Materiale di studio interessante per un argomento – quella del commercio marittimo e della logistica internazionale – estremamente complesso, quindi ostico.
Per chi scrive, quanto segue non va considerato come il verbo, anzi a sinistra andrebbe studiato, per giungere a maneggiarlo quel tanto che basta da disarticolarlo completamente, perchè le prospettive che illumina fanno francamente attorcigliare lo stomaco.
Per chi scrive, quanto segue non va considerato come il verbo, anzi a sinistra andrebbe studiato, per giungere a maneggiarlo quel tanto che basta da disarticolarlo completamente, perchè le prospettive che illumina fanno francamente attorcigliare lo stomaco.
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L’Arrivo di Hamburger Hafen und Logistik, la società pubblica amburghese leader nella logistica portuale, sulle sponde della nostra città ha generato diverse reazioni politiche, molte positive, altre scettiche, alcune decisamente dietrologiche, al punto di denunciare la strisciante privatizzazione del Porto o addirittura la svendita della nostra sovranità a una nazione straniera. Per fare un po’ di chiarezza, soprattutto sulle prospettive che questa acquisizione può aprire per Trieste e in generale sullo stato del nostro sistema portuale, abbiamo rivolto alcune domande a Sergio Bologna.
Bologna, nato a Trieste nel 1937, ha insegnato in varie Università, in Italia e in Germania. Si è occupato di storia del movimento operaio, ha partecipato alla fondazione di riviste quali «Classe operaia» e «Primo Maggio». Espulso dall’Università, ha scelto di fare il consulente e in questa veste è stato coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale della Logistica (2010-2012) ed esperto del CNEL sui problemi marittimo-portuali. Ha steso il Manifesto programmatico ed è attivo in ACTA – L’associazione dei freelance.
L’acquisizione da parte della società amburghese HHLA del 50,1% della nuova Piattaforma Logistica di Trieste segna un passaggio potenzialmente storico per l’economia cittadina. In che quadro si inserisce tale operazione e cosa può significare per lo scalo anseatico e per quello adriatico? A un primo sguardo, l’acquisizione sembra seguire una logica di maggiore integrazione del sistema logistico europeo, rendendo ancora più fitta la rete che coinvolge porti, interporti, connessioni marittime e terrestri, in particolare quelle via ferro. Qual è l’effettiva tendenza, da questo punto di vista? E questo trend può portare anche a ricadute produttive nella nostra città?
Non è da oggi che gli imprenditori portuali tedeschi s’interessano all’Italia. Tanto per citare esempi illustri: il porto di Gioia Tauro non è stato forse gestito negli ultimi trent’anni da un società italiana controllata da un gruppo tedesco, anzi, più precisamente di Amburgo? E questo stesso gruppo non ha forse messo le mani su La Spezia, dove tuttora è presente, e in altri scali come Cagliari, Salerno e Ravenna? Il gruppo Eurogate, che fa capo alla famiglia Eckelmann, è tra l’altro il principale competitor di HHLA all’interno del porto di Amburgo ed ha costruito il suo network internazionale con largo anticipo su HHLA, investendo non solo in Italia ma anche in Portogallo e in Russia. HHLA prima di mettere piede a Trieste ha ottenuto delle concessioni a Tallinn e a Odessa.
Con che logica si muovono questi gruppi, che appartengono al settore dei GTO, Global Terminal Operator, uno dei settori dove la concentrazione di capitali ormai ha raggiunto livelli quasi parossistici? La logica è quella di offrire ai propri clienti, che sono le potenti compagnie marittime specializzate nei traffici di linea – colossi come Maersk, MSC, Cosco, CMA CGM, Evergreen e altri dieci/dodici, consorziati per di più tra di loro in cosiddette Alliances – un servizio di stevedoring in diverse parti del globo, in modo da avere a) quel potere negoziale verso le compagnie marittime che consente loro di sopravvivere, b) una presenza su diversi mercati locali con un più ampio ventaglio di servizi ma soprattutto c) una visione dell’universo dei traffici nella sua complessità per anticipare la sua volatilità. Tutti vantaggi che non avrebbero se si limitassero ad essere presenti in un solo porto, anche se delle dimensioni di Amburgo. Finora, dovunque sono andati hanno portato traffici e occupazione. Perché? Perché i requisiti per resistere in questo mercato assai competitivo sono sempre più complessi ed elevati e il know how necessario richiede un grado di sofisticazione che ormai lo rende un patrimonio di pochi. HHLA e Eurogate appartengono a questo club ristretto, anche se la loro dimensione è molto minore rispetto a giganti come CK Hutchison o PSA. Perciò se un porto vuol sopravvivere e crescere e magari avere ambizioni anche più elevate, per esempio essere un porto internazionale, o si affida a questi specialisti o rimane una scatola vuota.
