza di più di dieci anni dallo scoppio della crisi, l’economia italiana non si era ancora del tutto ripresa quando è scoppiata la crisi del covid-19, che rappresenta la recessione di gran lunga più grave della storia repubblicana e che farà registrare nel 2020, secondo tutte le previsioni, il calo del Pil più consistente della storia unitaria, fatta eccezione per gli anni finali della Seconda guerra mondiale, quando l’Italia era un Paese devastato e terreno di scontro tra eserciti contrapposti. Di fronte a una crisi di tale portata le risposte della Ue risultano essere deboli e intempestive. Soprattutto non sembra che la crisi sia occasione per modificare il funzionamento della Ue. È vero che i vincoli al deficit e al debito posti dai trattati sono stati sospesi, ma il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha tenuto a precisare che, non appena possibile, i vincoli dovranno essere ristabiliti. Inoltre, la maggioranza degli “aiuti” europei alle economie nazionali, in particolare il Recovery Fund, il Mes e il Sure, sono prestiti, che andranno ad aumentare il debito complessivo (per l’Italia si prevede che nel 2020 il debito arrivi a circa il 160%). Si tratta di prestiti “senior”, cioè prestiti che hanno la precedenza nel rimborso da parte dello Stato. Di conseguenza, il tasso d’interesse sul debito “normale”, cioè i Btp, i titoli di stato emessi dal ministero del Tesoro, subirà un aumento, a causa dell’ipotetico maggiore rischio di insolvenza. Ma il limite maggiore degli aiuti europei sta nel fatto che, per essere erogati, devono avere l’approvazione della Commissione europea e in caso di dubbio devono avere il parere definitivo del Consiglio europeo. Tale approvazione è condizionata all’applicazione delle raccomandazioni e delle contro-riforme richieste dalla Commissione europea. Se non c’è questo via libera, le varie tranches in cui sono suddivisi i pagamenti non saranno pagate. Tra le contro-riforme di cui si chiederà la definitiva applicazione c’è la contro-riforma delle pensioni, la cosiddetta riforma Fornero, varata dal governo Monti, e la riduzione del costo del lavoro. Inoltre non bisogna dimenticare che le raccomandazioni della Commissione rivolte specificatamente ai singoli Paesi hanno riguardato, oltre che la richiesta di riduzione della spesa pubblica, anche i tagli a pensioni, sanità, salari, diritti dei lavoratori e sussidi per disoccupati e persone disabili. In particolare, tra 2014 e 2018, sono state rivolte agli Stati Ue 105 raccomandazioni per l’incremento dell’età pensionistica e la riduzione della spesa pensionistica, 63 raccomandazioni per i tagli alla spesa sanitaria o per la privatizzazione della sanità, 50 raccomandazioni per la soppressione di aumenti salariali, 38 raccomandazioni per la riduzione della sicurezza sul lavoro e dei diritti di contrattazione dei lavoratori, e 45 raccomandazioni per la riduzione dei sussidi a disoccupati e persone disabili.
Come si potrebbe articolare, a Suo avviso, un’Italexit?
L’uscita dalla Ue e dall’euro è una condizione necessaria ma non sufficiente. Necessaria perché all’interno dell’euro e della Ue non è possibile per i singoli Stati fare le politiche economiche e sociali di carattere espansivo che sarebbero necessarie, specie in occasione della crisi e perché un sistema di cambi fissi in un’area valutaria dove ci sono forti differenze competitive tra le economie nazionali, e non sono previsti trasferimenti dagli Stati più ricchi a quelli più poveri, porta alla contrazione salariale e, alla lunga, della base produttiva industriale. Non sufficiente perché l’uscita dall’euro va accompagnata con una serie di misure che, per l’appunto, permettano di sfruttare l’autonomia ritrovata. In primo luogo, ci sarebbe bisogno di ripristinare il ruolo di prestatore di ultima istanza della Banca d’Italia, che è stato annullato da prima dell’euro, nel 1981 (il cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro), portando al raddoppio in pochi anni del debito pubblico a causa del lievitare degli interessi sul debito. Se uscissimo dall’euro e dalla Ue senza che il ruolo di prestatore di ultima istanza venga ripristinato, saremmo di nuovo punto e daccapo, cioè in balia dei mercati internazionali dei capitali e i tassi d’interesse ricomincerebbero a salire. In secondo luogo, non dovendo più sottostare alla normativa europea sugli aiuti di Stato, si dovrebbe procedere con un intervento diretto dello Stato nell’economia. La decadenza italiana degli ultimi venticinque-trent’anni, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, è collegabile non soltanto all’introduzione del cambio fisso marco-lira (1997), che penalizzò le esportazioni italiane, ma anche alla contrazione della componente statale delle imprese. Le privatizzazioni hanno privato l’Italia di importanti imprese di grandi dimensioni che svolgevano ricerca e sviluppo, trainando il resto delle imprese. Oggi, il problema è che l’Italia ha imprese mediamente troppo piccole e che fanno poca ricerca e sviluppo. Quindi, l’Italexit dovrebbe vedere la ricostruzione di una economia mista (pubblico-privata), attraverso le nazionalizzazioni, a partire dai monopoli naturali e artificiali, e il ripristino della funzione di prestatore di ultima istanza da parte della Banca centrale per essere veramente