Il mestiere del terminalista non è un mestiere facile. Uno potrebbe dire: “Beh ma che fanno di tanto difficile? Prendono degli scatoloni da dentro una stiva e li mettono su una banchina e viceversa, fa tutto la gru, coi semirimorchi delle navi Ro Ro addirittura non c’è bisogno nemmeno della gru, scendono e salgono dalla nave da soli, quando si tratta poi di merci solide alla rinfusa ci sono sistemi automatizzati, basta schiacciare un bottone...”. Quello che non si vuol capire è che il know how consiste nel sistema di relazioni che i terminalisti debbono saper intessere e gestire con i loro clienti e fornitori, debbono inoltre saper organizzare e gestire la consegna delle merci a destino o il prelievo delle merci dal cliente e debbono saperlo fare col camion ma soprattutto con il treno, debbono essere specialisti dell’intermodale ed anche per questo occorre un know how non indifferente.
Ma c’è un elemento in più che spiega la logica di rete dei terminalisti, anzi, sempre più diventa l’elemento decisivo nelle loro scelte ed è il fatto che negli ultimi quindici anni le compagnie marittime medesime si sono sdoppiate, diventando esse stesse operatori terminalistici oltre che carrier e hanno fatto incetta a man bassa di spazi di banchina, anzi hanno acquisito interi porti o si sono fatte dare concessioni decennali, insomma sono diventate le dirette concorrenti dei vari PSA, HHLA, Eurogate e via dicendo.
Che cosa vuol dire tutto questo? Che le barriere all’entrata nel mercato dei servizi portuali sono diventate talmente elevate che non è immaginabile che qualche impresa “nuova entrante” possa pensare di farcela, soprattutto se pensiamo alle rachitiche imprese italiane. Trent’anni fa, al tempo della privatizzazione dei nostri porti, la situazione era differente, c’erano ancora dei margini di manovra per delle imprese, anche di modeste dimensioni. Infatti, chi ha preso in mano la gestione di tante banchine allora, dopo la riforma del 1984 con cui s’introduceva per la prima volta la privatizzazione? Degli agenti marittimi, che si sono improvvisati terminalisti pur non avendo uno specifico know how. E perché ce l’hanno fatta, dopotutto? Perché erano gli unici ad avere le famose relazioni con le grandi compagnie marittime, con i carrier. Relazioni e reputazione sono strettamente intrecciate.
A Trieste abbiamo un esempio da manuale: Pierluigi Maneschi, agente marittimo livornese, aveva dei rapporti consolidati con Evergreen, società cinese di Taiwan, allora ai vertici della classifica mondiale dello shipping. Grazie a questi rapporti si è sentito abbastanza sicuro da prendere in gestione il molo VII ed è riuscito a vendere a Evergreen il Lloyd Triestino ribattezzato Italia marittima. Ma quello che era possibile trent’anni fa oggi è semplicemente impensabile tant’è vero che gli ex agenti marittimi diventati terminalisti, sto pensando per esempio al gruppo che faceva capo a Negri nel porto di Genova, si stanno ritirando dal mercato e cedono a operatori globali o a fondi d’investimento le loro pur fiorenti aziende terminalistiche. Sono stati criticati per questo, in particolare quando hanno fatto entrare i fondi, perché questi avrebbero una visione speculativa a beve termine. Io non la penso così, i fondi ci possono stare purché ci sia nella compagine societaria un socio “industriale” detentore di quello specifico know how multimodale e dotato di relazioni internazionali con gli interlocutori “giusti”.