efficace. Bisogna, però, aggiungere che l’intervento dello Stato nell’economia che intendo non ha nulla a che spartire con l’intervento statale nelle imprese che si sta prospettando ora con l’ingresso di Cassa depositi e prestiti nel capitale di imprese in difficoltà. Le “nazionalizzazioni” in corso sono a tempo, avendo la durata massima di cinque anni, e non prevedono una governance pubblica. Si tratta in pratica della classica socializzazione delle perdite private, cui il capitale ricorre nei momenti di difficoltà. Ciò a cui, invece, mi riferisco sono nazionalizzazioni reali, cioè la realizzazione di enti pubblici che svolgano una attività tesa allo sviluppo dell’economia in senso innovativo, in special modo nei settori più avanzati e con costi fissi più alti dove il privato non investe, e che non siano società quotate in borsa e con azionisti come i grandi fondi di investimento stranieri, come accade nel caso di Leonardo e Eni e come si prospetta per Aspi. In questi ultimi casi, l’obiettivo dell’impresa non può che essere il massimo profitto a breve termine in vista di un rialzo del valore di borsa delle azioni, invece che lo sviluppo di lungo periodo ecologicamente sostenibile dell’economia e la creazione di nuovi posti di lavoro. In sostanza accanto al prestatore di ultima istanza, dovrebbe esserci anche un datore di lavoro di ultima istanza, che non può che essere lo Stato. È, però, del tutto evidente che questo tipo di intervento statale richiede ampie trasformazioni nella struttura dello Stato, che, in questo senso, andrebbe sottratto all’influenza delle élite capitalistiche, che in Italia come nel resto d’Europa, anche grazie ai trattati e all’euro, si sono garantite un controllo molto più stretto che in passato delle istituzioni statali, modellandole a loro piacimento.
Quali conseguenze avrebbe per il nostro Paese l’uscita dall’euro?
Molti sono preoccupati soprattutto da un eventuale aumento dell’inflazione subito dopo l’uscita dall’euro. Il punto, però, è che da anni abbiamo il problema opposto, quello di una deflazione che riguarda l’area euro nel suo complesso e in particolare l’Italia. Ad esempio, ad agosto 2020, secondo Eurostat, l’area euro presentava una deflazione annuale del -0,2%, mentre l’Italia raggiungeva addirittura il -0,5%. Questo è dovuto alla profonda crisi e, prima ancora della crisi del covid-19, alla stagnazione in cui annaspava l’economia italiana e quella di gran parte dell’area euro. In un contesto del genere l’attenzione non dovrebbe essere rivolta all’inflazione, ma alla decrescita economica e all’aumento della disoccupazione. In sostanza, il mandato principale della Banca centrale europea, che è quello di mantenere l’inflazione intorno al 2%, è ampiamente disatteso. Quindi, per sintetizzare, è altamente improbabile che, in una situazione del genere, possa verificarsi una crescita dell’inflazione del 20% o 30%, come viene preconizzato da alcuni fautori dell’euro. Al contrario, un moderato aumento dell’inflazione sarebbe positivo per l’intera economia. Anche la fine del sistema di cambi fissi porterebbe a un mutamento sostanziale, potendosi utilizzare la leva del cambio al posto di quella salariale per aumentare la competitività delle esportazioni. L’aumento (moderato) dell’inflazione e il venir meno della compressione salariale a tutti i costi rimetterebbero in movimento la dialettica tra le parti sociali (portando ad esempio a un nuovo meccanismo di indicizzazione dei salari), che invece da anni è praticamente assente, appunto perché l’esistenza dell’euro e della Ue esercita un controllo sul conflitto sociale, di fatto neutralizzandolo. Infatti, se oggi siamo in una situazione di stagnazione perenne delle lotte sindacali, con l’eccezione di lotte anche radicali ma limitate a singoli settori, è dovuto non soltanto a responsabilità soggettive dei maggiori sindacati, ma anche alla oggettività rappresentata dalla gabbia dell’euro che impedisce la generalizzazione delle lotte. Con questo non voglio dire che l’uscita dall’euro sia una cosa semplice da farsi e che non implichi delle difficoltà di assestamento soprattutto nel breve periodo. Bisogna valutare attentamente i pro e i contro dell’uscita dall’euro e dalla Ue. In questo senso, l’alternativa all’uscita, cioè tirare a campare stando nell’euro e nella Ue, ha costi altissimi, come dice l’economista statunitense Stiglitz, che per l’eurozona nel suo complesso li calcola in migliaia di miliardi di dollari, e come larghi strati di lavoratori e disoccupati stanno sperimentando da anni in Italia e altrove nell’area euro. L’uscita dall’euro avrebbe conseguenze positive per il nostro Paese, soprattutto nel senso che sbloccherebbe una situazione incancrenita, fatta di una lunga crescita asfittica (che oggi si è tramutata in profonda recessione) e di un conflitto sociale a bassissima intensità. Forse, l’aspetto più importante da sottolineare è che le conseguenze di una eventuale italexit non andrebbero tanto quantificate a priori in termini econometrici, quanto dovrebbero essere più correttamente valutabili in base agli effetti socio-politici a cascata che genererebbe, rimuovendo le imbracature in cui l’economia e la società dei Paesi dell’area euro è costretta. E questo vale in particolare per il nostro Paese.
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