Da questo punto di vista non si poteva trovare un socio migliore di HHLA per la PLT. HHLA ha 130 anni di storia, sul sito elenca ben 51 tipologie diverse di servizio che offre ai clienti, dallo stevedoring all’intermodale, dalla logistica all’informatica, dall’immobiliare alla consulenza; è all’avanguardia nella digitalizzazione, nell’uso sistematico dei droni, nell’Internet delle cose. Per essere un gruppo pubblico, controllato dalla città-stato di Amburgo, ha un dinamismo eccezionale.
Conosco HHLA dal 1979/80, quando ho messo piede per la prima volta nel loro terminal di Amburgo in compagnia di alcuni “camalli” genovesi, diventai amico di alcuni suoi delegati sindacali, che mi hanno introdotto in certe pieghe della cultura aziendale, li ho frequentati molto nei tre anni successivi quando insegnavo a Brema ed ho cominciato anche a frequentare il porto di Bremerhaven. Il mio padrone di casa era un sindacalista di spicco di Hapag Lloyd, aveva un grande rispetto per il mio passato “operaista”. Lo accompagnavo qualche volta a bordo delle navi ormeggiate in porto.
Da quanto dici sembra però che agli italiani non rimanga che ritirarsi in buon ordine, consegnando tutte le loro infrastrutture allo straniero.
Mi ricordi il vecchio refrain patriottico: “Il Piave mormorò, non passa lo straniero... zan, zan...”.
No, penso che nemmeno il Piave avrebbe nulla da dire, oggi... A parte gli scherzi, qui mi auguro non si ripeta il polverone sollevato a proposito dei cinesi, quando d’Agostino fu attaccato per il famoso Memorandum... E sì che allora lui era andato a Pechino a negoziare piuttosto degli investimenti italiani in Cina che degli investimenti cinesi in Italia e quando i cinesi, che sono dei gran paraculi, gli hanno proposto dei siti messi molto male, li ha mandati bellamente a quel paese. Ancora non si è capito che nel porto di Trieste non si entra per fare da padroni, si entra a condizione di rispettarne le regole e la cultura.
Con un’azienda come HHLA non c’è bisogno di lanciare moniti di questo tipo, sono un gruppo talmente solido nei valori che il loro approccio è sempre quello di una learning company, con un enorme rispetto verso gli altri dai quali pensano sempre di poter imparare qualcosa. Basti sapere che loro, pur essendo di gran lunga i primi in Europa nei traffici intermodali retroportuali, hanno voluto subito andare a vedere come riusciamo noi a fare la manovra ferroviaria malgrado un’infrastruttura che grida vendetta al cielo. Non è un caso che il discorso che la loro CEO Angela Titzrath ha fatto alla cerimonia di chiusura dei lavori della PLT, peraltro applauditissimo, è stato un discorso di respiro politico europeo. È una che ha lavorato 22 anni alla Mercedes, viene dall’industria, dall’automotive, ha vissuto a Roma e parla bene l’italiano. Pur sapendo benissimo dove si trovava, ha condannato i nazionalismi senza mezzi termini, ha esaltato l’integrazione europea e auspicato la solidarietà collettiva verso i Paesi più colpiti dalla pandemia (se ha lavorato alla Mercedes deve saper bene che senza fornitori e subfornitori italiani l’industria automobilistica tedesca non va avanti).
Io credo che per avvicinarsi alla loro cultura aziendale fareste bene a scaricarvi da Internet la sintesi del loro Sustainability Report. Vi fareste un’idea di cosa può significare veramente logistica sostenibile. Sono stati i primi a introdurre l’automazione spinta nel loro terminal di Altenwerder (era il 2002 se non erro), ma alcuni anni dopo hanno assunto in quel terminal circa 100 persone. È una storia che varrebbe la pena approfondire, oggi quel terminal automatizzato alimenta a batterie gli AGV (automatic guided vehicle che spostano i container all’interno del terminal) ed è certificato come il primo a essere klimaneutral.
Facendo perno sull’Accademia del Mare e sull’AIOM, penso che dovremmo approfittare di questo ingresso di HHLA nel porto per organizzare un trasferimento di know how in piena regola. Vorrei attivare in questo senso i miei contatti a livello di BVL, l’Associazione di Logistica Tedesca (quello che per 20 anni ne è stato il Presidente ha fatto parte degli organi di sorveglianza di HHLA, mentre il nuovo Presidente di BVL, Thomas Wimmer, è un vecchio amico). Mi auguro che le associazioni imprenditoriali del cluster marittimo-portuale e la stessa Confindustria regionale dimostrino interesse e che su questo piano l’Autorità di Sistema, assieme a una parte del mondo scientifico e della ricerca che a Trieste di certo non manca, ci possa seguire: la Camera di Commercio italo-tedesca di Monaco, il cui segretario generale Alessandro Marino, triestino, ha fatto da moderatore alla cerimonia del 30 settembre, c’incoraggia a muoverci in questa direzione.
Ci stai dicendo tante belle cose di HHLA e dei tedeschi ma resta alla fine l’impressione che agli italiani non resta che fare da comprimari.
Senti, i numeri sono numeri. HHLA ha 6.300 dipendenti, più della metà dell’intera occupazione nei porti italiani sedi di Autorità di Sistema, che ai tempi di Del Rio era stata stimata in 11mila persone. Quindi dal punto di vista della dimensione non possiamo nemmeno fare dei paragoni. Ciò non significa però che le aziende italiane non abbiano delle risorse in termini di know how e di esperienza che consente loro non solo di giocare un ruolo a livello internazionale ma di avere delle idee di business innovative, in un mondo nel quale il fattore reputazionale svolge un ruolo importante.
Il caso della PLT è un caso esemplare se pensiamo alle due aziende italiane che sono state i due pilastri principali dell’iniziativa, ICOP e Parisi. Parisi ha 150 anni di storia, ha una reputazione che le consente di avviare un dialogo anche con imprese globali e di coinvolgerle in iniziative con ricadute sul nostro territorio, Francesco Parisi è stato Presidente mondiale di FIATA, la Federazione Internazionale delle Associazioni di Spedizionieri. Ma ci sono dei gruppi italiani di tutto rispetto anche in termini dimensionali. Proprio se penso alla storia dell’imprenditoria triestina e dalmata mi viene in mente il nome della Fratelli Cosulich che, dopo aver avuto una grande fortuna, nell’immediato dopoguerra aveva subito un tracollo ed oggi ha risalito pian piano la china fino ad arrivare ad essere uno dei primi, se non il primo, gruppo integrato italiano, con 1,5 miliardi di fatturato annuo (il fatturato di HHLA nel 2019 sommando il segmento stevedoring e quello intermodale è stato di 1.286,6 mln/€). E la Fratelli Cosulich sta anch’essa guardando con interesse alla nostra portualità, magari non a Trieste ma a Monfalcone o Porto Nogaro.
Cosa voglio dire con questo? Tre cose. Primo, che la dimensione non è tutto, conta moltissimo l’esperienza e soprattutto l’etica aziendale, contano i fattori immateriali che si traducono in vantaggi reputazionali. Secondo, che la storia e la tradizione sono valori preziosi, anche se rari. Parisi fondata nel 1807, Fratelli Cosulich nel 1857, HHLA nel 1885. Terzo, che non bisogna guardare solo ed esclusivamente al container, la PLT è un progetto interessante perché è un terminal multipurpose, quindi estremamente flessibile. Quindi i triestini non debbono temere l’ingresso dei tedeschi – non abbiamo parlato dell’intermodale e delle prospettive che si aprono su quel versante – lascino da parte le loro paturnie e pensino invece come possono trarre il maggiore vantaggio da questa situazione.
Quanto poi ai tedeschi del settore shipping e affini hanno anche loro i loro buchi neri: nel settore della finanza navale soprattutto. Ho scritto ben due libri sulla crisi di banche come HSH Nordbank (guarda caso banca pubblica di Amburgo), e dopo ne sono successe altre di peggio come il crollo di P&R, noleggiatore di container, la più grossa truffa del dopoguerra in Germania. Tutto il mondo è paese...
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